Matrimonio e unioni civili: differenze e analogie

Alberto Figone
23 Maggio 2016

Nel raffrontare gli istituti del matrimonio e dell'unione civile, si passano in esame i diritti e doveri delle persone civilmente unite rispetto a quelli dei coniugi. Si evidenzia come la maggior parte delle posizioni giuridiche, che fanno capo ai coniugi si estendono, alle persone civilmente unite, con una necessaria opera di coordinamento.
Una premessa

Il comma 11 dell'art. 1 della nuova legge sulle Unioni Civili, l. n. 76/2016, prevede espressamente che, con la costituzione dell'unione civile, le parti acquistano gli stessi diritti ed assumono gli stessi doveri. Si tratta di una disposizione del tutto corrispondente a quella di cui all'art. 143, comma 1, c.c., per il matrimonio, a sua volta diretta emanazione dell'art. 29 Cost., in base al quale il matrimonio si basa sull'uguaglianza morale e giuridica dei coniugi. Nessuna discriminazione può pertanto derivare dal sesso o dall'orientamento sessuale di chi decide in formalizzare l'unione tramite il matrimonio, ovvero un'unione civile.

I doveri di fedeltà e collaborazione

Le differenze tra matrimonio ed unione civile si manifestano in relazione agli specifici doveri conseguenti al vincolo. Come è noto, il comma 2 dell'art. 143 c.c. riconduce al matrimonio gli obblighi di fedeltà, assistenza morale e materiale, collaborazione nell'interesse della famiglia e coabitazione, mentre il comma 3 dell'art. 1 della nuova legge impone ad entrambi i coniugi di contribuire ai bisogni della famiglia, in proporzione alla propria capacità di lavoro, professionale o casalingo. Il citato comma 11, intanto, non contempla, dunque, i doveri di fedeltà e di collaborazione, facendo solo riferimento, all'interno dell'unione civile, agli obblighi di assistenza e coabitazione. Non è previsto, quindi l'obbligo di fedeltà. E' noto come, nel matrimonio, detto obbligo abbia assunto una connotazione differente con il passare del tempo: non più mero divieto di intrattenere con altre persone relazioni sentimentali o sessuali, quanto piuttosto espressione di un impegno di intendere il coniuge come parte di una progettualità condivisa di vita familiare. Di tanto la giurisprudenza ha avuto ad occuparsi in relazione all'addebito della separazione, esigendosi la prova che un eventuale adulterio abbia determinato la crisi coniugale e, dunque, l'intollerabilità della convivenza. Il fatto che, nell'unione civile, l'obbligo di fedeltà non sia stato espresso non significa certamente che le parti siano svincolate da quella progettualità e da quella fiducia reciproca che permea il matrimonio (posto che in difetto, l'unione civile si configurerebbe come un'unione del tutto “libera”, in contrasto con le esigenze solidaristiche che stanno alla base di essa). La fedeltà è invece immanente nel più generale dovere di assistenza morale e materiale, espressione di un'affectio non più solo coniugalis. Del resto, si discute di eliminare il dovere di fedeltà anche dal matrimonio, per ricondurlo in una prospettiva più duttile ed aderente all'essenza con cui le parti si impegnano ad un percorso di vita insieme.

Del pari, nell'unione civile, come premesso, nemmeno è stato indicato il dovere di collaborazione nell'interesse delle famiglia (e si spera che ciò non derivi in qualche modo da qualche riserva nel configurare come “famiglia” l'unione civile tra persone dello stesso sesso). Anche esso può rientrare peraltro nel più generale obbligo di assistenza morale e materiale. Il comma 19 dell'art. 1 della legge in esame estende comunque pure all'unione civile il disposto dell'art. 146 c.c. (e dunque il dovere di assistenza morale e materiale è sospeso nei confronti del partner che abbia abbandonato la casa familiare senza giusta causa e rifiuti di farvi ritorno, ed è ammissibile il ricorso alla speciale forma di sequestro ivi contemplata). Il citato comma 11 prescrive poi alle parti dell'unione civile di contribuire ai bisogni della famiglia, in proporzione alle proprie capacità di lavoro professionale e casalingo. L'utilizzo dell'espressione congiuntiva, e non alternativa, assume una certa rilevanza (non si sa quanto consapevole), ispirandosi ad un modello nuovo di famiglia, certamente estensibile anche a quella eterosessuale, all'interno della quale non vi è più una rigorosa distinzione di ruoli (lavorativo e casalingo) legata al genere, come poteva essere nel 1975 (quando entrò in vigore la riforma del diritto di famiglia).

Violazione dei doveri familiari e tutela risarcitoria

Come si ha modo di osservare specificamente in altro contributo (A. Simeone, Lo scioglimento dell'unione civile: il legislatore furioso ha fatto le norme cieche, in ilFamiliarista.it), la novella esclude che la crisi dell'unione civile debba passare prima per la separazione personale e poi per il divorzio. La separazione non è infatti contemplata, mentre, in base ai commi 22, 23 e 24 dell'art. 1 in esame, l'unione civile si scioglie per alcune cause previste dalla l. divorzio (ad eccezione, in primis della pregressa separazione, non configurata), ma anche per dichiarazione, congiunta o disgiunta, di sciogliere l'unione stessa. L'esclusione della separazione determina l'inammissibilità di ogni accertamento (con efficacia di giudicato) sulle cause della crisi della coppia, ai fini dell'addebito. Non avrebbe quindi significato andare ad accertare, in particolare, se vi sia stata violazione dell'obbligo di fedeltà (sub specie di obbligo di assistenza) da parte di uno dei componenti dell'unione civile, ai fini dell'individuazione della responsabilità della crisi stessa. In realtà, come si è visto, l'unione civile impegna entrambe le parti ad un progetto di vita condivisa (esattamente come nel matrimonio); la violazione di quel reciproco impegno, se pur non rilevante ai fini di un (inesistente) addebito, ben potrà importare in un eventuale procedimento di risarcimento del danno derivante dal c.d. “illecito endofamiliare”, a fronte della compromissione di diritti costituzionalmente rilevanti (salute, reputazione, libertà e autonomia personale, ecc…). La giurisprudenza ha ritenuto configurabile detto illecito, in presenza di condotte del coniuge contrastanti con i doveri che derivano dal matrimonio, espressione di più generali principi di rispetto e di solidarietà della persona dell'altro, operanti, per detta ragione, anche all'interno della convivenza more uxorio, in relazione alla quale il rinvio non può essere all'art. 143 c.c., ma direttamente all'art. 2 Cost. (Cass. 20 giugno 2013, n. 15481). Ma vi è di più: le ragioni che hanno dato luogo allo scioglimento dell'unione civile ben potranno essere vagliate dal giudice, per valutare l'ammontare dell'assegno “divorzile”, che dovesse essere liquidato nella ricorrenza dei presupposti di cui all'art. 5 l. n. 898/1970, richiamato dal comma 25 dell'art. 1 l. cit.; ed invero, come noto, il comma 6 del citato art. 5 dispone che, tra i vari parametri di cui il giudice deve tenere conto nella quantificazione dell'assegno, rientrano pure “le ragioni della decisione”.

Ordini di protezione

Il comma 14 della legge prevede la possibilità per il giudice di disporre ordini di protezione ex art. 342 ter c.c., quando la condotta di uno dei due componenti l'unione sia causa di grave pregiudizio all'integrità fisica o morale, ovvero alla libertà, dell'altro. Si tratta di disposizione ripetitiva del principio di cui all'art. 342 bis c.c. (che già individua come soggetti potenzialmente beneficiari degli ordini di protezione, tanto il coniuge, quanto il convivente, e quindi anche il convivente civilmente unito) confermato dall'art. 5 l. n. 154/2001. La reiterazione della regola denota come il legislatore intenda reprimere ogni forma di violenza domestica, a prescindere dall'orientamento sessuale dei componenti della famiglia, secondo una linea interpretativa già fatta propria dalla giurisprudenza. Ciò, proprio in nome dell'uguaglianza dei diritti e dei doveri derivanti dall'unione.

Regime successorio

Alle parti dell'unione civile sono stati estesi i diritti, di natura patrimoniale, che spettano ai coniugi in caso di decesso. Si tratta certamente di uno degli elementi più significativi della riforma, siccome espressione di una logica solidaristica fondata sulla tutela di esigenze di natura familiare. Come si avrà modo di approfondire (V. Tagliaferri, La successione degli uniti civili, in ilFamiliarista.it), la parte dell'unione civile, al pari del coniuge, è successore legittimo e legittimario; dunque, quella persona concorre con eventuali altri eredi, in mancanza di testamento dell'altra parte premorta (o nel caso in cui il testamento non disponga per l'intero asse) e alla stessa l'ordinamento riserva comunque una quota dell'asse relitto. Resta evidentemente salva la facoltà della parte dell'unione civile di disporre per testamento in favore dell'altra, fatta salva l'eventuale esistenza di soggetti chiamati all'eredità quali legittimari.

Indennità di mancato preavviso e tfr

La parte dell'unione civile ha diritto a percepire l'indennità di mancato preavviso, come pure il tfr, di spettanza del defunto lavoratore subordinato. Il comma 17 dell'art. 1 della legge richiama infatti espressamente gli artt. 2218 e 2120 c.c. In forza del richiamo all'art. 9 in quanto compatibile) contemplato dal comma 25 della legge, è da ritenere che qualora il lavoratore dipendente percepisca il tfr, dopo il “divorzio” dal partner (ossia lo scioglimento dell'unione civile, contemplata dal precedente comma 24), quest'ultimo abbia diritto ad una quota pari al 40% in relazione agli anni di durata dell'unione medesima. Ciò a condizione che sia titolare di assegno periodico e non abbia nel frattempo contratto una nuova unione civile, piuttosto che celebrato un matrimonio. I medesimi principi, che la giurisprudenza ha elaborato in relazione al divorzio, dovranno essere estesi pure all'unione civile; dunque, perché il partner possa fruire della quota parte del tfr non sarà necessaria l'intervenuta emanazione di una sentenza (definitiva, ovvero parziale in punto status), essendo sufficiente che il trattamento sia erogato dopo il deposito della domanda giudiziale. La quota spettante al partner dovrà essere conteggiata sull'importo liquidato al lavoratore, al netto dell'imposizione fiscale e detratti gli eventuali acconti, che fossero stati in precedenza corrisposti.

Pensione di reversibilità

Più dibattuta potrebbe essere la questione afferente la pensione di reversibilità, anche per le inevitabili ripercussioni sulle casse (non certo floride) degli enti previdenziali. E' opportuno qui ricordare che i precedenti disegni di legge, che avevano cercato di introdurre una disciplina minimale delle coppie di fatto (tra persone di sesso diverso, ovvero dello stesso sesso), avevano espressamente escluso il beneficio in favore del partner, preconizzando una futura ed eventuale riforma dell'intera normativa. Ad oggi, la nuova legge nulla dispone espressamente sul punto. Va qui peraltro evidenziato come il comma 20 dell'art. 1 disponga espressamente che, in tutte le disposizioni, normative (diverse dal codice civile) e regolamentari, le previsioni che fanno riferimento ai coniugi, siano da estendere alle parti dell'unione civile fra persone dello stesso sesso. Viene espressamente esclusa la disciplina adozionale, di cui alla l. n. 183/1984 (su cui si tornerà). L'equiparazione fra lo status del coniuge e della persona legata da unione civile è peraltro espressamente finalizzata “al solo fine di assicurare l'effettività della tutela dei diritti e il pieno adempimento degli obblighi derivanti dall'unione civile fra persone dello stesso sesso”. Come è noto, la materia della pensione di reversibilità è totalmente disciplinata da una legislazione speciale, senza alcun riferimento nel codice civile. Ciò, dal punto di vista formale, depone a favore dell'estensione della previdenza. Ma anche sotto il profilo sostanziale, pare non dovrebbero sussistere ostacoli. L'attribuzione anche alla parte dell'unione civile della pensione di reversibilità risponde all'esigenza di garantire l'effettività dei diritti e l'adempimento degli obblighi che legano la coppia, ed in particolare l'obbligo, già ricordato, di assistenza morale e materiale, nonché di contribuzione ai bisogni comuni. La pensione di reversibilità rappresenta uno strumento assistenziale, in favore del componente superstite della coppia, che non può più beneficiare del contributo dell'altro, a causa del suo decesso. La tesi pare confermata dal richiamo operato dal già citato comma 25 (sempre in quanto compatibile) all'art. 12 bis della l. n. 898/1970 (ossia alla norma che attribuisce al coniuge divorziato, se non passato a nuove nozze ed in quanto titolare di assegno periodico, il diritto al trattamento di reversibilità). Il tutto coerentemente con il disposto del comma 67 della nuova legge, a mente del quale il Ministro del lavoro e delle politiche sociali, sulla base dei dati comunicati dall'INPS, provvede al monitoraggio degli oneri di natura previdenziale ed assistenziale, di cui ai commi 11 e 20 della legge, riferendo al Ministro dell'economia e delle finanze. Certo che sarebbe stata opportuna una specifica previsione in merito, che ben difficilmente potrebbe essere demandata alle legislazione delegata, nell'ambito della pur ampia delega, conferita al Governo, dal comma 28 lett. c) quanto alle “modificazioni ed integrazioni normative” per il necessario coordinamento della nuova disciplina con la normativa già in essere.

Alimenti, situazioni di incapacità, prescrizione

Le parti dell'unione civile sono legate reciprocamente dall'obbligazione alimentare, in caso di stato di bisogno, come prevede l'art. 19 dell'art. 1 l. n. 76/2016; la posizione del partner deve essere necessariamente equiparata a quella del coniuge nella gerarchia dei soggetti obbligati, ex art. 433 c.c. Con lo scioglimento dell'unione viene peraltro meno l'obbligo in questione, potendosi invece configurare un vero e proprio assegno “divorzile”.

Similmente al disposto dell'art. 408 c.c., il comma 15 dell'art. 1 della novella prevede che, nella scelta dell'amministrazione di sostegno, il giudice tutelare debba preferire, ove possibile, la parte dell'unione civile. Interdizione e inabilitazione possono essere promosse poi anche dalla parte dell'unione civile, legittimata nel contempo a chiederne la revoca. Detta legittimazione non è stata espressamente estesa in relazione alla nomina di amministratore di sostegno; la parte unita civilmente è peraltro di per sé legittimata, quando stabilmente convivente con il soggetto potenziale beneficiario della misura, se convivente con lui in forza degli artt. 406 e 417 c.c.. Nessuna legittimazione invece gli spetterebbe, in caso di separazione di fatto (situazione questa che introduce una disparità di trattamento rispetto al coniuge e che potrebbe dar luogo ad eccezioni di costituzionalità).

Il comma 18 dell'art. 1 estende il disposto dell'art. 2941 n. 1 c.c. anche alle parti dell'unione civile: nei reciproci rapporti, pertanto, la prescrizione rimane sospesa. All'unione civile si applicano altresì espressamente le previsioni degli art. 116 c.c. (sul matrimonio dello straniero in Italia), art. 2647, 2653 comma 1 n. 4 e 2659 c.c. (sulla trascrizione).

Estensione di altri diritti del coniuge

Proprio in forza del citato comma 20 sono riconosciuti all'unione civile tutti i diritti derivanti dal matrimonio contemplati nella legislazione speciale, ovvero da previsioni codicistiche contemplate nel codice penale ed in quelli di rito (si pensi, a mero titolo indicativo, alle cause di non punibilità e alla facoltà di astensione dal deporre, piuttosto che all'acquisto della cittadinanza italiana per gli stranieri, al ricongiungimento familiare, al congedo matrimoniale e alle prerogative in materia di lavoro, agli assegni familiari, alla disciplina sui carichi di famiglia, ecc…).

Adozione e affidamento di minori

Un'ultima considerazione si impone. La nuova legge ha espunto la possibilità, contemplata nell'originario disegno di legge all'art. 5, dell'adozione (in casi particolari) da parte del partner dell'unione civile, del figlio dell'altro, tramite una progettata modifica dell'art. 44 lett. b) della l. n. 184/1983, che attribuisce detta facoltà al solo coniuge (la c.d. stepchild adoption). E' invece sempre stata esclusa la possibilità di adozione “piena” da parte della coppia dello stesso sesso, riservata solo ai coniugi. Sono ben noti i vivaci contrasti che il citato art. 5 aveva suscitato e che hanno indotto ad un ripensamento da parte del Senato, che ha approvato il c.d. maxiemendamento, con un testo confermato anche dalla Camera dei Deputati (contrasti determinati sovente da pregiudizi per il minore da una crescita all'interno di una famiglia omoaffettiva, se non da paventate legalizzazioni della tecnica della procreazione per conto di altri – il c.d. “utero in affitto” – che l'art. 12 della l. n. 40/2004 vieta espressamente in Italia, sotto comminatoria di sanzione penale). In oggi il comma 20 della l. n. 76/2016 esclude espressamente che l'estensione alla parte dell'unione civile delle previsioni relative al coniuge, contemplate in disposizioni normative diverse dal codice civile, si applichi alle disposizioni di cui alla l. n. 184/1983; è previsto peraltro che “resta fermo quanto previsto e consentito in materia di adozione dalle norme vigenti”. Il testo normativo, per quanto pleonastico, pare volutamente ambiguo; non si è voluta riconoscere espressamente alla parte dell'unione civile la facoltà di adottare (con adozione in casi particolari) il figlio dell'altra (e a maggior ragione si è esclusa l'adozione “piena” per entrambi), ma nel contempo si è fatta salva l'attuale disciplina, necessariamente come interpretata dalla giurisprudenza (il c.d. “diritto vivente”). In questi ultimi tempi, i giudici di merito, in diverse occasioni, hanno esteso l'ambito di operatività dell'adozione in casi particolari, anche a favore del convivente del genitore biologico, dapprima all'interno di una convivenza eterosessuale, e poi anche omoaffettiva, inizialmente tra due donne (una delle quali madre effettiva e l'altra madre sociale) (Trib. Roma 30 luglio 2014, in Fam. e dir. 2015, 6, 574, confermata da App. Roma 23 dicembre 2015 ; Trib. min. Roma 22 ottobre 2015; Trib. min. Roma 30 dicembre 2015) e poi pure tra due uomini (di cui uno genitore naturale di un bimbo nato con la surrogazione di maternità e l'altro padre sociale) (Trib. min. Roma 23 dicembre 2015). Ciò, in forza della lett. d) del cit. art. 44, che legittima l'adozione in caso di constatata impossibilità di affidamento preadottivo. Si è così affermato che detta impossibilità non deve essere soltanto “di fatto” (con riferimento a minori abbandonati, ma in pratica non adottabili da aspiranti genitori, per l'età prossima alla maggiore, ovvero per disturbi caratteriali o tare fisiche), ma potrebbe anche essere “di diritto”, prescindendosi così da una preventiva dichiarazione di stato di abbandono. Si tratta di un orientamento, contrastato da altre pronunce (Trib. min. Torino 11 settembre 2015, in Nuova giur.civ.comm. 2016, 2, 205) e allo stato in attesa di conferma o meno in sede di legittimità; esso è peraltro sintomatico dell'esigenza di creare una relazione giuridicamente rilevante nell'interesse del minore, con esclusione di ogni pregiudizio sugli orientamenti sessuali del genitore. In oggi, pertanto, la tanto temuta stepchild adoption in favore del partner omosessuale rappresenta un istituto già applicato giudizialmente, in quelle coppie prive di un legame giuridico, quale quello dell'unione civile. Sarà, quindi, certamente assai interessante verificare gli indirizzi che si andranno a sviluppare ora che l'unione tra persone del medesimo sesso ha potuto finalmente trovare un espresso riconoscimento a livello normativo.

Ad ogni buon conto, le parti dell'unione civile ben potrebbero rendersi congiuntamente affidatarie di un minore, la cui famiglia si trovi in momentanee situazioni di difficoltà, ai sensi dell'art. 4 della l. 184/1983, che estende detta possibilità anche al singolo, ovvero a conviventi. Va qui rammentato come di recente la giurisprudenza di merito abbia disposto affidamenti familiari, sull'accordo delle parti, ratificato dal servizio sociale, ovvero iussu iudicis anche a favore di coppie conviventi del medesimo sesso, legate da significativo rapporto con il minore (per tutte Trib. min. Palermo 4 dicembre 2013, in Quot giur. 2013). Quell'affidamento, se relativo ad un minore orfano di entrambi i genitori, potrebbe trasformarsi pure in adozione in casi particolari a favore degli affidatari, in base al nuovo testo dell'art. 44 lett. a) della l. n. 184/1983, come novellato dalla l. n. 173/2015; non è quindi escluso che, proprio per legge, anche le parti dell'unione civile possano procedere ad un'adozione (sempre in casi particolari) di un minore (in questo specifico caso, privo di legame biologico con entrambe).

In conclusione

Come si è visto, la maggior parte dei diritti e dei doveri propri dei coniugi si estendono alle persone civilmente unite. La nuova disciplina, sotto alcuni aspetti, pare peraltro più evoluta rispetto a quella matrimoniale, per una diversa concezione dell'obbligo di fedeltà e, soprattutto, per l'eliminazione della separazione personale, quale momento prodromico allo scioglimento dell'unione. Ora che, a seguito del c.d. “divorzio breve” i tempi della separazione si sono notevolmente ridotti e che, in caso di matrimoni con elementi di internazionalità, il Regolamento UE 1259/2010 ammette, anche per coniugi italiani residenti all'estero, di optare per una legislazione che non conosce la separazione (e sono moltissime), passando direttamente al divorzio, la legge sulle unioni civili potrebbe rappresentare un valido elemento per una novella della disciplina matrimoniale, ma pure di quella dell'adozione.

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