La riduzione dell'assegno disposta dal giudice dell'appello decorre dalla pronunzia
30 Dicembre 2016
Massima
La riduzione dell'assegno per il coniuge operata dal Giudice dell'appello rispetto alla misura disposta in primo grado, decorre dalla data della pronunzia e non dalla data della domanda; e ciò in ragione del principio di irripetibilità degli assegni di mantenimento.
Non è affetta da vizio di ultra petizione la sentenza che abbia fissato l'assegno per il coniuge in una misura inferiore rispetto a quella richiesta dall'obbligato, qualora l'ammontare complessivo degli importi per coniuge e figlio sia pari a quanto richiesto dall'obbligato appellante. Il caso
Il Tribunale di Roma dichiarava la separazione giudiziale di Tizio e Caia, fissando un assegno a carico di Tizio sia per il mantenimento della moglie sia per quello del figlio. Tizio, insoddisfatto, ha impugnato la sentenza chiedendo di essere condannato a versare un importo massimo complessivo di € 1.200,00 (di cui € 600,00 per il figlio e, al massimo, € 600,00 per la moglie). La Corte d'appello, con sentenza del 29 novembre 2012, ha ridotto l'assegno ex art 156 c.c. ad € 400,00 e quello ex art. 337-ter ad € 800,00 con decorrenza dalla data della domanda. Ricorreva la moglie in Cassazione lamentendo: a) vizio di ultrapetizione (primo motivo), avendo la Corte fissato l'assegno per il coniuge in un importo (€ 400,00) inferiore rispetto a quello "offerto" dal marito (€ 600,00); b) errata applicazione degli art. 156 e 155 c.c. (oggi art. 337-ter c.c.) conseguenti alla non completa e corretta valutazione delle capacità economiche dell'obbligato (secondo e terzo motivo); c) errata applicazione di norma di legge, per aver erroneamente fatto decorrere gli effetti della riduzione dalla data della domanda e non dalla data della pronunzia di riforma (quarto motivo). La Corte ha respinto il primo, il secondo e il terzo motivo ed accolto il quarto. Le questioni
Nella, peraltro sintetica, motivazione la Corte affronta le tre questioni sollevate dalla ricorrente consistenti: a) nei rapporti tra chiesto e pronunziato, allorquando la sentenza impugnata fissi un assegno in misura inferiore rispetto a quella richiesta dall'appellante, richiedente la riduzione; b) nell'iter logico giuridico da seguire per la determinazione degli assegni di separazione e nei limiti del giudizio di cassazione; c) nella decorrenza degli effetti della pronunzia di appello che abbia modulato in peius gli assegni fissati in primo grado. Le soluzioni giuridiche
La Corte ha respinto i primi tre motivi e accolto il quarto precisando che: a) non sussiste vizio di ultrapetizione giacchè «Il resistente chiarisce di aver chiesto, in appello, la riduzione del contributo di mantenimento per moglie e figlio nei limiti di € 1.200,00 (€ 600,00 per il figlio e, al massimo, € 600,00 per la moglie) ed il giudice a quo ha mantenuto fermo tale importo». Secondo i giudici di legittimità, dunque, la valutazione della corrispondenza tra chiesto e pronunciato deve essere fatta utilizzando un criterio principale e uno supplettivo; quello principale consiste nell'utilizzare la somma degli assegni richiesti come metro di paragone per l'individuazione “numerica” di entrambe le domande (assegno per il coniuge e assegno per il figlio); quello supplettivo consistente nella valorizzazione della locuzione «al massimo», riferita all'assegno per il coniuge, cosicchè è corretto fissare l'assegno in un importo inferiore al limite massimo indicato dall'obbligato nelle proprie conclusioni, secondo la regola “nel più sta il meno”; b)non possono essere riproposti alla Corte di legittimità, sotto forma di motivi di impugnazioni, «profili e situazioni di fatto» già fatti valere in secondo grado, essendo questi «insuscettibili di controllo» in sede di legittimità «se la sentenza caratterizzata da motivazione adeguata e non illogica». In questo caso la Corte ha ribadito un principio ormai graniticamente consolidato; c) la riduzione degli assegni disposta dalla Corte d'appello decorre non dalla data della domanda, ma da quello della decisione, e ciò perchè, secondo la sentenza in commento non è «rimborsabile quanto percepito dal titolare di alimenti o mantenimento, secondo giurisprudenza consolidata (tra le altre, Cass. n. 28987/2008). Ciò, anche per evidenti ragioni di economia processuale». Osservazioni
Pur nella sua stringatissima motivazione, la sentenza in esame enuncia due principi in contrasto con quanto affermato in pronunzie precedenti e recenti. Ci riferiamo alla regola della decorrenza della riduzione degli assegni operata in sede di appello rispetto a quanto disposto in primo grado: dal tenore della motivazione sembrerebbe annullarsi il potere discrezione del Giudice del merito di modulare diverse decorrenze e diversi importi degli assegni di mantenimento, a favore di una regola fissa e immutabile, per cui gli effetti della sentenza di riforma decorrono sempre e comunque dalla sua pronunzia; e ciò, si ripete, in contrasto con la giurisprudenza prevalente (Cass., 28 gennaio 2005, n. 1824; Cass. civ., sez. I, 21 luglio 2004, n. 13507; contra Cass. civ., 15 giugno 1995, n. 6737). La soluzione adottata dalla Corte – almeno nei termini in cui il principio è stato espresso - non pare essere condivisibile, trattandosi di principio che tenderebbe a scardinare l'essenza stessa del procedimento di appello, inteso come revisio prioris instantiae, e a cancellare l'effetto sostitutivo della sentenza di secondo grado rispetto a quanto stabilito dal Tribunale. La Corte non pare mettere sufficientemente a fuoco, nel proprio ragionamento, il rischio (non infrequente) di errori nella determinazione degli assegni di mantenimento in sede di separazione e divorzio ed esclude la facoltà del giudice dell'appello di correggere quegli errori (che possono anche pregiudicare l'equilibrio economico della famiglia separata). Ancora meno condivisibile è la motivazione utilizzata dai Supremi Giudici per giustificare la scelta operata: l'irripetibilità delle somme. Pare (si ripete, la motivazione è assai stringata) che il ragionamento sia il seguente: gli importi versati dall'obbligato in forza dei provvedimenti vigenti, rationae temporis, ma eccedenti quelli fissati nella sentenza poi riformata in sede d'appello non sono ripetibili; onde evitare inutili e costosi procedimenti per il recupero dell'asserito indebito oggettivo, per ragioni di economia processuale, è preferibile chiarire sin da subito che gli effetti dell'appello (e, dunque, della riduzione) decorrono dalla data della sentenza e non retroagiscono. Con la pronunzia in commento la Corte, dunque, ha smentito sé stessa e il lungo cammino che è stato fatto sinora per stabilire, in nome di un principio di giustizia sostanziale, che gli errori nella determinazione dei contributi al mantenimento non possono gravare sull'obbligato al mantenimento, il quale abbia correttamente adempiuto a un provvedimento dell'Autorità Giudiziaria poi risultato errato, con conseguente ripetibilità delle somme versate in eccedenza rispetto alla parte dell'assegno cui debba riconoscersi “natura alimentare” (Cass. civ., sez. I, 23 maggio 2014, n. 11489; Cass. civ., sez. I, 20 marzo 2009, n. 6864); un passo indietro (Cass. civ., sez.I, 12 giugno 2006, n. 13593) che potrebbe avere l'effetto distorsivo di incentivare l'inadempimento degli importi fissati in sentenza, in attesa della sentenza di secondo grado. É dunque, da sperare, che l'intervento della Corte, seppure ciò non risulti espressamente dalla motivazione, sia limitato ad un caso assai specifico e peculiare, con la conseguenza che il principio ivi espresso non possa essere replicato in altre decisioni; così come sarebbe fondamentale, anche nel rispetto dell'attività normofilattica dei supremi giudici, un intervento delle Sezioni Unite che componga, in via definitiva, il contrasto giurisprudenziale tra chi ritiene, come la sentenza in commento, che gli importi dovuti a titolo di assegno (e dovuti sulla base di una sentenza poi riformata) non siano ripetibili e chi, invece, a giudizio di chi scrive assai più correttamente, aderisce alla tesi contraria, seppure nei limiti degli importi eccedenti quelli destinati a soddisfare le esigenze alimentari (Cass. civ. n. 11489/2014).
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