La successione del coniuge e del convivente
22 Giugno 2016
Successione legittima
Se la successione è ab intestato, al coniuge si devolve tutta l'eredità solo nel caso in cui egli non concorra con figli, ascendenti, fratelli o sorelle (art. 583 c.c.). Quindi, il coniuge è erede universale solo nel caso in cui manchino tutti gli altri parenti previsti dalla legge. In presenza di figli, questi (in base al principio che il parente prossimo estromette il remoto) escludono dal novero dei successibili ascendenti fratelli o sorelle per cui si avrà concorso solo fra coniuge e figli. In tal caso, il coniuge ha diritto alla metà dell'eredità se alla successione concorre un solo figlio, e ad un terzo negli altri casi (art. 581 c.c.). Solo in assenza di figli, gli ascendenti e i fratelli o le sorelle sono contemplati fra i successibili: al coniuge sono devoluti i due terzi dell'eredità se egli concorre con ascendenti o con fratelli e sorelle anche se unilaterali, ovvero con gli uni e con gli altri (art. 582 c.c.). Dunque, nelle successioni legittime la quota che spetta al coniuge superstite non è mai inferiore ad un terzo. Successione necessaria
Il coniuge è naturalmente contemplato anche fra i legittimari dalle norme relative alla successione necessaria (art. 536 c.c.). A favore del coniuge è riservata la metà del patrimonio dell'altro coniuge (art. 540 c.c.), salvo il caso in cui concorra con altri legittimari (figli ed ascendenti). Se chi muore lascia, oltre al coniuge, un solo figlio a quest'ultimo è riservato un terzo del patrimonio ed un altro terzo spetta al coniuge; quando i figli sono più di uno, ad essi è complessivamente riservata la metà del patrimonio e al coniuge spetta un quarto del patrimonio del defunto (art. 542 c.c.). Quando chi muore non lascia figli, ma ascendenti e il coniuge, a quest'ultimo è riservata la metà del patrimonio, agli ascendenti un quarto (art. 544 c.c.). La quota riservata al coniuge legittimario si riferisce a tutto il patrimonio del de cuius (relictum più donatum), mentre le quote nella successione legittima si riferiscono solo al relictum. Dunque, è vero che il coniuge è insieme legittimario ed erede legittimo, ma non si tratta di una duplicazione in quanto la qualifica di legittimario acquista rilevanza solo quando la successione legittima non è sufficiente ad attribuirgli quanto gli spetta come legittimario a causa di disposizioni testamentarie o da donazioni a favore di altri soggetti. Presupposti soggettivi
Affinché possa verificarsi la successione del coniuge è evidente che deve essere stato contratto un matrimonio valido (almeno secondo le previsioni dettate in materia di matrimonio putativo) e che esso, al momento dell'apertura della successione, non sia stato sciolto. L'onere della prova della qualità di erede legittimo, ove questa qualità sia contestata, è soddisfatto non dalla presentazione della denuncia di successione, ma dalla produzione degli atti dello stato civile, dai quali si desume il rapporto di coniugio con il de cuius, a norma dell'art. 565 c.c. (Cass. 10 febbraio 1995, n. 1484). Laddove chi vanti la qualità ereditaria si trovi nella impossibilità di produrre in giudizio gli atti di stato civile per fatti indipendenti dalla sua volontà (ad esempio, per mancanza, distruzione o smarrimento dei registri dello stato civile, oppure per mancanza della registrazione o annotazione di un atto) può fornire la prova del rapporto di parentela con ogni mezzo a norma dell'art. 452 c.c. (Cass. 29 marzo 2006, n. 7276). Successione del coniuge putativo
Al coniuge putativo (art. 128 c.c.) spettano gli stessi diritti successori riconosciuti ordinariamente al coniuge (art. 584 c.c.). Affinché il coniuge putativo possa venire alla successione è indispensabile che il matrimonio sia stato dichiarato nullo dopo la morte dell'altro coniuge: infatti, gli effetti del matrimonio valido si producono, in favore dei coniugi, fino alla sentenza che pronunzia la nullità. Se, dunque, il matrimonio è dichiarato nullo prima dell'apertura della successione, non si avrà delazione dell'eredità a favore del coniuge putativo, divenuto ormai estraneo rispetto all'ereditando. Per escludere dalla successione il coniuge putativo non è sufficiente una sentenza di nullità di primo grado - come pure si è affermato, argomentando a contrario dall'art. 585 c.c. (in tal senso A. Cicu, Successioni, Giuffrè, 194; M. Allara, La successione familiare suppletiva, Torino, 158) - ma è necessario il suo passaggio in giudicato. L'art. 584 c.c. indica quale successibile solo il coniuge superstite in buona fede; tuttavia, la dottrina concorda nel ritenere che partecipi alla successione anche il coniuge il cui consenso sia stato estorto con la violenza o determinato da timore di eccezionale gravità, stante l'equiparazione che l'art. 128 c.c. fa di tale situazione alla buona fede. L'ultimo comma dell'art. 584 c.c. precisa che il coniuge putativo è comunque escluso dalla successione se la persona della cui eredità si tratta è legata da valido matrimonio al momento della morte: il riferimento è all'ipotesi che si verifica quando l'ereditando abbia contratto un altro matrimonio (rispetto a quello putativo) che venga dichiarato invalido per bigamia una volta venuto meno l'ereditando stesso. Se dunque al momento dell'apertura il de cuius era legato da valido matrimonio con una terza persona il coniuge legittimo esclude il coniuge putativo. In tal caso, l'eredità si devolverà a favore del coniuge putativo solo laddove il coniuge legittimo non possa o non voglia venire alla successione (ad esempio, per rinuncia o indegnità). Successione del coniuge separato
Il coniuge separato a cui non sia stata addebitata la separazione con sentenza passata in giudicato ha gli stessi diritti successori del coniuge non separato (artt. 548, comma 1, e 585, comma 1, c.c.). Il coniuge cui è stata addebitata la separazione con sentenza passata in giudicato al momento dell'apertura della successione perde i diritti successori ma ha diritto soltanto ad un assegno vitalizio se al momento dell'apertura della successione godeva degli alimenti a carico del coniuge deceduto (art. 548, comma 2, c.c., richiamato dall'art. 585, comma 2, c.c.). L'assegno è commisurato alle sostanze ereditarie e non è comunque di entità superiore a quella della prestazione alimentare goduta. L'assegno ha natura di legato ex lege e trattasi di un diritto nuovo, acquisito dal coniuge superstite iure successionis; esso spetta al coniuge come legittimario, per cui le sostanze ereditarie alle quali va commisurato l'assegno devono intendersi calcolate sul relictum meno i debiti e più il donatum (diversamente da quello spettante al coniuge divorziato, che si calcola solo sul relictum). L'ammontare dell'assegno è inoltre commisurato al numero degli eredi legittimi, per cui esso è tanto minore quanto più numerosi e prossimi in grado sono questi ultimi. Soggetti tenuti al pagamento dell'assegno sono non soltanto gli eredi ma anche i legatari ed i donatari: «l'art. 548 è collocato tra le norme sui diritti di legittima, i quali si fanno valere contro coloro che sono stati beneficiati dal de cuius con lasciti testamentari o con donazioni. Se il defunto ha fatto liberalità, gravati dal legato in favore del coniuge separato sono gli eredi, i legatari e i donatari» (L. Mengoni, Delle successioni legittime, Art. 565-586, in Commentario A. Scialoja e G. Branca, Zanichelli - Soc. Ed. del Foro It., Bologna-Roma, 1985, 123). L'orientamento prevalente ritiene che l'assegno vitalizio in parola abbia natura alimentare in quanto correlato agli alimenti di cui già godeva il coniuge superstite, per cui potrà diminuire o cessare (non aumentare, stante la limitazione prevista dall'art. 548, comma 2, c.c.) secondo le variazioni dello stato di bisogno: «il diritto all'assegno, in altri termini, ha la stessa funzione dell'assegno alimentare che, durante il matrimonio, spetta al coniuge al quale sia addebitata la separazione (art. 156, comma 3, c.c.), né si vede quale sia la ragione per la quale, dopo la morte dell'altro coniuge, si debba ampliare il diritto prescindendo dallo stato di bisogno»(così G. Capozzi, Successioni e donazioni, tomo I, Giuffrè, 1983, 352). La disciplina dettata dal codice civile per la successione del coniuge separato con addebito di colpa si applica anche nel caso in cui la separazione sia stata addebitata ad entrambi i coniugi. Il diritto di abitazione sulla casa adibita a residenza familiare e di uso sui mobili che la corredano
Al coniuge, anche quando concorra con altri chiamati, sono riservati i diritti di abitazione sulla casa adibita a residenza familiare e di uso sui mobili che la corredano, se di proprietà del defunto o comuni. Tali diritti si configurano come legati ex lege che vengono acquisiti immediatamente dal coniuge superstite, secondo la regola dei legati di specie (art. 649, comma 2, c.c.), al momento dell'apertura della successione (Cass. 30 aprile 2012, n. 6625; Cass. 10 marzo 1987, n. 2474). Il coniuge superstite può dunque rinunciare all'eredità e conseguire i legati di cui sopra, e viceversa; inoltre, il coniuge superstite può anche conseguire uno solo di questi legati e rinunciare all'altro. La ratio di tale norma è da rinvenire nella tutela non tanto dell'interesse economico del coniuge superstite di disporre di un alloggio, quanto dell'interesse morale legato alla conservazione dei rapporti affettivi e consuetudinari con la casa familiare. Dunque, oggetto della tutela dell'art. 540, comma 2, c.c. non è il bisogno dell'alloggio (che da questa norma riceve protezione solo in via indiretta ed eventuale), ma sono altri interessi di natura non patrimoniale, riconoscibili solo in connessione con la qualità di erede del coniuge, quali la conservazione della memoria del coniuge scomparso, il mantenimento del tenore di vita, delle relazioni sociali e degli “status symbols” goduti durante il matrimonio (C. Cost. 26 maggio 1989, n. 310). Conseguentemente, ai diritti reali di abitazione della casa adibita a residenza familiare e di uso dei mobili che l'arredano, attribuiti al coniuge superstite dall'art. 540, comma 2, c.c., non si applicano gli artt. 1021 e 1022 c.c. nella parte in cui limitano il diritto in relazione al fabbisogno del titolare (Cass. 13 marzo 1999, n. 2263). Il diritto di abitazione in oggetto spetta in esclusivo riferimento alla casa che dai coniugi era stata concretamente adibita a residenza familiare: poiché, dunque, l'oggetto del diritto di abitazione mortis causa coincide con la casa adibita a residenza familiare, esso si identifica con l'immobile in cui i coniugi - secondo la loro determinazione convenzionale, assunta in base alle esigenze di entrambi- vivevano insieme stabilmente, organizzandovi la vita domestica del gruppo familiare (Cass., 14 marzo 2012, n. 4088). La legge richiede inoltre che la casa coniugale sia di proprietà esclusiva del defunto o in comunione fra i coniugi: ritenuto che la locuzione di cui al comma 2 dell'art. 540 c.c., “se di proprietà del defunto o comuni” è da interpretare “se di proprietà del defunto o comuni tra i coniugi”, deve essere negata la configurabilità del diritto di abitazione, ex art. 540 cit., in favore del coniuge superstite qualora la casa familiare sia in comunione tra il coniuge defunto ed un terzo (Cass. 23 maggio 2000, n. 6691; Cass. 22 luglio 1991, n. 8171). I diritti previsti dall'art. 540, comma 2, c.c. non spettano al coniuge separato. Ciò perché in caso di separazione personale dei coniugi e di cessazione della convivenza, l'impossibilità di individuare una casa adibita a residenza familiare fa venire meno il presupposto oggettivo richiesto ai fini dell'attribuzione dei diritti in parola. Se, infatti, il diritto di abitazione (e il correlato diritto d'uso sui mobili) in favore del coniuge superstite può avere ad oggetto esclusivamente l'immobile concretamente utilizzato prima della morte del de cuius come residenza familiare, è evidente che l'applicabilità della norma in esame è condizionata all'effettiva esistenza, al momento dell'apertura della successione, di una casa adibita ad abitazione familiare; evenienza che non ricorre allorché, a seguito della separazione personale, sia cessato lo stato di convivenza tra i coniugi. Nella ipotesi considerata, pertanto, essendo venuto meno il collegamento con l'originaria destinazione della casa di abitazione a “residenza familiare”, non può che ritenersi che il coniuge superstite perda i diritti in questione (Cass. 12 giugno 2014, n. 13407; Cass. 22 ottobre 2014, n. 22456). Parimenti si è affermato che i diritti in parola non spettano al coniuge superstite, che di sua spontanea volontà ha interrotto la convivenza di fatto con l'altro coniuge costituendo la propria residenza familiare in altra abitazione (Trib. Foggia 30 gennaio 1993). In tema di successione necessaria, la disposizione di cui all'art. 540, comma 2, c.c. determina un incremento quantitativo della quota contemplata in favore del coniuge, in quanto i diritti di abitazione e di uso (quindi, il loro valore capitale) si sommano alla quota riservata al coniuge. Posto che la norma stabilisce che i diritti di abitazione e di uso gravano, in primo luogo, la disponibile, ciò significa che, come prima operazione si deve calcolare la disponibile sul patrimonio relitto, ai sensi dell'art. 556 c.c. e, per conseguenza, determinare la quota di riserva. Calcolata poi la quota del coniuge nella successione necessaria, alla quota di riserva così ricavata si devono aggiungere i diritti di abitazione e di uso in concreto, il cui valore viene a gravare la disponibile (sempre che la disponibile sia capiente). Se la disponibile non è sufficiente, i diritti di abitazione e di uso gravano, anzitutto, sulla quota di riserva del coniuge, che viene ad essere diminuita della misura proporzionale a colmare l'incapienza della disponibile. Se neppure la quota di riserva del coniuge risulta sufficiente, i diritti di abitazione e di uso gravano sulla riserva dei figli (o degli altri legittimari) (Cass. 6 aprile 2000, n. 4329; Cass. 19 aprile 2013, n. 9651). Nell'ambito della successione legittima, l'art. 584, comma 1, c.c. relativo al coniuge putativo contempla espressamente l'applicabilità della disposizione stabilita dall'art. 540, comma 2, c.c. Tale richiamo manca, invece, nelle norme relative alla successione ab intestato del coniuge legittimo; tuttavia l'estensione dei diritti previsti da questa norma al coniuge legittimo non viene revocata in dubbio, perché sarebbe contrario al principio di eguaglianza che il coniuge putativo fosse trattato diversamente e in modo più favorevole rispetto al coniuge legittimo. Dunque, il valore capitale di tali diritti deve essere stralciato dall'asse ereditario, per poi procedere alla divisione di quest'ultimo tra tutti i coeredi secondo le norme della successione legittima, non tenendo conto dell'attribuzione dei suddetti diritti secondo un meccanismo assimilabile al prelegato (Cass., Sez. U., 27 febbraio 2013, n. 4847). Orbene il riconoscimento del diritto di abitazione nella successione legittima e la sua assimilazione ad un prelegato ex lege comportano che la concreta spettanza di tale diritto non è subordinata alla relativa domanda dal coniuge stesso, trattandosi di un diritto attribuito a quest'ultimo in tale tipo di delazione ereditaria direttamente dalla legge, con la conseguenza che il diritto deve essere riconosciuto al suddetto coniuge del de cuius senza la necessità di una sua espressa richiesta in tal senso (Cass. 31 luglio 2013, n. 18354). Successione del coniuge divorziato
I diritti successori cessano con il divorzio. La Cassazione ha ritenuto manifestamente infondata, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 583 c.c. nella parte in cui non prevede che, in assenza di altri successibili, l'eredità si devolva al coniuge divorziato. Infatti, l'art. 42, ultimo comma, della Costituzione ha rimesso la determinazione delle categorie dei chiamati alla successione legittima alla valutazione discrezionale del legislatore (la quale non incontra altri limiti che quello imposto dal principio costituzionale di tutela della famiglia ai sensi dell'art. 29 Cost. - limite non operante con il venir meno in via definitiva del vincolo matrimoniale, essendo da escludere la configurabilità nel rapporto tra coniugi divorziati di una comunità familiare). Inoltre, la scelta legislativa di non includere tra i successibili l'ex coniuge, anche in mancanza di chiamati per diritto di coniugio o di parentela, e di accordargli, in relazione all'eredità non si pone in contrasto con il principio di ragionevolezza (Cass. 25 febbraio 2004, n. 3747). Una limitata tutela successoria a favore del coniuge divorziato è tuttavia prevista dall'art. 9-bis della Legge sul divorzio (l. 1 dicembre 1970, n. 898), il quale stabilisce che a colui al quale è stato riconosciuto l'assegno di divorzio, qualora versi in stato di bisogno, il Tribunale, dopo il decesso dell'obbligato, può attribuire un assegno periodico a carico dell'eredità tenendo conto dell'importo di quelle somme, della entità del bisogno, dell'eventuale pensione di reversibilità, delle sostanze ereditarie, del numero e della qualità degli eredi e delle loro condizioni economiche. La giurisprudenza ha chiarito che con la possibilità di attribuire al coniuge divorziato del coniuge defunto un assegno alimentare a carico dell'eredità non si è attuato alcun trasferimento sul coniuge superstite o sugli eredi del defunto dell'obbligo che fosse stato imposto al de cuius di corrispondere l'assegno di divorzio all'ex coniuge, ma si sono costituiti a favore di questo dei nuovi ed autonomi diritti, nascenti dalla cessazione e dall'estinzione del diritto, di carattere prettamente personale, all'assegno di divorzio, sulla base di presupposti e di condizioni non coincidenti con quelli che giustificavano quest'ultimo (Cass. 8 maggio 1982, n. 2858). L'attribuzione dell'assegno periodico a carico dell'eredità è dunque subordinata alla sussistenza di tre requisiti:
Lo stato di bisogno, pur non potendosi identificare nella povertà assoluta, ovvero nella impossibilità di sopravvivenza, configura una situazione peggiore rispetto alla carenza di mezzi adeguati, vale a dire alla mancanza di disponibilità idonee alla tendenziale conservazione del precorso tenore di vita (mancanza rilevante per il riconoscimento dell'assegno di divorzio), in quanto discende dall'insufficienza delle risorse economiche della persona in rapporto ai suoi “bisogni”, cioé alle sue essenziali e primarie esigenze esistenziali, che non possono rimanere insoddisfatte se non a costo di un deterioramento fisico o psichico (Cass. 17 luglio 1992, n. 8687). Trattasi di un assegno avente natura assistenziale, distinto da quello di divorzio - che ne costituisce il presupposto giuridico - fondato sui principi solidaristici: esso è diretto a garantire al coniuge divorziato, che venga a trovarsi in uno stato di bisogno per essere rimasto privo dell'assegno di divorzio a seguito della morte dell'obbligato (il quale abbia lasciato beni ereditari), di sopperire al venir meno di detto assegno. Va inquadrato, pertanto, tra gli istituti che il legislatore del divorzio ha previsto al fine di apprestare tutela, dopo lo scioglimento del vincolo coniugale, al coniuge che in conseguenza di tale scioglimento venga a subire un deterioramento delle sue condizioni economiche (Cass. 14 maggio 2004, n. 9185; Cass. 27 gennaio 2012, n. 1253). Dunque, il venir meno in via definitiva del vincolo matrimoniale esclude la configurabilità nel rapporto tra i coniugi divorziati di una comunità familiare e la legge sul divorzio, attribuendo una serie di benefici sul piano patrimoniale al soggetto più debole del rapporto, non presuppone affatto una equiparazione tra coniuge ed ex coniuge, atteso che il riconoscimento di detti benefici trova ragione non già nella persistente rilevanza del matrimonio, ma nel fatto oggettivo della pregressa esistenza di un vincolo ormai definitivamente disciolto ed in esigenze solidaristiche che si proiettano anche dopo la morte del coniuge. Tutto il sistema della normativa in esame si ispira infatti al principio di solidarietà postconiugale, che impone di apprestare adeguata tutela anche dopo lo scioglimento del vincolo al soggetto che aveva dato il proprio contributo alla cessata comunione di vita spirituale e materiale e che in conseguenza del divorzio ha subito un deterioramento delle sue condizioni (Cass. 25 febbraio 2004, n. 3747). Allo scopo della quantificazione dell'assegno in discorso, assume influenza l'indagine sull'entità del bisogno, l'ammontare delle somme in precedenza godute a titolo di assegno di divorzio, e poi, eventualmente, a titolo di pensione di reversibilità, la consistenza dell'eredità, il numero, la qualità e la posizione economica degli eredi. Pertanto, quando al coniuge divorziato sia già stata attribuita o venga contestualmente attribuita una parte del trattamento pensionistico di reversibilità, il riconoscimento dell'assegno a carico dell'eredità non può prescindere dall'accertamento del quantum di detta pensione, per il necessario riscontro dell'inadeguatezza del relativo importo, sommato con altre eventuali disponibilità, a tacitare i menzionati bisogni (Cass. 8 maggio 1992, n. 5492). Su accordo delle parti la corresponsione dell'assegno può avvenire in unica soluzione, sempre a carico dell'eredità. Il diritto all'assegno si estingue se il beneficiario passa a nuove nozze o viene meno il suo stato di bisogno. Qualora risorga lo stato di bisogno l'assegno può essere nuovamente attribuito. Successione del convivente di fatto
Ai conviventi more uxorio (che l'art. 1, comma 36, della l.20 maggio 2016, n. 76 definisce come «due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un'unione civile») la legge non riconosce alcun diritto successorio, per cui in assenza di testamento non si avrà alcuna successione dall'uno all'altro dei partners. La situazione dei conviventi di fatto è nettamente diversa da quella dei coniugi: invero, l'art. 29 Cost. non nega dignità a forme naturali del rapporto di coppia diverse dalla struttura giuridica del matrimonio, ma riconosce alla famiglia legittima una dignità superiore in ragione dei caratteri di stabilità e certezza e della reciprocità e corrispettività dei diritti e dei doveri che nascono soltanto dal matrimonio. Il riconoscimento della convivenza more uxorio come titolo di vocazione legittima all'eredità contrasterebbe con i principi del diritto successorio il quale esige che le categorie di successibili siano individuate in base a rapporti giuridici certi e incontestati, comportando nei rapporti fra i due partners conseguenze incompatibili con la stessa natura della convivenza che è un rapporto di fatto per definizione rifuggente da qualificazioni giuridiche di diritti ed obblighi reciproci. Dunque non è fondata, in riferimento agli artt. 2 e 3 Cost., la questione di legittimità costituzionale degli artt. 565 e 582 c.c., nella parte in cui non includono fra i successibili ab intestato, parificandolo al coniuge, il convivente more uxorio (C. Cost. 26 maggio 1989, n. 310). Sebbene il legislatore abbia equiparato al coniuge la persona stabilmente convivente in numerose disposizioni normative (v., ad esempio, l'art. 417 c.c. in materia di amministrazione di sostegno oppure l'art. 4, comma 2, della l. n. 54/2006 in materia di affidamento condiviso) dal punto di vista successorio non si riscontra alcuna apertura in tal senso. Neppure la l. n.76/2016, recante anche la disciplina delle convivenze, contiene alcuna disposizione in materia di successione fra i partners, limitandosi a stabilire che nei casi di morte del conduttore della casa di comune residenza, il convivente di fatto ha facoltà di succedergli nel contratto (art. 1, comma 44). È vero – afferma la Consulta (sent. 15 aprile 2010, n. 138) - che i concetti di famiglia e di matrimonio non si possono ritenere “cristallizzati” con riferimento all'epoca in cui la Costituzione entrò in vigore, perché sono dotati della duttilità propria dei princìpi costituzionali e, quindi, vanno interpretati tenendo conto non soltanto delle trasformazioni dell'ordinamento, ma anche dell'evoluzione della società e dei costumi. Detta interpretazione, però, non può spingersi fino al punto d'incidere sul nucleo della norma, modificandola in modo tale da includere in essa fenomeni e problematiche non considerati in alcun modo quando fu emanata. Dunque, la famiglia fondata sul matrimonio e la famiglia di fatto non possono formare oggetto di completa assimilazione: la diversità tra famiglia di fatto e famiglia fondata sul matrimonio rappresenta un punto fermo di tutta la giurisprudenza costituzionale in materia ed è basata sull'ovvia constatazione che la prima è un rapporto di fatto, privo dei caratteri di stabilità e certezza e della reciprocità e corrispettività dei diritti e dei doveri che nascono soltanto dal matrimonio e sono propri della seconda (C. Cost. 14 novembre 2000, n. 491). Al convivente more uxorio è assimilabile il coniuge unito in matrimonio religioso non trascritto (Trib. Milano 8 settembre 1997). In materia di successione la l. 20 maggio 2016, n. 76 stabilisce con assoluta chiarezza la piena equiparazione, ai fini successori, fra coniugi e parti dell'unione civile. Sull'argomento v. amplius La successione degli uniti civili di V. Tagliaferri, in ilFamiliarista.it.
In conclusione
Se nel sistema del Codice Civile del 1942 il coniuge superstite era escluso dalla successione ereditaria e gli veniva riconosciuto, anziché una quota in proprietà, solo l'usufrutto di una quota di eredità, oggi egli è diventato il più tutelato fra tutti i chiamati all'eredità. |