Il legislatore e la giurisprudenza alle prese con nuove forme di genitorialità
23 Marzo 2017
Il settore della famiglia, con particolare riferimento alla filiazione, è un delicato terreno di confronto di valori e di convinzioni radicate nella coscienza sociale, che trovano la loro traduzione normativa innanzitutto nella Costituzione e nelle convenzioni internazionali. Il legislatore ha un ruolo fondamentale nella funzione di bilanciamento tra i suddetti valori, che spesso si presenta particolarmente complessa alla luce della contrapposizione tra diverse istanze, portatrici di interessi costituzionalmente rilevanti. Rispetto ad alcune fondamentali riforme degli ultimi anni, il legislatore ha interpretato nuove istanze diffuse nella coscienza sociale e assunto il ruolo di motore di innovazioni nell'ambito della giurisprudenza e della prassi. Ci si riferisce ai seguenti interventi:
a) l.8 febbraio 2006, n. 54 in materia di affidamento condiviso, che ha dato un significativo impulso all'applicazione del principio della bigenitorialità come criterio guida per dirimere le controversie nascenti dalla crisi del rapporto coniugale;
b) la riforma della filiazione operata con la l. 10 dicembre 2012 n. 219 e d. lgs. 28 dicembre 2013, n. 154 che ha sancito l'eguaglianza giuridica di tutti figli, nati nel matrimonio o fuori del matrimonio, restituendo pari dignità anche ai figli incestuosi; ha determinato il passaggio dalla categoria della potestà genitoriale a quella della responsabilità genitoriale. Tale modifica non è dunque meramente terminologica, ma corrisponde al superamento di una visione autoritativa e paternalistica del rapporto genitori – figli, per valorizzare la primazia del cd. superiore interesse del minore;
c) nell'ultima fase, un passo in avanti della legislazione nella direzione della valorizzazione della rete di rapporti familiari intessuta dal minore è costituito dalla l. 19 ottobre 2015, n. 173 sul diritto alla continuità affettiva dei bambini e delle bambine in affido familiare, che ha introdotto un favor verso i legami costruiti in ragione dell'affidamento di cui all'art. 4 l. 4 maggio 1983, n. 184 avendo cura di specificare che questi hanno rilievo solo ove il rapporto instauratosi abbia di fatto determinato una relazione profonda, proprio sul piano affettivo, tra minore e famiglia affidataria.
Da ultimo, tuttavia, con riferimento al problema della filiazione nella procreazione assistita e nelle unioni civili tra persone dello stesso sesso, è in corso un processo inverso: il legislatore ha scelto di non intervenire, demandando alla giurisprudenza il delicato compito di operare il concreto bilanciamento degli interessi in gioco e, d'altra parte, la giurisprudenza ha consapevolmente assunto un ruolo di supplenza, sostanzialmente modificando la portata di alcuni principi affermati nel codice civile, oltre che nella legislazione speciale. Qui massima è la frizione tra una visione tradizionale che collega la genitorialità all'esistenza di una coppia eterosessuale e una diversa concezione che giunge a sganciarla dal dato biologico della procreazione e, conseguentemente, dal requisito della diversità di sesso tra i genitori e a valorizzare la genitorialità sociale. L'art. 1, comma 20, l.20 maggio 2016, n. 76, a seguito dello stralcio dalla proposta originaria della previsione di un'ipotesi tipizzata di cd. stepchild adoption nell'ambito della disciplina dell'adozione in casi particolari, nell'escludere la possibilità di applicare alle unioni civili la l. n. 184/1983, ha previsto una clausola di salvezza secondo cui «resta fermo quanto previsto e consentito in materia di adozione dalle norme vigenti». Essa è stata interpretata nel senso di demandare al diritto vivente la regolamentazione di ogni questione relativa ai rapporti di filiazione con riferimento alle coppie formate da persone dello stesso sesso. La giurisprudenza sta ampiamente procedendo, sia nelle pronunce di merito che di legittimità, ad un'interpretazione evolutiva delle norme vigenti, consapevole della riproposizione del conflitto tra il principio di legalità e la salvaguardia della vita familiare in tutte le sue espressioni e del principio della continuità egli affetti. La giurisprudenza di legittimità ha ormai univocamente riconosciuto che non vi è alcuna riserva nel rapporto tra genitore omosessuale e figlio minore, anche con riferimento all'affidamento a coppia omosessuale, ove venga concretamente riscontrata la non contrarietà all'interesse del minore, non essendoci alcuna evidenza scientifica su una supposta incidenza negativa dell'omosessualità nel rapporto tra genitori e figli. In particolare, la Cassazione con sentenza 11 gennaio 2013, n. 601 ha dichiarato inammissibile, per difetto di specificità, il ricorso per cassazione - per violazione di legge - avverso la sentenza di separazione giudiziale dei coniugi che aveva confermato l'affidamento esclusivo di un minore alla madre, la quale intratteneva una relazione con la convivente, in mancanza di concreti riferimenti alle ripercussioni negative per il minore stesso, sul piano educativo e della crescita, in ragione del suo inserimento in una famiglia incentrata su una coppia omosessuale. Quanto alla più spinosa problematica del rapporto di filiazione nascente dalla procreazione assistita, nel nostro ordinamento questa pratica è espressamente vietata e sanzionata ai sensi dell'art. 12 l. n. 40/2004. Con riferimento al bambino generato ricorrendo a surrogazione di maternità, sussiste attualmente uno stato di assoluta incertezza giuridica, in quanto la legislazione italiana non riconosce l'identità dello stesso e lo priva delle figure genitoriali di riferimento. Si è riproposta, dunque, l'antica frizione tra applicazione del principio di legalità e principio di salvaguardia della comunità degli affetti e dei rapporti consolidati, che ha diviso l'opinione pubblica nel noto caso di Serena Cruz, in cui la minore fu sottratta alla coppia affidataria che aveva aggirato la legge sull'adozione. Tanto si è verificato, in particolare, con riferimento al tema del riconoscimento in Italia di rapporti di filiazione attraverso l'utilizzo di tecniche consentite in altri Paesi, ma vietate nel nostro, come quella della maternità surrogata. In data 24 gennaio 2017, la Grand Chambre ha riformato la pronuncia di condanna emessa nei confronti dell'Italia da parte della Corte EDU, con sentenza 27 gennaio 2015 n. 25358/12 nel noto caso Paradiso e Campanelli contro Italia, per il mancato riconoscimento del rapporto di filiazione formatosi all'estero attraverso l'utilizzo, da parte di due coniugi italiani, di un accordo di maternità surrogata di tipo gestatorio, perfettamente legale in Russia. Tale pronuncia è relativa a una fattispecie in cui, dopo una fecondazione in vitro riuscita, due embrioni furono impiantati nell'utero di una madre surrogata. Tra quest'ultima e gli embrioni non vi era alcun legame genetico. La Corte, in prima istanza, aveva ritenuto che non fosse stato adeguatamente salvaguardato l'interesse dei minori a uno sviluppo in un ambiente sano, «essendo stati i ricorrenti giudicati incapaci di educare ed amare il figlio solamente in quanto avevano aggirato la legge sull'adozione, senza che fosse stata disposta una perizia da parte dei tribunali» (G. Pizzolante, Corte di Strasburgo e maternità surrogata all'estero: rispetto del limite dell'ordine pubblico o tutela del superiore interesse del minore, in IlFamiliarista.it). La Grande Chambre ha ribaltato il decisum di primo grado, in considerazione delle peculiarità del caso concreto (A. Fasano, G. Pizzolante, La Corte di Strasburgo ritorna sull'allontanamento del minore e la maternità surrogata, in IlFamiliarista.it). Il ragionamento si articola nei seguenti passaggi:
- la Corte distingue, ai sensi dell'art. 8 CEDU, tra lesione alla vita familiare e limitazione della vita privata e si sofferma sulla sussistenza nel caso di specie del primo presupposto, che va valutato, in concreto, sulla base del duplice parametro della durata della convivenza familiare - che è primariamente indicativo del consolidamento di un legame affettivo e di una comunione di vita tra gli appartenenti al nucleo familiare, anche in relazione all'effetto traumatico che potrebbe derivare al minore dall'interruzione della relazione parentale - e della sussistenza di un legame genetico con almeno uno dei componenti della coppia;
- nel caso in esame, quanto al primo presupposto, la convivenza del minore con i ricorrenti aveva avuto una durata di appena qualche mese e, dunque, non tale da consolidare il legame parentale, al punto da ingenerare un trauma irreversibile del minore a seguito della sua improvvisa cessazione. Nella sentenza si dà atto che l'autorità giudiziaria minorile, constatata l'illegalità della situazione in atto, era prontamente intervenuta interrompendo tale rapporto, con conseguente apertura di una procedura di adottabilità e reperimento di altra coppia ritenuta idonea, in considerazione del fatto che la condotta fraudolenta della coppia denotava come essa fosse animata da problematiche personali irrisolte o da una proiezione narcisistica verso il soddisfacimento del proprio bisogno di genitorialità eludendo le procedure e i limiti posti dalla legge sull'adozione. Inoltre, nel caso di specie mancava anche il legame genetico con entrambi i ricorrenti, pur se il preteso padre assumeva di essere stato inconsapevole dell'utilizzazione del seme di un donatore;
- sussisteva, dunque, un'ingerenza nella vita privata dei ricorrenti da parte dell'autorità statale, ai sensi dell'art 8 CEDU, e tuttavia essa può trovare giustificazione in caso di sussistenza del presupposto della legittimità delle misure assunte, rispetto alla quale viene lasciato un più ampio margine di discrezionalità agli ordinamenti statali, in considerazione della natura eticamente sensibile degli interessi in gioco. Nel caso di specie, il minore era soggetto alla giurisdizione italiana e corretta è stata l'applicazione dei presupposti e delle procedure a fondamento della dichiarazione dello stato di abbandono del medesimo;
- infine, la Corte argomentava che era stato rispettato il principio di proporzionalità, essendo l'autorità statale tempestivamente e correttamente intervenuta per porre fine a una situazione di illegalità, derivante da pratiche procreative effettuate sulla base di rapporti contrattuali e dietro pagamento di corrispettivo.
La Corte riteneva in definitiva che, nel caso di specie, fosse stato salvaguardato il preminente interesse del minore, apparendo esso adeguatamente tutelato da quelle misure atte ad arginare il ricorso a pratiche procreative illegali e potenzialmente foriere di sfruttamento delle donne e dei minori. La categoria del superiore interesse del minore in questo caso viene intesa dalla Corte di Strasburgo come “scopo legittimo” ai sensi dell'art. 8 CEDU, che autorizza i pubblici poteri a disporre misure limitative del diritto alla vita familiare o privata del genitore che la Corte stessa valuta come necessarie in una società democratica , purché, oltre a essere sostenute dalla legge, soddisfino il criterio di proporzionalità (cfr. E. Lamarque, Prima i bambini. Il principio dei best interests of the child nella prospettiva costituzionale, Milano, 2016). In altro caso, con le sentenze gemelle, sez. V 26 giugno 2014, n. 65192/11 (Mennesson c. Francia) e sez. V 26 giugno 2014 n. 65941 (Labassee c. Francia) (in Foro it. n. 12/2014, V 562, con nota di G. Casaburi), la Corte EDU, pur disattendendo l'istanza dei genitori, in quanto non poteva configurarsi un'indebita ingerenza dello Stato nella vita familiare, ai sensi dell'art. 8 CEDU, in una legislazione come quella francese che si oppone al riconoscimento del legame di filiazione relativo a bambini nati all'estero con la maternità surrogata, ha concluso tuttavia, con riferimento al diritto dei figli alla vita privata, che la situazione di incertezza giuridica determinatasi fosse violativa del loro diritto al rispetto della vita familiare. In tal caso, la Corte europea ha utilizzato il principio del superiore interesse del minore, congiuntamente al diritto all'identità personale e alla vita privata dei minori, condannando la Francia per essersi rifiutata di trascrivere l'atto di nascita di minori nati all'estero a seguito di un contratto di maternità surrogata in cui i padri biologici erano cittadini francesi. Nella sentenza della Grand Chambre sul caso Paradiso - Campanelli (par. 195), peraltro, la Corte sottolineava la differenza rispetto al caso suesposto, attesa l'esistenza di un legame genetico di uno dei genitori con i minori nel caso Mennesson, che mancava nel caso italiano. La giurisprudenza di Strasburgo, dunque, utilizzando il principio del superiore interesse del minore per operare dei bilanciamenti rispetto al diritto alla vita familiare dei genitori, non intende enunciare principi generali, ma compie di volta in volta valutazioni aderenti alle peculiarità dei casi concreti e che, stante la delicatezza sotto il profilo etico e valoriale degli interessi in gioco, tengano conto delle specificità degli ordinamenti degli Stati membri. Nella giurisprudenza interna, sulla scia di quella sovranazionale, vi è stata un'importante riflessione sul rapporto tra ordine pubblico interno e ordine pubblico internazionale, che comprende sia i valori condivisi della comunità internazionale, che i valori costituzionali interni che abbiano carattere di irrinunciabilità. Nelle pronunce di merito si è affermata un'interpretazione evolutiva per cui, pur in presenza di un divieto sanzionato di ricorrere alla maternità surrogata, è consentito il riconoscimento e la trascrizione in Italia di un atto straniero validamente formatosi, sotto un duplice profilo: non vi è contrasto con l'ordine pubblico internazionale, in quanto non vi è alcuna violazione di principi fondamentali di rango costituzionale, ed è invece conforme all'interesse del minore il riconoscimento della situazione familiare e affettiva in cui il medesimo si trova inserito. Degna di nota sul punto è la sentenza della Corte d'Appello di Bari, 13 febbraio 2010, in Giur. Merito, 2, 2010, 349. Il dibattito sulla maternità surrogata sembrava subire un arresto con la sentenza Cass. civ. sez. I, 11 novembre 2014, n. 24001, con la quale è stato dichiarato lo stato di adottabilità di un minore, nato in Ucraina e generato con la pratica della surrogazione di maternità prevista dalla legge Ucraina. Si evince dalla motivazione della sentenza che secondo la legge ucraina, la legittimità della pratica della maternità surrogata è subordinata alla condizione che gli ovociti non appartengano alla donna che esegue la gestazione e che almeno il 50% del patrimonio genetico del nascituro provenga dalla coppia committente, onde il contratto di surrogazione di maternità concluso con la gestante era nullo anche secondo la legge ucraina. La Corte aderiva all'interpretazione per cui il divieto di maternità surrogata costituisce un divieto di ordine pubblico, aggiungendo che la pratica della surrogazione di maternità in un caso in cui gli ovociti non appartenevano alla coppia committente si porrebbe in conflitto con l'istituto dell'adozione, al quale soltanto l'ordinamento affida - attraverso una disciplina governata da regole poste a tutela di tutti gli interessati, in primo luogo dei minori - la realizzazione di progetti di genitorialità privi di legami biologici con il nato. La Cassazione si sofferma in particolare sulla categoria dell'ordine pubblico internazionale, definendolo come «limite che l'ordinamento nazionale pone all'ingresso di norme e provvedimenti stranieri, a protezione della sua coerenza interna», sicché esso non può ridursi ai soli valori condivisi dalla comunità internazionale, ma comprende anche principi e valori esclusivamente propri, purchè fondamentali e (perciò) irrinunciabili. É peraltro evidente -prosegue la Corte - che, nella individuazione di tali principi, l'ordinamento nazionale va considerato nella sua completezza, ossia includendovi principi, regole ed obblighi di origine internazionale o sovranazionale». L'interpretazione evolutiva del limite dell'ordine pubblico internazionale è stata affermata nell'innovativa sentenza Cass. civ., sez. I, 30 settembre 2016, n. 19599, relativa ad un caso in cui il minore era nato dall'utilizzazione della tecnica della maternità surrogata tra due donne coniugate in Spagna, della quale una era stata donatrice dell'ovulo, impiantato nella compagna (A. Fasano, La Costituzione non vieta alle coppie dello stesso sesso di generare figli, in IlFamiliarista.it; A. Figone, Figlio di due madri: la Cassazione lo ammette, in IlFamiliarista.it). Nel parificare tale modalità di procreazione alla fecondazione eterologa, rispetto alla quale la Corte costituzionale, con la nota pronuncia del 10 giugno 2014, n. 162, ha caducato il divieto assoluto imposto dalla l. n. 19 febbraio 2004, n. 40 la Cassazione svolge importantissime affermazioni in ordine allo sganciamento del rapporto di filiazione materna dal dato biologico del parto, in contrasto con l'art. 269 c.c. a mente del quale madre è colei che ha partorito, negando rilevanza costituzionale a tale principio. Vi è anche un passaggio in cui la Corte consapevolmente si sostituisce al legislatore, al quale spetta la regolazione di tale fattispecie, argomentando che non vi è alcun vincolo costituzionale in ordine alla concreta disciplina della materia, ed effettua essa stessa il bilanciamento degli interessi in gioco. Con decreto dell'11 novembre 2016 (depositato il 6 dicembre 2016), in attuazione dei principi affermati dalla Cassazione con sentenza n. 19599/2016, il Tribunale di Napoli ha ordinato all'Ufficiale dello stato civile di Napoli di trascrivere l'atto di nascita di un minore, formato in Spagna, con l'indicazione di entrambe le madri, cittadine italiane coniugate tra loro e residenti in Spagna. Il tribunale valorizza, nella valutazione dell'interesse del minore, la circostanza che il medesimo è nato in un progetto di genitorialità condivisa tra due donne coniugate, di cui una è la madre biologica, e che ha instaurato con le medesime una valida relazione parentale (Valida la trascrizione dell'atto di nascita spagnolo del minore figlio di due mamme, in IlFamiliarista.it). La vicenda approderà verosimilmente alla Corte di legittimità, sicché si vedrà che tipo di orientamento si formerà sulla questione. Infine, particolare clamore mediatico ha destato la sentenza della Corte d'appello di Trento del 23 febbraio 2017, con la quale, ai sensi dell'art. 67 l.31 maggio 1995, n. 218 è stata dichiarata l'efficacia nel nostro ordinamento di un provvedimento emesso dalla Corte di Giustizia canadese, con il quale è stato dichiarato che un minore, nato per mezzo di maternità surrogata, è figlio non solo del genitore biologico ma anche del ‘secondo padre', coniugato con il suddetto padre biologico all'estero. La Corte ha, nel merito, valutato la compatibilità dell'anzidetto riconoscimento con l'ordine pubblico, richiamando per l'individuazione di tale nozione la citata sentenza della Corte di Cassazione n. 19599/2016, che lo ha riferito esclusivamente ai «principi e/o fondamentali della nostra Carta costituzionale» che non possono essere sovvertiti dal legislatore. Il giudicante, richiamando il principio del superiore interesse del minore, ha valorizzato il diritto alla continuità dello status di figlio riconosciutigli in un atto validamente formato in altro Stato, scolpito nel principio del favor filiationis di cui agli artt. 13, comma 3, e 33, commi 1 e 2, l. n. 218/1995, nonché ai sensi dell'art. 8, par. 1, Convenzione di New York sul «diritto del fanciullo preservare la propria identità, ivi compresa la sua nazionalità, il suo nome e le sue relazioni familiari». La Corte ha ritenuto non ostativo rispetto al riconoscimento della prevalenza di tale valore il divieto posto dalla l. n. 40/2004 di fare ricorso alla maternità surrogata non ritenendo che tale divieto, allo stato previsto dall'ordinamento interno, sia espressione dei principi fondamentali e costituzionalmente obbligati, non modificabili dal legislatore. Conclude la Corte d'appello di Trento che «la disciplina positiva della procreazione medicalmente assistita va dunque considerata non già espressione di principi fondamentali costituzionalmente obbligati, ma piuttosto come punto di equilibrio attualmente raggiunto a livello legislativo nella tutela dei differenti interessi fondamentali che vengono in considerazione nella materia». Va comunque osservato, ferma restando la delicatezza della questione in esame, che la fattispecie, relativa al caso di “utero in affitto” all'attenzione della Corte d'appello di Trento, appare diversa rispetto alla fattispecie oggetto di esame della Corte di Cassazione nella sentenza n. 19599/2016, avente ad oggetto la realizzazione di un progetto di genitorialità di due donne, attraverso un impianto di un embrione ottenuto mediante fecondazione eterologa con l'ovulo di una delle due donne, impiantato nell'utero dell'altra. Per surrogazione di maternità o maternità surrogata (o gestazione per altri) si intende, infatti, la pratica con la quale una donna assume l'obbligo di provvedere alla gestazione e al parto per conto di altra persona o di una coppia sterile, alla quale si impegna a consegnare il nascituro: in tal caso, una donna utilizza il corpo di un'altra donna che presta il proprio al solo fine di aiutarla a realizzare il suo esclusivo desiderio di avere un figlio. Invero, l'art. 12 comma 1 l. n. 40/2004 prevede l'applicazione di una sanzione amministrativa nei confronti di chiunque a qualsiasi titolo utilizza a fini procreativi gameti di soggetti estranei alla coppia richiedente, in violazione di quanto previsto dall'art. 4, comma 3, mentre, nel comma 6, prevede la sanzione penale della reclusione nei confronti di «chiunque, in qualsiasi forma, realizza, organizza o pubblicizza la commercializzazione di gameti o di embrioni o la surrogazione di maternità». La previsione di una sanzione amministrativa pecuniaria (art. 12, comma 2.l. n. 40/2004) per i terzi che applichino le tecniche di fecondazione eterologa alle coppie composte da persone dello stesso sesso, secondo la valutazione operata dalla citata sentenza della Cassazione, non esprime un valore costituzionale superiore e inderogabile, idoneo ad assurgere a principio di ordine pubblico. A diversa conclusione può, dunque, a contrariis giungersi nel caso dei ‘due padri' esaminato dalla sentenza della Corte d'appello di Trento, in cui viene in considerazione la pratica volgarmente definita dell'utero in affitto, per la quale potrebbe riproporsi in sede di legittimità il decisum della sentenza della Suprema Corte (Cass. civ.,sez. I, n. 24001/2014), che ha sancito la contrarietà all'ordine pubblico della pratica della “maternità surrogata”, seppure in un caso in cui non era legale neppure secondo la legge del Paese in cui era stata effettuata. L'opzione in favore di una diversa valutazione, sotto il profilo della conformità all'ordine pubblico, delle due pratiche della fecondazione eterologa nel caso delle “due madri” e della maternità surrogata nel caso dei “due padri”, scaturisce dal fatto che mentre rispetto alla prima si configura un illecito amministrativo nel caso di chi la applica, nella seconda è integrato un delitto punibile con la pena della reclusione. Il diverso trattamento sanzionatorio non pare, peraltro, irragionevole, in quanto le due pratiche hanno diverse connotazioni: la prima implica esclusivamente l'utilizzo di gameti sia pure provenienti da un soggetto estraneo alla coppia, mentre la seconda comporta la stipula di un vero e proprio contratto che prevede il compimento di un atto di disposizione dell'apparato riproduttivo della madre gestatoria. Si potrebbe obiettare cha potrebbe conseguirne una discriminazione tra coppie omoaffettive di sesso maschile e di sesso femminile. Tuttavia, non paiono essere violati i presupposti e i limiti di cui all'art. 3 Cost., atteso che la diversità tra le due pratiche nasce evidentemente dalla diversa conformazione biologica e sessuale tra uomo e donna, cui conseguono implicazioni quanto mai diverse sul piano etico e valoriale, essendo nel caso dell' utero in affitto ben più allarmante il rischio di mercimonio e di sfruttamento del corpo femminile. Una risposta più pregnante a questi interrogativi conseguirà al pronunciamento della Suprema Corte, con l'auspicio che una questione così sensibile, venga portata all'attenzione delle Sezioni Unite, ai sensi dell'art. 374, comma 2, c.p.c. come «questione di massima di particolare importanza». Da ultimo, il Tribunale per i minorenni di Firenze, con decreto 7 marzo 2017, ha dichiarato applicabile – nella fattispecie sottoposta al suo esame (adozione, pronunciata all'estero, di minore avente la cittadinanza di quello stato, da parte di cittadini italiani ivi residenti) – la previsione di cui all'art. 36, comma 4, l. n. 184/1983, a mente del quale «l‘adozione pronunciata dalla competente autorità di un Paese straniero a istanza di cittadini italiani, che dimostrino al momento della pronuncia di aver soggiornato continuativamente nello stesso e di avervi avuto la residenza da almeno due anni, viene riconosciuta ad ogni effetto in Italia con provvedimento del tribunale per i minorenni, purché conforme ai princìpi della Convenzione» (per la tutela dei minori e la cooperazione in materia di adozione internazionale, fatta a L'Aja il 29 maggio 1993 e ratificata dall'Italia). Il Tribunale per i minorenni fiorentino ha ritenuto il provvedimento compatibile con il limite dell'ordine pubblico, desumibile dai principi inderogabili costituzionali e convenzionali e all'interesse del minore alla continuità dello status (Tribunale per i minorenni di Firenze: riconosciuta l'adozione di due minori da parte di una coppia same sex, in IlFamiliarista.it). La parabola giurisprudenziale sulla stepchild adoption
Un'ulteriore copiosa evoluzione giurisprudenziale vi è stata con riferimento alla possibilità di accesso all'adozione in casi particolari da parte di coppie di persone dello stesso sesso. La figura della cosiddetta stepchild adoption ha trovato il suo primo approdo alla nomofilachia con la recente sentenza Cass. civ., sez. I, 22 giugno 2016, n. 12962, in un caso in cui il minore era nato da un progetto di genitorialità realizzato da due donne conviventi in Spagna, delle quali una si era sottoposta a fecondazione eterologa (A. Fasano, Anche la Cassazione riconosce la stepchild adoption, in IlFamiliarista.it; A. Figone, La Cassazione dice sì alla stepchild adoption, in IlFamiliarista.it). Essa ha pienamente confermato il percorso ermeneutico tracciato in prima istanza dal Tribunale per i minorenni di Roma, pronunciatosi con sentenza del 30 luglio 2014, n. 299, che è stata confermata dalla Corte d'appello con sentenza del 23 dicembre 2015, n. 7127, con conseguente rigetto del ricorso della Procura generale, che si attestava su una lettura delle norme più tradizionale. È apprezzabile lo sforzo sistematico operato dalla Corte di Cassazione nel compimento di un esame complessivo dell'istituto dell'adozione in casi particolari, raccordandolo con le modifiche normative medio tempore intervenute e che hanno determinato un'evoluzione della ratio dell'istituto. In tal senso, è preferita l'interpretazione estensiva della clausola, contenuta nell'art. 44 lett. d), l. n. 184/1983, secondo la quale detta impossibilità non presuppone necessariamente lo stato di abbandono del minore. L'anzidetto sintagma va interpretato in senso estensivo, ovvero come impossibilità giuridica, connessa all'esistenza di rapporti affettivi tra il minore ed i suoi genitori. Nella fattispecie, la minore aveva maturato un profondo rapporto affettivo con la parte non convivente della madre, che aveva acquisito un'autonoma rilevanza, tale da giustificarne il riconoscimento giuridico. All'indomani della pronuncia della Cassazione, si registrano ancora nella giurisprudenza di merito, in particolare da parte del Tribunale per i minorenni di Milano 20 ottobre 2016, interpretazioni assai restrittive del presupposto dell'impossibilità di affidamento preadottivo, sul presupposto che, stante la tassatività delle ipotesi di adozione in casi particolari di cui all'art. 44 l. n. 184/1983, la cosiddetta stepchild adoption non è sussumibile nella lett. d) dell'art. 44, che ad avviso dei giudici milanesi non è interpretabile come «impossibilità giuridica» dell'affidamento preadottivo, dovendosi l'ipotesi in cui possa farsi luogo all'adozione in casi particolari in assenza di dichiarazione di adottabilità riferirsi esclusivamente alla lett. b) dell'art. 44, ovvero in favore del coniuge del genitore del minore. Orbene, si argomenta che nella lett. b) non è sussumibile la fattispecie della cosiddetta stepchild adoption, in quanto la voluntas legis sembra essere quella di richiedere il rapporto di coniugio ai fini dell'adozione del figlio biologico o adottivo di altra persona, sul presupposto che la sussistenza di un rapporto di coniugio garantisca al minore una maggiore tutela rispetto a un rapporto di convivenza, per quanto stabile (G. Sapi, No all'adozione del figlio del convivente da parte del partner eterosessuale non coniugato, in IlFamiliarista.it). Tale argomentazione non convince, alla luce del pronunciamento della Corte cost. 7 ottobre 1999, n. 383 (in Giur. cost. 1999, 2951, con nota di A. Celotto, Adozione in casi particolari), che s'inserisce in una generale tendenza del diritto vivente a valorizzare i legami familiari fondati sulla sussistenza in concreto di una valida comunione di vita e di affetti, non potendosi ritenere indefettibile la sussistenza del vincolo matrimoniale. Essa ha dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 44, comma 1, lett. c), l. n. 184/1983 (testualmente corrispondente alla vigente lett. d) dell'art. 44, in riferimento agli artt. 3 e 30, comma 2,Cost. argomentando che detta disposizione si sostanzia «in una sorta di clausola residuale per i casi speciali non inquadrabili nella disciplina dell'adozione legittimante», consentendo l'adozione dei minori anche quando non ricorrano le condizioni per la dichiarazione dello stato di adottabilità. Si ricorda, inoltre, che Corte cost. 7 aprile 2016, n. 76, ha dichiarato l'inammissibilità, per erronea individuazione della normativa di riferimento come quella di cui all'art. 36, comma 4, e 36 l. n. 184/1983 relativa all'adozione internazionale, della questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale per i minorenni di Bologna, nella parte in cui non consente al giudice di valutare se sussista in concreto l'interesse del minore, ai fini del riconoscimento in Italia come adozione in casi particolari di una sentenza straniera che abbia pronunciato l'adozione piena in favore del coniuge dello stesso sesso del genitore (G. Cardaci, Riconoscimento in Italia della sentenza straniera di adozione piena del figlio del partner same sex, in IlFamiliarista.it). Sposando la suesposta interpretazione minoritaria, si arriverebbe alla conseguenza incomprensibile per cui venga preferita l'adozione in casi particolari da parte di un single o di una coppia di cui nessuno dei due partner sia genitore del minore, piuttosto che una coppia di conviventi, dovendosi altresì escludere che possa accedere all'adozione in casi particolari anche il convivente eterosessuale del genitore biologico dell'adottando. In conclusione
Alla base della complessa evoluzione giurisprudenziale di cui si è dato conto, viene posto, quasi come faro illuminante in siffatto groviglio di istanze e interessi, il principio del superiore interesse del minore, che costituisce un leitmotiv sia nella giurisprudenza internazionale e sovranazionale dei diritti, che nella giurisprudenza interna. Esso ha avuto origine nella tradizione giuridica anglo-americana in un'accezione diversa rispetto a quella europea, nell'ambito di un dibattito in cui i minori non erano visti come titolari di diritti, ma come soggetti deboli da proteggere. In quest'ottica, il miglior interesse era visto come espressione di un'istanza protettiva di tipo paternalistico. Nella tradizione europea è invece acquisito il riconoscimento del minore come titolare di diritti, atteso che la titolarità dei diritti dipende dall'essere persona e tuttavia, per i minori essa va coniugata con il dovere - potere protettivo delle figure genitoriali. Nella giurisprudenza della Corte EDU l'interesse superiore del minore in genere agisce come criterio per valutare la correttezza dei provvedimenti di pubblici poteri in vario modo limitativi della responsabilità genitoriale. La dottrina nota che viene impropriamente tradotto come preminente o superiore interesse del minore, al singolare, l'espressione declinata al plurale best interests (cfr. E. Lamarque, op. cit., Milano, 2016). Essa mette in guardia contro un uso distorto che spesso è stato fatto di tale principio come contenitore vuoto, buono per tutti gli usi, e utilizzato per giustificare di volta in volta decisioni che realizzino interessi eterogenei. Una corretta interpretazione del principio passa invece attraverso la lettura dell'espressione utilizzata al plurale in tutte le convenzioni come il migliore tra tutti gli interessi del minore, imponendosi dunque di volta in volta un'opera di bilanciamento tra i medesimi. L'affermazione circa la necessità di evitare una interpretazione distorta che si fondi sulla tirannia del superiore interesse del minore è pure contenuta nella citata sentenza della Cassazione n. 19599/2016, che afferma «l'interesse del minore da solo non può essere decisivo, altrimenti tale diritto diventerebbe tiranno nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente garantiti alla persona», sicché si rende necessario un bilanciamento che assicuri una tutela unitaria non frammentata degli interessi costituzionali in gioco. Nell'ordinamento interno c'è una particolare elaborazione giurisprudenziale, che da una parte afferma in modo rigoroso l'esistenza di istituti e di regole inderogabili finalizzati alla tutela dei diritti fondamentali dei soggetti minorenni considerati come categoria; e d'altra parte impone agli operatori del settore un approccio flessibile nell'individuazione della soluzione più idonea per lo sviluppo educativo del singolo minore di cui ci si occupa. Il principio in esame e la sua portata di punto di equilibrio tra esigenze a volte drammaticamente contrastanti si è riaffacciato in vicende eticamente sensibili, come il menzionato caso di Serena Cruz, in cui è prevalsa nella valutazione dei giudici l'affermazione del principio di legalità rispetto a quello della tutela dei rapporti consolidati. Oggi lo stesso dilemma si ripropone nei casi di minori nati da pratiche di maternità surrogata che si sono illustrati. Conclusivamente, può ritenersi che il tormentato dibattito in queste materie stia conducendo ad una più chiara, anche se difficile declinazione del superiore interesse del minore, in cui vada privilegiato il rispetto della famiglia intesa come comunità di affetti, pur nel rispetto dei principi fondamentali inderogabili nell'ordinamento. La discendenza biologica dei figli non può più essere considerata come requisito essenziale o esclusivo della filiazione. Con riferimento al tema in esame, i nuovi status familiari introdotti dalla l.n. 76/2016 determinano inediti scenari con riferimento rapporti di filiazione. Tra questi le difficoltà di riconoscimento dei diritti dei singoli e quindi dei minori ad avere una famiglia, anche se il legame con i genitori non è biologico, ma semplicemente sociale. Tale processo è stato talmente veloce e dirompente, e dunque difficile da metabolizzare, che spesso utilizza come grimaldello ed elemento di stimolo verso il cambiamento, la nascita di nuovi istituti giuridici (in materia familiare e con riferimento alla genitorialità), mentre tradizionalmente la trasformazione degli istituti giuridici era conseguente a modifiche ormai consolidate del costume sociale. É sorta un'importante riflessione sulla tolleranza e sulla mitezza, come rispetto dell'altro nel suo modo di essere e di manifestarsi che, fondandosi sui principi costituzionali e delle convenzioni internazionali, si traduce in campo giuridico in una serie di interventi normativi sulla persona e sulla famiglia, al fine di garantire i diritti fondamentali (cfr. G. Zagrebelsky, Il diritto mite, Torino 1992. Per una trasposizione nell'ambito della giurisdizione minorile e familiare, cfr. F. Occhiogrosso, Manifesto per una giustizia minorile mite, 2009 il quale nel rilanciare la cultura mediazione come strumento di ricerca di soluzioni condivise, lo configura come uno strumento di democrazia familiare, in cui ad ogni soggetto è dato far sentire la propria voce). In campo ordinamentale, a fronte della tradizionale concezione della famiglia come “isola che può essere soltanto lambita dal diritto”, è stata avanzata la proposta del diritto mite che scaturisce dalla revisione del concetto classico di sovranità e dall'affermazione, prima di tutto in ambito costituzionale, in favore del pluralismo dei valori, chiamati ad integrarsi, di modo che ciascuna delle parti in causa richiede e ottiene di far valere principi che corrispondono a proprie aspirazioni di giustizia. M. Dell'Utri, La maternità surrogata nella pronuncia della Corte di Appello di Bari: la nozione di ordine pubblico internazionale e il criterio dell'interesse del minore, in Giur. Merito, 2, 2010, 349 G. Casaburi, “Requiem” (gioiosa) per il divieto di procreazione medicalmente assistita: l'agonia della l. 40/04, in Foro it., 9/2014, 1518 |