L’anonimato della madre prevale sulle esigenze del figlio non riconosciuto
24 Novembre 2015
Il parto e il mancato riconoscimento della figlia. Nel 1975 una donna dava alla luce una bambina. Mentre il padre decideva di riconoscere la neonata, la madre decideva di rimanere anonima, molto probabilmente perché la figlia era stata concepita durante la relazione extraconiugale tra i due genitori. Nel 2014, la ragazza, ormai maggiorenne ma incapace, conveniva in giudizio in persona dell'amministratore di sostegno, affinché venisse riconosciuta come figlia naturale della convenuta, presunta madre, con conseguente condanna al pagamento delle somme dovute dal momento della nascita a titolo di arretrati di mantenimento e, per il futuro, di assegno mensile. Alla base della richiesta dell'attrice vi era l'intervenuto decesso del padre, l'unico a sostenere economicamente la figlia affetta da patologie psichiatriche e da invalidità permanente e alla quale era stata riconosciuta una pensione di invalidità civile ed indennità di accompagnamento di circa 780,00 €, cifra insufficiente per le sue necessità. Sicché la donna chiedeva un ulteriore sostegno economico alla genitrice di cui invocava il rapporto di filiazione. In particolare, la prova documentale della maternità della convenuta doveva desumersi dal confronto tra l'atto integrale di nascita dell'odierna attrice e la cartella clinica, ottenuta in fotocopia dal padre, dal quale emergeva la coincidenza tra la bambina partorita dalla convenuta, che al momento del parto aveva chiesto di non essere nominata, e la bambina denunciata all'anagrafe dal padre.
Il diritto all'anonimato. «La domanda è infondata e deve essere respinta», difatti il Giudice milanese spiega che «nel nostro ordinamento è espressamente previsto dalla legge il diritto della madre di non essere nominata nell'atto di nascita del figlio, diritto che si sostanzia nella facoltà di rimanere anonima nei confronti del figlio che ha dato alla luce». Vi sono invero una serie di norme (v. art. 73, R.d. n. 1238/1939; art. 93, comma 2, d.lgs. n. 196/2003; art. 28, l. n. 184/1983) che riconoscono tale diritto e che rispondono all'esigenza di tutelare la madre che versi in situazioni difficili dal punto di vista personale, sociale e economico, e che abbia deciso di non tenere con sé il figlio mantenendo l'anonimato nella dichiarazione di nascita. Così facendo, da un lato si assicura che il parto avvenga in condizioni ottimali sia per la madre che per il neonato, e dall'altro si distoglie la donna da decisioni irreparabili (C. cost., n. 425/2005). Il parto anonimo rimane così un'alternativa per la donna all'interruzione di gravidanza, lecita ma pur sempre traumatica, o a comportamenti criminali quali l'infanticidio o l'abbandono del neonato (App. Catania, 5 dicembre 2014). Si registrano, altresì, recenti interventi di Alte Corti (CEDU 22 settembre 2012, caso Godelli c. Italia e C. Cost., n. 278/2013) che invece «hanno censurato la “cristallizzazione” e l'immobilizzazione” del diritto della madre, ed il fatto che non siano presenti strumenti che consentano di indagare la perdurante attualità della scelta della madre trascorsi numerosi anni dalla sua espressione». Tali Corti hanno comunque ritenuto «che la volontà della madre di rimanere anonima, allorché non vi sia espressione di un diverso avviso da parte della stessa, sia degna di tutela e debba prevalere sull'interesse del figlio a conoscere le proprie origini e alla propria identità biologica».
Il bilanciamento dei diritti. Nel caso di specie sono diversi i diritti in gioco: il diritto alla vita ed alla salute di madre e figlio, indirettamente sottesi alla facoltà della madre di rimanere anonima, ed il diritto del figlio maggiorenne ma incapace ad essere mantenuto. Il bilanciamento di questi diritti deve essere effettuato dando prevalenza al primario diritto alla vita. Il Tribunale di Milano, nel decidere, sottolinea da un lato che manca la prova certa che la convenuta sia la madre biologica e dall'altro che la stessa con la propria opposizione e difesa abbia voluto ribadire la volontà, già espressa al momento del parto, di voler mantenere l'anonimato. Invero, una pronuncia, contro la volontà della madre, che accerti lo status giuridico dell'attrice quale figlia della convenuta sarebbe pregiudizievole del diritto all'anonimato della donna, ma soprattutto «frustrerebbe in modo illegittimo la finalità e la sostanza del diritto azionato» dalla madre. Sulla base di tali argomenti, il Tribunale ha rigettato la domanda. |