L’utilizzabilità delle prove illecitamente acquisite nel processo di separazione

26 Settembre 2017

L'Autore analizza il complesso rapporto tra tutela della privacy e dinamiche familiari, soffermandosi in particolare sugli illeciti penali a cui un coniuge può esporsi nel tentativo di precostituirsi delle prove da allegare nel giudizio di separazione o di divorzio, trattando dati personali dell'altro coniuge di cui ha avuto conoscenza in costanza di convivenza matrimoniale. Particolarmente controverso è il tema dell'utilizzabilità o meno nel giudizio civile di tali prove illecitamente acquisite.
Diritti delle parti e dinamiche familiari

Il tema dell'interferenza tra le dinamiche familiari e la privacy del singolo coniuge assume particolare rilievo nella fase istruttoria dei giudizi di separazione e divorzio.

Tanto ai fini della prova della violazione dei doveri coniugali posta a fondamento della domanda di addebito della separazione, quanto ai fini della dimostrazione del tenore di vita e della consistenza patrimoniale di un coniuge necessaria per la determinazione delle condizioni di natura economica, le informazioni personali riguardanti la vita delle parti in causa risultano di grande interesse e agevolmente reperibili in un epoca di grande condivisione sociale.

Basti pensare alla quantità di materiale reperibile attraverso la consultazione dei social network.

Si segnala sul punto una interessante pronuncia del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere del 13 giugno 2013, che, nell'ambito di un giudizio per la modifica delle condizioni di separazione, ha chiarito che «il social network “Facebook” si caratterizza, tra l'altro, per il fatto che ciascuno degli iscritti, nel registrarsi, crea una propria pagina nella quale può inserire una serie di informazioni di carattere personale e professionale e può pubblicare, tra l'altro, immagini, filmati ed altri contenuti multimediali; sebbene l'accesso a questi contenuti sia limitato secondo le impostazioni della privacy scelte dal singolo utente, deve ritenersi che le informazioni e le fotografie che vengono pubblicate sul proprio profilo non siano assistite dalla segretezza che, al contrario, accompagna quelle contenute nei messaggi scambiati utilizzando il servizio di messaggistica (o di chat) fornito dal social network; mentre queste ultime, infatti, possono essere assimiliate a forme di corrispondenza privata, e come tali devono ricevere la massima tutela sotto il profilo della loro divulgazione, quelle pubblicate sul proprio profilo personale, proprio in quanto già di per sé destinate ad essere conosciute da soggetti terzi, sebbene rientranti nell'ambito della cerchia delle c.d. “amicizie” del social network, non possono ritenersi assistite da tale protezione, dovendo, al contrario, essere considerate alla stregua di informazioni conoscibili da terzi. In altri termini, nel momento in cui si pubblicano informazioni e foto sulla pagina dedicata al proprio profilo personale, si accetta il rischio che le stesse possano essere portate a conoscenza anche di terze persone non rientranti nell'ambito delle c.d. “amicizie” accettate dall'utente, il che le rende, per il solo fatto della loro pubblicazione, conoscibili da terzi ed utilizzabili anche in sede giudiziaria».

In proposito è bene chiarire che il matrimonio non determina alcuna compromissione del diritto alla riservatezza di ciascun familiare, con la conseguenza che anche tra coniugi valgono le medesime regole in materia di privacy dettate per i soggetti terzi.

Pur tuttavia il d.lgs. 30 giugno 2003 n. 196 (c.d. codice della privacy) prevede una specifica deroga alla regola del preventivo consenso dell'interessato al trattamento dei propri dati personali, allorché tale trattamento sia effettuato esclusivamente per far valere in giudizio un proprio diritto.

Il punto cruciale dunque è come il coniuge sia entrato in possesso di tali dati personali e/o sensibili dell'altro, onde comprendere, ai fini della producibilità delle prove, se esse siano state acquisite per mezzo della commissione di un reato.
Fattispecie penalmente rilevanti

Il primo reato che un coniuge può rischiare di commettere nel tentativo di provare la violazione dei doveri nascenti dal matrimonio da parte dell'altro è quello di interferenza illecita nella vita privata, punito dall'art. 615-bis c.p..

Tale norma vieta di utilizzare qualunque mezzo di riproduzione visiva o sonora, volto a ottenere indebitamente immagini o audio relativi a terze persone nei luoghi di privata dimora. Inoltre, per la configurazione del reato, è necessario che l'apprendimento di tali notizie avvenga indebitamente, con la conseguenza che è sempre consentita la registrazione di una conversazione (sia essa telefonica o ambientale) da parte di uno dei partecipanti alla conversazione stessa; qualora invece la conversazione telefonica intervenga tra soggetti terzi, e venga “intercettata” abusivamente, si configurano rispettivamente i reati di cognizione illecita di comunicazioni telefoniche e di installazione di apparecchiature atte ad intercettare comunicazioni telefoniche, di cui agli artt. 617 e 617-bis c.p..

Un'altra condotta penalmente rilevante e strettamente collegata alle allegazioni probatorie nell'ambito dei procedimenti di separazione e divorzio è quella dell'accesso abusivo ad un sistema informatico, punito dall'art. 615-ter c.p..

Tale reato si configura ogni qual volta un soggetto si introduca abusivamente in un sistema informatico protetto da misure di sicurezza (es. password).

Spesso l'accesso ad un sistema informatico altrui è finalizzato al reperimento della corrispondenza privata del titolare dell'apparecchio, con la conseguenza che il reato sopra richiamato può concorrere con quello di violazione, sottrazione e soppressione della corrispondenza, punito ai sensi dell'art. 616 c.p..

Tale ipotesi di reato è quella che viene più frequentemente in rilievo nell'ambito del contenzioso tra coniugi. Infatti, tanto la corrispondenza cartacea, quanto quella telematica, è spesso nella disponibilità dell'altro coniuge in costanza di matrimonio, e, in pendenza di separazione, può rappresentare un utile mezzo di prova, sia ai fini della domanda di addebito (es. corrispondenza tra il coniuge e la persona con la quale sia in corso una relazione extra coniugale), sia ai fini delle domande di natura economica (es. gli estratti dei conti correnti bancari possono costituire valida prova sia rispetto alla consistenza patrimoniale del titolare sia rispetto al tenore di vita goduto dalla famiglia).

Ai fini della sussistenza del reato, con riguardo alla presa di conoscenza del contenuto della corrispondenza, si precisa che essa deve essere qualificabile come “chiusa”, da intendersi non solo nel senso di una busta fisicamente chiusa ma anche un messaggio di posta elettronica su un indirizzo protetto da password, o la chat di whatsapp su un cellulare protetto da pin (vedi C. Melzi D'Eril - I. Campolo, op. cit). Lo stesso reato si configura altresì nel caso di rivelazione, senza giusta causa, di corrispondenza altrui (anche non qualificabile come chiusa). In questo secondo caso ci si deve interrogare se la tutela del diritto soggettivo che si intende far valere in giudizio possa rappresentare “giusta causa” che sussiste solo nel caso in cui la produzione in giudizio della corrispondenza del coniuge sia l'unico mezzo a disposizione per contestare le richieste della controparte. Con la conseguenza che, ove il medesimo risultato si possa ottenere con altri strumenti istruttori, quale ad esempio l'ordine di esibizione ex art. 210 c.p.c., si configura il reato di violazione della corrispondenza.

Utilizzabilità nel processo delle prove illecitamente acquisite

Il tema risulta controverso in dottrina e in giurisprudenza a causa del fatto che il nostro diritto processuale civile, a differenza di quello penale, non disciplina espressamente l'utilizzabilità delle prove illecite da intendersi come quelle acquisite con modalità illecite, cioè espressamente non consentite dal nostro ordinamento. Ci si deve dunque chiedere se, indipendentemente dall'eventuale procedimento penale, siano producibili e utilizzabili dal Giudice, ad esempio, la corrispondenza sottratta illecitamente, le copie delle mail scaricate da un account protetto da password, le registrazione audiovideo in assenza dell'agente, la registrsazione, i messaggi whatsapp, etc..

Non esiste un orientamento univoco e consolidato.

Una prima tesi, tradizionale, afferma che benché il favor veritatis debba consentire al Giudice della separazione di utilizzare ampi spazi di indagine, con conseguente limitazione delle regole di esclusione dei mezzi di prova, esso non può legittimare l'utilizzo di mezzi di prova assunti in violazione della legge. L'utilizzo in giudizio di prove ottenute o raccolte illecitamente sarebbe infatti inconciliabile con la logica costituzionale volta alla tutela dei diritti fondamentali della persona, quali ad esempio la segretezza della corrispondenza e di ogni altra comunicazione, e alla garanzia dei principi del giusto processo.

L'utilizzabilità delle prove illecitamente procurate sarebbe altresì incompatibile con la naturale inclinazione del nostro ordinamento a rigettare qualsivoglia forma di arbitrario e violento esercizio delle proprie ragioni. Tale tesi è stata peraltro accolta con favore dalla giurisprudenza della Suprema Corte (cfr. Cass 8 novembre 2016, n. 22677; vedi anche L. Ventorino, La prova illecita nei procedimenti di affidamento della prole, www.ilfamiliarista.it)

Un secondo orientamento assume invece che, mancando nel codice di procedura civile una norma analoga a quella di cui all'art. 191 c.p.p. che sancisce l'inutilizzabilità, rilevabile anche d'ufficio in ogni stato e grado del procedimento, delle prove acquisite in violazione dei divieti stabiliti dalla legge, esse sarebbero liberamente valutabili dal giudice ai sensi dell'art. 116 c.p.c., e ciò in quanto l'eventuale illiceità si sarebbe verificata in una fase preprocessuale senza ripercuotersi sugli atti. Secondo il Tribunale di Roma, in particolare «nel contrasto tra l'interesse privato alla segretezza e diritto alla prova, quest'ultimo» prevale, giacché «per escludere l'ammissibilità di una prova acquisita con modalità illecite, è necessaria la sussistenza di una norma processuale che sancisca espressamente la nullità, essendo precluso al giudice la valutazione di ammissibilità, di prove precostituite in giudizio. Nella specie è necessario compiere un bilanciamento tra diritti e interessi fondamentali, ed in particolare tra il diritto alla difesa e alla prova da un lato e il diritto alla riservatezza e alla protezione dei dati personali, dall'altro» (Trib. Roma, 20 gennaio 2017, v. Tribunale di Roma: sì all'uso delle prove illecite nei procedimenti di affidamento dei minori in www.ilFamiliarista.it).

In tal senso, anche se in materia differente, si segnala al riguardo una interessante pronuncia del Tribunale di Milano, sezione specializzata in materia di impresa (Trib. Milano, sent. n. 9431/2016), che ha osservato che la disciplina speciale contenuta nel c.d. codice della privacy rinvia per le questioni di utilizzabilità in giudizio di documenti basati sul trattamento di dati personali non conforme alla legge, alle disposizioni processuali in materia civile e penale (art. 160, comma 6, d.lgs. n. 196/2003) e che, dal canto suo, il codice di procedura civile non contiene, a differenza di quello di procedura penale, alcuna norma che sancisca un principio di inutilizzabilità delle prove illegittimamente acquisite in violazione di legge. Da ciò si desumerebbe la volontà del legislatore di separare, nel processo civile, la questione processuale della produzione dei documenti, connessa al diritto di difesa, dalla questione sostanziale relativa alle modalità di acquisizione della documentazione, che può essere oggetto di separata controversia civile o procedimento penale, lasciando all'apprezzamento del Giudice nel caso concreto l'utilizzabilità delle prove (cfr. anche Pret. Trapani, 20 marzo 1993).

Conclusioni

La circostanza che il codice della privacy non regolamenti l'utilizzabilità di documenti reperiti in violazione delle proprie norme, rinviando sul punto ai codici di rito, ha diviso la dottrina civile tra chi ne ritiene l'inutilizzabilità in forza dei principi costituzionali che permeano il nostro ordinamento, e chi ne ammette il libero apprezzamento da parte del giudice in ragione della mancata previsione nel codice di procedura civile di uno specifico divieto in tal senso.

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