Il nuovo ruolo dell’avvocato nel diritto di famiglia
27 Febbraio 2017
La degiurisdizionalizzazione: un nuovo modo di intendere la composizione della lite
Con il d.l. 12 settembre 2014 n. 132 convertito in l. 10 novembre 2014 n. 162, oltre alla normativa orientata a correggere le disfunzioni del processo civile (giudicata generalmente non utile ma nemmeno dannosa) è stata anche introdotta una nuova parola nel nostro linguaggio, prima sconosciuta: “degiurisdizionalizzazione”. Per la verità la parola, pur se ignorata sino ad oggi dai dizionari della lingua italiana, esisteva da qualche tempo nel gergo politico ma non veniva mai usata nell'ambito professionale né, in generale, in quello giudiziario. Quindi tale termine, pur se difficile da pronunciare, ha in sé un connotato di creatività che può avere un suo senso nella vita dei cittadini perché può modificare il loro modo di ricorrere alla giustizia e, forse, anche il loro modo di litigare: a volte, un diverso modo di ricorrere alla giustizia può anche incidere sul significato personale della lite. In altre parole, il diverso modo istituzionale di risolvere il conflitto può contribuire, sin dall'origine, alla qualità del conflitto stesso, che può nascere già nella diversa dimensione della sua possibile soluzione amichevole anziché in quella contenziosa della necessaria vittoria o sconfitta; con assunzione di responsabilità e attuazione delle risorse personali di ciascuno. Un diverso modo, quindi, di pensare alla lite fondato sul diverso valore che lo Stato stesso le attribuisce quando decide di toglierla al processo per affidarla all'avvocatura; avvocatura che non ha più la decisione del giudice come risultato finale del suo lavoro e che deve, pertanto, avere la capacità di giungere da sola alla “decisione” nella diversa prospettiva conciliativa. Una specie di feedback, cioè una ricaduta positiva sulla lite e sulle sue modalità. Alla classe forense, la legge ha dato un'opportunità che al momento, però, non sembra venga apprezzata in tutto il suo valore evolutivo: quella di rappresentare le persone che vengono assistite in un dialogo che, anziché adeguarsi necessariamente alle regole del diritto e del processo, possa orientarsi più apertamente verso la comprensione degli avvenimenti che hanno dato luogo alla lite senza il timore che essi arrechino pregiudizio alle ragioni dell'uno o dell'altro, ma con la certezza che costituiscano il mezzo per trovare la giusta soluzione: è come se si trattasse della ricerca di una verità diversa da quella processuale (fondata sulla prova) e più aderente alla realtà delle cose che effettivamente accadono, anche se non processualmente provate. Il nuovo ruolo richiesto all'avvocato
La complicata parola, entrata nel mondo forense, dà dunque la possibilità di rivalutare la professionalità degli avvocati per toglierla dalla vecchia modalità litigiosa che il processo in qualche modo imponeva e per avviarla alla comprensione del cambiamento della professione e del mondo che la circonda. Una possibilità, peraltro, non estranea al ruolo professionale che compete all'avvocato, giacché la transazione ex art. 1965 c.c. non è un istituto sconosciuto, ancorché abbia sempre costituito un modo residuale o comunque marginale di concludere le controversie (le "reciproche concessioni" che la norma prevede non hanno quel carattere evolutivo che oggi viene richiesto nel trattare in modo conciliante la lite). È come se, sino ad oggi, la cultura professionale dell'avvocatura - peraltro nata in un mondo diverso - fosse quella di dare più spazio agli aspetti astrattamente giuridici dei problemi, alle contraddizioni legislative utili alle nostre tesi difensive, al silenzio su circostanze importanti ma non dimostrate e via dicendo. In altri termini, la sottrazione del processo al giudice per darlo ai professionisti, pur se avvenuta nella limitata ottica di risolvere l'arretrato giudiziario o il numero di ricorsi al Tribunale, costituisce uno stimolo al cambiamento: nelle situazioni complesse è più importante cercare quello che può essere visto come risorsa che non la patologia delle situazioni stesse. Se oggi gli avvocati sono chiamati a comporre il conflitto, non possono più litigare come se fossero nel processo, altrimenti continuerebbero ad avere necessità del giudice. Un cambiamento dunque si impone; occorre evitare che la parola "degiurisdizionalizzazione" si riduca ad una pura e semplice delega di ciò che prima era di competenza del giudice, senza quella trasformazione necessaria ad assumere nuove competenze in un nuovo ruolo (trasformazione che in alcuni tribunali, come in quello milanese, era già in corso da tempo nell'ottica della collaborazione tra i diversi ruoli del giudice e dell'avvocato); perché è la stessa lite oggi a cambiare ed è proprio la legge a permettere la costruzione di un nuovo pensiero: essa non é più orientata ad essere decisa da un terzo ma, con un cambiamento di mentalità e di valori, è orientata ad essere decisa proprio da coloro che rappresentano i “litiganti”. Lo Stato esce dalla sua necessaria gestione del conflitto per lasciare spazio al cittadino rappresentato da tecnici che lo aiutano a trovare una soluzione compatibile con tutte le esigenze in gioco; vale a dire, una soluzione che, paradossalmente, vada bene per tutti. Il Legislatore l'ha fatto per ragioni organizzative e funzionali, ma l'inserimento nella realtà dei nuovi procedimenti produce effetti propri che vanno oltre la disfunzione: e vanno oltre la cultura che ha portato alla disfunzione, oltre la modalità della lite decisa dal terzo. Una specie di lite responsabile. Come sostenuto da Massimo Crescenzi, già Presidente del Tribunale di Roma,: «La nuova normativa può quindi essere uno strumento che funzioni da stimolo per una complessiva evoluzione dell'avvocatura verso un approccio che privilegi la mediazione e la negoziazione e che releghi il conflitto giudiziale a quelle questioni che effettivamente lo meritano».Se così non fosse e se l'ambito di operatività della legge coincidesse in gran parte con ciò che già avviene, vale a dire con le abituali odierne definizioni consensuali senza che queste avvengano «in numero maggiore di quanto già adesso gli avvocati non riescano a fare (...) questo significherebbe il sostanziale fallimento della nuova normativa».Negoziazione significa 'accompagnamento' dei coniugi verso soluzioni consensuali. «In questa ottica, la responsabilizzazione degli avvocati è un'occasione da non perdere, né da parte degli stessi avvocati, chiamati ad assumere quel ruolo di mediazione e di negoziazione che la legislazione oggi offre loro, e non solo con la normativa in esame, né da parte dei giudici che devono saper gestire le incongruenze delle norme per incrementare il più possibile tale condivisione di responsabilità, quale motivo di crescita della sensibilità dell'avvocatura verso quel ruolo di mediazione che caratterizza la figura dell'avvocato in tutti i grandi paesi stranieri». Vi sono Paesi stranieri (europei) nei quali vi é una semplificazione legislativa soprattutto nella materia familiare, a fronte della quale in Italia «pur nel notorio sfascio della giustizia civile, si ritiene giusto che i coniugi possano litigare dinanzi al giudice in due procedimenti diversi e successivi e possano anche perseguire tre gradi di giudizio solo per far dichiarare l'addebito della separazione, che spessissimo non ha alcuna conseguenza pratica; e alla separazione ed al divorzio faranno da corollario una pluralità di altre tipologie di contenzioso: i conflitti sulle spese straordinarie, lo scioglimento della comunione, le controversie derivanti dall'inadempimento dei coniugi alle clausole della separazione o del divorzio, fino alle azioni di simulazione od alle revocatorie dei trasferimenti patrimoniali, ecc.; perfino gli incrementi patrimoniali che intervengano ad anni di distanza dalla fine della convivenza possono giustificare nuove discussioni tra gli ex coniugi» (www.questionegiustizia.it, 22 gennaio 2015). La reazione della classe forense di fronte al cambiamento
L'avvocatura non ha reagito favorevolmente alla nuova normativa e ha pensato che le varie questioni dovute alla mancanza di chiarezza e contraddittorietà delle norme comportassero una eccessiva responsabilità professionale, tanto da rendere preferibile - in linea generale - rivolgersi al giudice (titolare in via esclusiva delle responsabilità degli atti processuali) invece che imbarcarsi in una trattativa nell'ambito di un procedimento (quello degiurisdizionalizzato) con termini di legge incombenti, circolari ministeriali problematiche nell'interpretazione, oscurità negli interventi (compiti di trasparenza e possibilità di contestazioni da parte del cliente, certificazione dell'autografia del cliente e conformità dell'accordo alle norme imperative, responsabilità per trasferimenti immobiliari, osservanza del termine drastico per l'invio all'Ufficiale dello stato civile, congruità degli impegni assunti rispetto ai redditi dichiarati ecc..). È vero, e le critiche hanno un loro rilievo; non, però, per concludere sic et simpliciter che quelle responsabilità vanno oltre le possibilità degli avvocati di accogliere le modifiche legislative ma, al contrario, per considerare quelle modifiche sotto il profilo della funzione creativa che attribuiscono agli avvocati e che non si possono ignorare; né si può negare alla professionalità della classe forense la capacità di accoglierle. Anzi, il lavoro del difensore tecnico è proprio un lavoro creativo perché ha un connotato fortemente sociale che non può fare a meno di seguire, adeguarsi e comprendere la realtà che per di più, oggi, è in continuo movimento. É un discorso che va oltre il dettato legislativo ma che da quel dettato, in ogni caso, prende le mosse. Del resto, già prima di queste disposizioni normative l'orientamento conciliativo faceva parte della trasformazione del ruolo dell'avvocato perché anche il processo si stava trasformando in quel senso. La lite, infatti, già da tempo ha in sé il germe della sua composizione processuale amichevole ed il processo milanese l'aveva già da tempo intuito e praticato: il passaggio da "L'isola della famiglia nella tempesta del processo" a "L'isola della famiglia nella quiete della mediazione" è stato bene evidenziato (cfr. G. Servetti, G. Buffone, in Questione giustizia n.1, 2015). Gli interventi già in essere sono, ad esempio: - la proposta conciliativa giudiziale ex art.185-bis c.p.c.; - il 'rito partecipativo' ora applicabile non solo alle controversie tra genitori di figli nati fuori dal matrimonio (art. 316, comma 4 e art. 337-bis e ss. c.c.) ma anche a quelle con figli nati nel matrimonio nei procedimenti ex artt. 337-quinquies c.c., 710 c.p.c., 9 l. div., con l'intervento di un giudice onorario che proviene proprio dall'avvocatura e che ha una specializzazione nei conflitti familiari e nelle tecniche di mediazione; - la mediazione civile diversa da quella familiaree diversa da quella all'interno del processo, istituita con d.lgs. 4 marzo 2010 n. 28 e integrata dalla l. 9 agosto 2013 n. 98 (di conversione del d.l. 21 giugno 2013 n. 69) che ha introdotto all'art. 5, comma 2, d.lgs. n. 28/2010 l'attribuzione al giudice della facoltà di disporre che le parti procedano alla mediazione; mediazione, quindi, che diviene obbligatoria e che, di conseguenza, rappresenta una condizione di procedibilità della domanda (a differenza della mediazione familiareche è fondata sul consenso); - il Coordinatore genitoriale che è una figura recentemente individuata dalla giurisprudenza milanese «con il compito di facilitare la risoluzione delle dispute tra genitori altamente conflittuali e con lo scopo di ridurre l'eccessivo ricorso ad azioni giudiziarie» (Trib. Milano 29 luglio 2016, pres. est. Laura Cosmai, Coordinatore genitoriale: il Tribunale di Milano specifica funzioni e potere, in IlFamiliarista.it). Ora, vi è come ulteriore alternativa, la Pratica Collaborativa (AIADC-Associazione Professionisti Collaborativi che fa parte di una Comunità internazionale di professionisti IACP - International Academy of Collaborative Professionals) nata nel 2010 per soli avvocati ed estesa successivamente ad altri professionisti (esperti di relazioni familiari, facilitatori della comunicazione, esperti finanziari). Si tratta di un «metodo alternativo di risoluzione delle controversie che, mediante il rispetto di alcuni principi e l'osservanza di un procedimento strutturato, crea deliberatamente le condizioni più adatte perché si moltiplichino le possibilità di soluzione conciliativa per le parti in conflitto. Alla base di tale metodo vi è la consapevolezza che il contesto in cui si lavora condiziona in modo significativo l'atteggiamento di parti e professionisti e, dunque, il risultato finale». É un metodo che, nato per le controversie familiari, è ora utilizzabile in ogni campo del diritto; è centrato sul cliente, sulla specificità di ogni caso e sulla conseguente necessità di individuare una soluzione su misura (www.praticacollaborativa.it). Per non dire poi che, già negli anni '80, l'esigenza conciliativa era insita nella mediazione familiare, esigenza emergente in quegli anni, orientata, dopo la riforma del 1975, ad aiutare i coniugi a separarsi amichevolmente per continuare a svolgere con responsabilità la loro funzione genitoriale: non si trattava di uno strumento processuale, ma nel processo milanese fin da allora vi si faceva ricorso perché, dopo tale riforma, aveva cominciato a delinearsi il valore evolutivo della relazionetra le parti e della composizione dei loro interessi. Il cambiamento della famiglia
La preparazione professionale dell'Avvocato che, a parere di chi scrive, deve orientarsi alla conciliazione in tutti i rami del diritto (perché la matrice del conflitto ha spesso un uguale fondamento e la conciliazione svolge altrettanto spesso la medesima utile funzione, salva ovviamente la delega al giudice, come ha scritto Massimo Crescenzi, di «quelle questioni che effettivamente lo meritano»), nella famiglia assume un'importanza determinante perché deve tener conto degli aspetti “relazionali” che sono emersi nella sua trasformazione all'interno di un fenomeno sociale di grande complessità e in altrettanto grande e rapida evoluzione: non dobbiamo certo diventare psicologi (questi possono essere chiamati in nostro aiuto quando, nelle controversie da noi gestite, ve ne sia la necessità) ma dobbiamo considerare ugualmente l'aspetto umano della vicenda per redigere un progetto difensivo che vada al di là delle tradizionali vittoria e sconfitta ma che tenga conto dei reali e concreti interessi in gioco anche proiettati nel futuro.Progetto che la nuova legislazione ci consente e che deve ormai chiaramente tener conto del fatto che la società è attraversata da cambiamenti epocali (che potremmo chiamare planetari se volessimo considerare anche quelli di tipo climatico e di tipo politico-economico) che sul piano socio-culturale, ciò che qui maggiormente interessa, sono così accelerati da entrare immediatamente nella nostra quotidianità. I cambiamenti ci sono sempre stati nella storia dell'umanità ma si muovevano con lentezza e ne permettevano l'assimilazione a livello sociale e culturale: oggi non è più così. È la quotidianità ad essere coinvolta nel cambiamento, per la rottura degli equilibri che avviene proprio nella nostra vita familiare e lavorativa; rottura di equilibri «perché viene meno un ordine sociale implicitamente evidente e accettato da decenni e forse da secoli nei rapporti tra i sessi, tra generazioni, tra classi sociali, nei comportamenti che le classi sociali avevano nei confronti delle vicende della vita, della nascita, della morte, dei matrimoni, di vicende lavorative e che avvenivano alla luce di chiare distinzioni di che cosa è il valore, di cosa è il disvalore. Oggi questo ordine sociale è venuto meno irrimediabilmente, non tornerà più e questo provoca dei disorientamenti molto forti: oggi non si sa più cos'è il valore e che cos'è il disvalore, ci sono delle contraddizioni fortissime, c'è la multiculturalità che non è data tanto dalle persone che vengono dai paesi comunitari e extracomunitari, ma c'è una multiculturalità tra le generazioni, tra le aree sociali che hanno modi di comportarsi, di scegliere, di vivere totalmente diversi e incomprensibili. Da qui una frammentazione mostruosa, e la frammentazione è fonte di grande disagio sociale. La frantumazione dei legami e dei rapporti costituisce un elemento di enorme difficoltà per la vita di ciascuno di noi e da qui nasce il terzo elemento che questi cambiamenti provocano nella nostra vita quotidiana, ovvero l'incertezza che quanto più è percepita tanto meno è sopportata»(Olivetti Manoukian, Relazione conclusiva al Convegno 25 novembre 2013, Prospettive - associazione per la valorizzazione delle risorse umane, Trento). Pensiamo, ad esempio, al matrimonio oggi. In esso spesso le persone dimenticano che si tratta dell'inizio di una nuova vita e pensano di avere invece raggiunto un traguardo. Da quel momento esse trascurano la relazione personale e restano imbrigliate nelle certezze che l'istituzione formalmente assicura: diritti e doveri che vanno rispettati e la cui violazione comporta conseguenze di vario genere sul piano giudiziario. Quella certezza non c'è più, né può più esserci nel cambiamento; e la relazione interpersonale dei coniugi sfugge a loro stessi se non le viene prestata la dovuta attenzione, soprattutto se non si considera il matrimonio un punto di partenza: la trasformazione dei valori individuali e sociali aggravata dalla fatica del vivere quotidiano, comporta oggi il disfacimento della tradizionale istituzione e noi, chiamati ad occuparcene, non possiamo più limitarci a verificare quali norme legislative siano state violate rivendicando giurisdizionalmente la loro osservanza perché quella osservanza può non essere più attuale, e può accadere che gli interessi di tutti si siano nel frattempo modificati e trasformati. Da qui nasce la necessità di essere all'altezza, di comprendere il nodo della vicenda che viene sottoposta agli Avvocati e di aiutare le parti a dipanare, entrambe, quel nodo; da qui, ancora una volta, la comprensione è l'accompagnamento verso l'accordo. Pensiamo, in simile contesto, alla famiglia come complesso di relazioni che un tempo erano subordinate alla priorità dell'istituzione matrimoniale e che oggi invece si svolgono su un piano di priorità rispetto all'istituzione e, per di più, nel corso del cambiamento descritto. Oggi finalmente, dopo decine di anni di storia, le relazioni interpersonali vengono prese in considerazione come tali e, di conseguenza, dobbiamo collocarle nel mondo nuovo in cui si inseriscono; mondo - quindi - che bisogna conoscere e capire per non restare ancorati al passato. Gli psicologi dicono che la relazione di coppia si è sbilanciata sul versante affettivo a scapito di quello etico/normativo e di impegno nel patto matrimoniale; e anche i figli non sono più il frutto, come avveniva in passato, di un imperativo sociale che attribuisce alla famiglia il compito di perpetuare la specie e di fornire nuovi membri alla comunità attraverso la riproduzione e l'educazione; essi sono il frutto di un desiderio privato, del legame sentimentale affettivo di coppia. Oggi i figli si fanno perché lì si vuole e per questo assistiamo ad una drastica diminuzione delle nascite e, al tempo stesso, ad un sempre più frequente ricorso alle tecniche di riproduzione assistita, nonché ad una ricerca a volte quasi ossessiva di un figlio a tutti costi sostenuta dall'idea, sempre più diffusa, che esista il diritto ad avere un figlio; si è passati nell'arco di una trentina di anni da una situazione di soggezione al destino alla opposta situazione di sfida al destino. Il "nuovo", ma forse insufficiente, diritto di famiglia
La famiglia non ha più gerarchia né autorità. La stessa Cassazione (Cass. civ., 10 maggio 2005, n. 9801) afferma che è stato superato il modello di famiglia/istituzione con quello di famiglia/comunità i cui interessi non si pongono più su un piano sovraordinato, ma si identificano con quelli solidali dei suoi componenti. La famiglia è il luogo di incontro e di vita comune dei suoi membri tra i quali si stabiliscono relazioni di affetto e di solidarietà riferibili a ciascuno di essi. C'è stato quindi un processo di valorizzazione della sfera individuale; i singoli componenti ricevono riconoscimento e tutela come persone in base all'art. 2 Cost. che, nel riconoscere e garantire i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali in cui si svolge la sua personalità, delinea un sistema pluralistico ispirato al rispetto di tutte le aggregazioni sociali nelle quali la personalità di un individuo si esprime e si sviluppa. La famiglia, quindi, che all'origine era una struttura incentrata sull'autorità del pater familias (codice civile del 1942),poi si è incentrata sull'autorità dei genitori (riforma 1975), ora è strutturata come un nucleo affettivo con comunanza di interessi nell'ambito del rispetto dei diritti fondamentali dello Stato. Oggi addirittura ci si chiede come e quando sia possibile individuare l'esistenza della famiglia dato che vi sono nuovi modi di stare insieme, in base a come noi intendiamo la famiglia nel concreto delle nostre vite e non dell'astratta definizione istituzionale della stessa (ma il tema è davvero enorme e va oltre questo scritto). Guido Alpa, presidente CNF, nel febbraio 2014, aveva dichiarato che nel 1975 la nostra legge di riforma era all'avanguardia in tutta Europa mentre nel 2014 la nostra legislazione era di assoluta retroguardia (anche se in quel periodo qualcosa era cambiato nel ricondurre al principio di uguaglianza alcune discriminazioni ancora esistenti con riferimento ai figli, vedi la l. n. 219/2012). Da qui la poca fiducia nell'evoluzione legislativa (bloccata dai distruttivi conflitti politici) e la necessità del 'diritto vivente', vale a dire quel diritto prodotto dall'azione comune dei giudici e degli avvocati in una dimensione di apertura al futuro nelle cause da loro trattate. Non possiamo credere in una legislazione evolutiva, ma possiamo credere in un'opera evolutiva del 'diritto vivente'. Si tratta di un messaggio che, anche se non espressamente volto alla conciliazione dei conflitti, era pur sempre volto all'accoglienza del cambiamento (accoglienza impedita dalla lentezza del sistema legislativo ma possibile e auspicabile nell'azione giudiziaria); messaggio che ora, a maggior ragione, deve ritenersi un importante suggerimento nella negoziazione. Oggi la l. n. 76/2016 sulle Unioni civili ha cominciato a recepire parte del cambiamento ma, come la stessa legge dimostra, il conservatorismo culturale del legislatore unito ai citati conflitti politici, non è stato in grado di recepire il matrimonio nella sua trasformazione ma l'ha ancora una volta collocato su un piano privilegiato escludendolo per le coppie omosessuali e lasciandolo come piena garanzia per le coppie eterosessuali; matrimonio che, peraltro, era già stato depotenziato dalla l. n. 219/2012, intervenuta per la definitiva uguaglianza dei figli (certo, l'art. 29 Cost. colloca ancora il matrimonio su un piano di priorità ma il mondo sta andando altrove). Pensiamo, quindi, anche più specificamente alla separazione. Questa, ufficialmente, nasce da un disaccordo che si manifesta ad un certo punto della vicenda matrimoniale, sino a quel momento reputata 'normale' e che poi improvvisamente precipita. Ma, in realtà come ben sappiamo, le cose non sono andate così. Nella maggior parte dei casi, infatti, spesso ad insaputa degli stessi coniugi, la relazione affettiva e personale che si svolge nel matrimonio, viene via via disgregata per una serie di ragioni che quasi sempre sono occultate dalla vita che nel frattempo scorre ineludibile e faticosa, senza che a tale fatica venga dato peso; quella fatica causa disattenzione alla relazione che invece dovrebbe continuare ad essere importante come tutti gli altri interessi che riempiono quella fatica; ad esempio, il lavoro e i figli. Anche mantenere e curare una relazione è un impegno ma è ugualmente importante darvi attenzione. Proprio in quella fatica spesso si annidano contraddizioni esistenziali e culturali, e le vite di ognuno ad un certo punto cominciano a svolgersi percorrendo sentieri differenti. Spesso i coniugi non se ne accorgono. A volte invece, se ne accorgono ma soprassiedono dall'affrontare il problema perché considerano il matrimonio un'idea superiore a cui attenersi (quello che ormai si potrebbe chiamare stereotipo), a volte mantengono la propria posizione dicendo che lo fanno per i figli senza sapere che spesso lo fanno per sé e per le loro idee stereotipate sul matrimonio, per paure e complessi, per calcolo, per qualsiasi ragione, ma per sé: mentre i figli, che non stanno affatto bene nel matrimonio finito e nella convivenza coatta dei genitori, preferiscono questi ultimi separati con un rapporto amichevole tra tutti. Raramente i coniugi affrontano il problema nella sua dinamica esistenziale e, ad un certo punto, lo devono affrontare nella sua dinamica istituzionale: quando uno dei due rompe lo schema. Ebbene, la lite che caratterizza la separazione, una volta che viene portata nel processo, impedisce la reale comprensione dell'accaduto e il processo comprime quell'accaduto nei confini della prova che, come sappiamo, non è rappresentativa della verità. Verità che deve essere, però, alla base della composizione del conflitto affinché tale composizione svolga il ruolo costruttivo che le è proprio. Verità, quindi, che oggi anche la negoziazione ci permette di affrontare. Conclusioni
La classe forense deve prepararsi adeguatamente al cambiamento epocale in cui si inserisce il proprio lavoro che, tra l'altro, con riferimento alla famiglia, si avvicina ormai alla specializzazione: i temi non sono solo delicati ma il loro inquadramento giuridico impone una sempre più specifica conoscenza che male si addice al costume di ritenersi capaci, salvo poi, quando non si conosce appieno la normativa, opporre una barriera di rigidità per paura di sbagliare. Questa rigidità costituisce una difesa poco produttiva per quella creatività che richiede il diritto vivente. Molti professionisti si avvicinano alla separazione credendo che sia un tema facile perché si tratta di vicende di vita conosciute da tutti. Soprattutto perché anche gli avvocati hanno vite personali, oltre che professionali. Ma, nel migliore dei casi, si conosce se stessi e non anche i propri clienti, le loro personalità e le loro dinamiche relazionali: ci si comporta come se si trattasse della propria vita familiare e non di quella altrui. A volte si valutano i comportamenti dei clienti come accadimenti che riguardano noi, senza prestare attenzione al fatto che non siamo noi ma che sono loro. Noi e loro, vale a dire la diversità. Diversità è un concetto profondo a cui non siamo abituati ma il mondo, ora, ci stimola a considerarlo per cambiare la nostra cultura. L'avvocatura è un servizio sociale e lo deve fare. Sembra che si tratti di banalità ma per assumere la difesa, qualsiasi essa sia, occorre essere terzi: 'terzietà', non come quella del giudice che deve essere terzo rispetto al processo, che significa non identificarsi con il cliente e non proiettare su di lui una serie di questioni che riguardano l'avvocato che lo difende. Ebbene, tornando all'inizio, occorre prepararsi; ognuno con i propri strumenti, e gli organismi preposti alla formazione con i loro. Non deve essere persa la nostra funzione né il nostro connotato di difensori (che ci fa comprendere molto e ci arricchisce sul piano tecnico); anzi, proprio perché difensori occorre sapere che il terreno su cui ci si muove è mobile e quella mobilità deve cominciare a far parte della nostra cultura: Sigmund Bauman parlava di 'società liquida' e, forse anche con riferimento agli avvocati, aveva ragione. |