Funzione prescrittiva della CTU minorile e libera scelta del trattamento psicoterapico
29 Novembre 2016
CTU minorile e funzione prescrittiva
Negli scorsi decenni la CTU aveva una funzione meramente valutativa, quale “fotografia” di una teorica idoneità genitoriale. Il passaggio dalla funzione valutativa ad una funzione "trasformativa" della CTU è stato man mano propugnato dall'intera letteratura, prevedendo uno spazio di “restituzione” ai genitori della valutazione clinica, quale premessa per la successiva apertura di spazi psicoterapici che si fondassero anche sui dati clinici raccolti in sede peritale. La prescrizione psicoterapica, espressa dal CTU in sede valutativa, rappresentava quindi uno dei raccordi fondamentali tra la fase peritale e quella seguente alla stessa, in una logica di aiuto alle persone e di possibile superamento del disagio, attraverso percorsi psicoterapici indicati in termini di massima dal CTU e liberamente scelti e realizzati dalle persone. Invece nei casi più gravi, spesso connotati da soggetti con Disturbi di Personalità (ovviamente poco o nulla consapevoli della propria disfunzionalità), poteva accadere che l'indicazione alla psicoterapia rientrasse nell'ambito di un monitoraggio del caso, espresso dal giudice – anche su indicazione del CTU – attraverso un mandato di vigilanza affidato al Servizio Sociale, o un diretto affidamento del minore al Comune. Nei casi più difficili, infatti, la responsabilità genitoriale del soggetto maggiormente problematico poteva essere limitata a causa della “inconsapevolezza di malattia” dello stesso, introducendo pertanto specifiche esigenze di limitazione del suo contatto con la prole, per ridurre i danni dallo stesso derivanti. Ciò evidenzia il costante paradosso dell'intervento in questo settore, per il quale i soggetti meno problematici non necessitano delle spesso complesse procedure che si attivano, mentre quelli più “malati” calamitano risorse e iniziative, ma nello stesso tempo possono mettere in crisi quanto si sta realizzando, impiegando le regole del sistema per porre lo stesso in contraddizione e quindi vanificare quanto si sta cercando di fare, proprio a causa della loro non consapevolezza di malattia. Tali situazioni fanno emergere l'intrinseca “debolezza” dello strumento peritale dal punto di vista clinico - normativo e sono talvolta affrontate dal sistema giudiziario minorile attraverso la adozione, nei procedimenti di volontaria giurisdizione propri delle Sezioni Famiglia, delle logiche proprie del Tribunale per i Minorenni, in modo da rafforzare la indicazione peritale con provvedimenti di carattere “autoritario”. La CTU minorile, infatti, non dispone della struttura della perizia penale di imputabilità (certezza diagnostica, nesso causale e infermità dalla quale desumere la pericolosità sociale e quindi una misura di sicurezza terapeutica), mentre deve esprimersi in senso maggiormente descrittivo – funzionale, in contesti fortemente conflittuali nei quali il CTU, operando comunque con le risorse (anche economiche) rese disponibili dalle parti, riceve la quasi impossibile funzione di cercare di superare sedimi generazionali, se non stati relazionali strutturalmente patologici, per il ripristino della serena bigenitorialità della prole, in contesti spesso del tutto “disperanti”. Inoltre i dati psicologici sono spesso interpretabili in modo relativamente differenziato, e dalle valutazioni della CTU derivano anche conseguenze di carattere economico ed esistenziale (come la attribuzione della casa familiare al collocatario), che possono introdurre ancor maggiori motivi di contestazione di un giudizio non condiviso. Non si deve infine dimenticare come, oggi, gran parte delle CTU interessino relazioni di carattere “perverso”, nelle quali vi è una feroce conflittualità ma, nello stesso tempo, una sostanziale collusione tra i partner, per la quale la proposta di cambiamento viene vissuta da entrambi come un mutamento della omeostasi malata del contesto, da svalutare in modo anche imprevedibile. Di fronte alla non consapevolezza di problematicità, e quindi alla potenziale dannosità per la prole, di un genitore o di entrambi, al CTU ed al giudice non resta pertanto altra via se non quella di una prescrizione di carattere potenzialmente autoritario, nella quale, esattamente come avviene al Tribunale per i Minorenni, si “avverte” il genitore del fatto che sarà sottoposto a monitoraggio e che, se non adempirà alle prescrizioni (nel caso compresa quella psicoterapica), potrà vedere limitati la sua responsabilità genitoriale ed il suo rapporto con la prole. Basandosi su dati clinici potenzialmente “deboli” dal punto di vista della certezza diagnostica, ed in un contesto fortemente conflittuale, tali prescrizioni devono infatti essere espresse in modo ancor più cogente. Ciò ha aperto altre storture, legate alla sostanziale assimilazione della logica peritale a quella del Tribunale per i Minorenni e del Servizio Sociale, con la fattuale assimilazione del genitore – parte processuale (con i diritti connessi a tale duplice ruolo) ad un utente, di cui di fatto si finisce per giudicare la “collaboratività”. Paradossalmente, così, la riaffermazione dei diritti espressa dalla “CTU trasformativa” ha portato, in nome del monitoraggio latamente “terapeutico” previsto dalla stessa, a spazi di “controllo” e di compressione dei diritti, sicuramente criticabili, ed è su questo profilo che è intervenuta la sentenza citata. Tipologia ed efficacia delle prescrizioni psicoterapiche in CTU
La sterminata letteratura in tema di psicoterapia evidenzia, in estrema sintesi, come questo trattamento risponda ad indicazioni e metodologie estremamente differenziate, le quali necessitano di una specifica personalizzazione rispetto al paziente ed alle sue caratteristiche, tanto da rendere inutile, se non controproducente, un sostegno non specificamente strutturato, che non parta da una intesa empatica tra terapeuta e paziente e che non sia compreso e condiviso in ogni sua fase da entrambi. Il primo ed essenziale requisito della psicoterapia, inoltre, si identifica nella disponibilità della persona a mettersi in discussione, ammettendo, in sé e nelle proprie relazioni, un grado di disagio e di disfunzionalità tale da motivare una regolare frequenza alle sedute, l'onere di rivedere aspetti dolorosi ed un impegno al cambiamento, peraltro supportato da costi non trascurabili. In assenza di tale disponibilità, interiore e profonda, la prescrizione psicoterapica diviene priva di senso. A ciò si deve aggiungere il fatto che, comunque, dal punto di vista tecnico non ha alcun senso indicare ad un genitore, ed ancor meno prescrivere in modo cogente, una psicoterapia, in assenza di una stringente definizione di diagnosi e contesto della stessa, invece abitualmente assente, per i motivi citati, nelle CTU minorili. Inoltre i dati di evidenza relativi all'esito migliorativo dovuto a trattamento psicoterapico sono scarsamente risolutivi, e comunque non brillanti, in presenza di strutturati Disturbi di Personalità, nei quali è pressoché nulla la consapevolezza di disagio, ed in particolare nei Disturbi afferenti al Cluster II del DSM – V (Narcisista, Istrionico, Borderline, Antisociale), in cui ricadono buona parte dei soggetti connotati da maggiore ed insanabile conflittualità genitoriale. É altresì vero che in sede di CTU, trattandosi appunto di perizia e non di consultazione privata, non vi è una libera disponibilità della persona ad ammettere le proprie vulnerabilità, indispensabile al clinico per identificare l'esigenza di psicoterapia e la metodica più opportuna, mentre, al contrario, il contesto è finalizzato all'ottenimento di un risultato, non è vincolato da segreto ed i colloqui sono effettuati alla presenza dei CTP, del tutto al di fuori del setting proprio dei colloqui preliminari all'avvio di una psicoterapia. Ciò altera gli stessi dati fondanti di una prescrizione mirata, quindi è concretamente impossibile indicare, in sede di CTU ed in base ai dati disponibili, quale possa essere il metodo psicoterapico più opportuno per quella persona, dando una indicazione specifica nell'ambito delle differenziate metodologie sussistenti, proprio perché non vi sono stati colloqui liberi ed approfonditi, dai quali il clinico possa trarre le indicazioni idonee circa la metodologia di lavoro che più si adegui ai bisogni del caso (peraltro ricordiamo che, il periziando non è un paziente, ma appartiene ad una categoria di diritti e di relazioni completamente differente, pur rivestendo nella “CTU trasformativa” alcune caratteristiche vicine, ma non sovrapponibili, a quelle proprie di chi viva un rapporto terapeutico). A ciò si devono aggiungere i fattori logistici, per i quali, ad esempio, le risorse pubbliche sono assai limitatamente in grado di offrire un sostegno psicoterapico stabile, mentre spesso i genitori non dispongono di risorse economiche sufficienti per un trattamento privato, o non vi sono professionisti qualificati e disponibili nella loro area. Non si può inoltre tacere come, non raramente, oggi il possibile campo psicoterapico, se non la stessa valutazione peritale, siano inquinati da precedenti interventi di professionisti non qualificati, intervenuti su casi esplosivi in modo inadeguato se non collusivo, rendendo così ancora più difficile ogni progettazione in tal senso. Tutto questo rende estremamente dubbia, per non dire aleatoria se non controproducente, la prescrizione psicoterapica espressa in conclusione di CTU, in un contesto nel quale una indicazione coattiva non ha senso, mentre, se la persona è disponibile, non vi è motivo di impartire una prescrizione, essendo appunto sufficiente la motivazione personale, nel caso supportata dalla scelta di un terapeuta in accordo con il proprio CTP. É quindi lecito chiedersi perché mai, prima della sentenza citata, si indicasse spesso, in CTU, la necessità di un generico sostegno psicoterapico, ed anzi talvolta si subordinasse allo stesso, ed al suo puntuale adempimento, imposto dal giudice, perfino la prosecuzione della piena funzione genitoriale della persona. La risposta è molto semplice ed ancora attuale, anche se ora, dopo la sentenza citata, nelle conclusioni peritali si parla di indicazione, di auspicabile opportunità e di suggerimento, e non più di prescrizione in quanto tale. Semplicemente i CTU ed i giudici si rendono conto di come, di fronte all'insanabile conflittualità genitoriale, comunque legata a problemi psicologici se non a veri Disturbi di Personalità, vi sia un enorme danno esistenziale e psicologico per i minori, tale da ripercuotersi nella loro vita futura e quindi su quella dei loro figli e nipoti (così come spesso i genitori sono stati a loro volta vittime di dinamiche nate nelle generazioni precedenti). Giustamente oggi si valorizza la responsabilità genitoriale condivisa ed è tramontata l'epoca della “onnipotenza socio - assistenziale” per cui si pensava di risolvere i casi unendo prescrizione e monitoraggio, ma nello stesso tempo ci si rende conto di come il procedimento giudiziario nel diritto di famiglia, e la CTU che di esso talvolta rappresenta lo strumento operativo, non dispongano di un “fattore di impatto” sufficiente per modificare assetti problematici strutturati, ed anzi siano essi stessi potenziali fattori di ulteriore difficoltà.Se, quindi, la prescrizione terapeutica ha forti limiti intrinseci, e certamente non ha senso proporre la stessa in termini coattivi, e men che meno collegando una sanzione alla sua mancata attuazione, resta aperto il problema del “che fare”, in un contesto in cui la sofferenza dei minori, ed in fondo quella degli stessi genitori, richiedono comunque una risposta, auspicabilmente dotata di una qualche possibilità di essere concretizzata in senso costruttivo. La sentenza si origina nel procedimento centrato su “Affidamento condiviso del figlio minore – Diritto di visita”, in cui L.M., padre, e G.B., madre, avevano entrambi avanzato ricorso avverso ad un provvedimento della Corte di appello di Firenze, a sua volta basato sul procedimento attivato innanzi al Tribunale per i Minorenni per l'affidamento del figlio minorenne F., nato nel 2006 e già dal 2007 interessato da contrasti genitoriali. Nel 2008 i genitori avevano sottoscritto un accordo per l'affidamento condiviso del minore e la sua collocazione presso la madre, in una casa di proprietà del padre, con impegno a seguire un percorso di mediazione familiare. Tale accordo non si era concretizzato e, a seguito di ricorso, era stata effettuata una CTU, che aveva indicato l'affidamento condiviso con collocazione paterna del minore ed impartito una serie di prescrizioni relative alla presa in carico dello stesso, alla mediazione familiare ed al monitoraggio del caso da parte delle strutture pubbliche. A seguito del ricorso in appello di entrambi, in una nuova CTU era stato recepito un nuovo accordo, basato su affidamento condiviso, collocazione paterna, mediazione familiare e monitoraggio del caso, esperito dallo stesso CTU, il quale avrebbe poi depositato una relazione integrativa attestando il fallimento del percorso, per il permanere di conflitti legati alla immaturità dei partner, peraltro in un contesto di assenza di grave disagio del minore, collocato presso il padre. Il CTU indicava quindi la necessità di «…un percorso di sostegno e cura per entrambi, al fine di giungere ad un reciproco rispetto dei ruoli, essenziale per garantire la loro collaborazione necessaria per la cura e la educazione del figlio». Il padre ricorreva alla Suprema Corte, per diverse motivazioni, ivi compresa la contestazione della «…legittimità della statuizione che obbliga i genitori a sottoporsi ad un percorso psicoterapico individuale…». Circa questo punto, la sentenza afferma: «Il secondo motivo del ricorso principale è invece fondato in quanto la prescrizione ai genitori di sottoporsi ad un percorso psicoterapico individuale e a un percorso di sostegno alla genitorialità da seguire insieme è lesiva del diritto alla libertà personale costituzionalmente garantito e alla disposizione che vieta l'imposizione, se non nei casi previsti dalla legge, di trattamenti sanitari. Tale prescrizione, pur volendo ritenere che non imponga un vero e proprio obbligo a carico delle parti, comunque le condiziona ad effettuare un percorso psicoterapeutico individuale e di coppia confliggendo così con l'art. 32 Cost.…la prescrizione di un percorso terapeutico ai genitori è connotata da una finalità estranea al giudizio quale quella di realizzare una maturazione dei genitori, che non può che rimanere affidata al loro diritto di auto – determinazione». La sentenza conclude quindi: «Va pertanto…accolto il secondo motivo dello stesso ricorso con conseguente cassazione del decreto impugnato e decisione nel merito di revoca della prescrizione ai genitori di sottoporsi ad un percorso psicoterapeutico individuale oltre a un percorso di sostegno alla genitorialità da seguire insieme». Ciò suggerisce alcune riflessioni. Innanzitutto la sentenza riafferma il principio stabilito dall'art. 32 Cost., in punto libertà di scelta della terapia, precisando come, pur non costituendo un obbligo esplicito, l'indicazione del CTU, fatta propria dal giudice, rappresentasse comunque un condizionamento rispetto alla libera scelta di cura della persona. In effetti, nei termini espressi dalla sentenza si palesa come la prescrizione in esame si costituisse come una sorta di Trattamento Sanitario Obbligatorio “strisciante” e svincolato da norme, proprio perché, non essendo definito sul piano giuridico, non contemplava nessuno dei molti vincoli previsti sia per il TSO, sia per i casi in cui la scelta terapeutica possa essere attuata contro il desiderio della persona incapace, qualora, ad esempio, vi sia stata la nomina di un Amministratore di Sostegno, curatore o tutore. La valutazione resa dalla Suprema Corte rappresenta pertanto una sorta di “atto dovuto”, a fronte di diritti personali inalienabili, che non possono essere né negati, né limitati. Tra questi diritti rientra quello, in buona sostanza, di essere come si è, per il quale, come afferma la sentenza, il fatto che una persona sia “immatura” non rientra nell'oggetto del giudizio (ricordando comunque come, nel caso concreto, in ultimo non fosse evidente una situazione di gravissimo disagio per il minore, quindi l'obiettivo del CTU fosse più quello di “curare la immaturità” dei genitori che di sanare situazioni di dimostrato danno per la prole). In termini più generali, si pone il quesito sul possibile contrasto, introdotto dalla sentenza, tra la sempre più confusa nozione di “prioritario interesse del minore” e quella di “responsabilità genitoriale”, nel momento in cui una inadeguatezza nella gestione della seconda, tale da pregiudicare in qualche misura la prima, viene rimandata al soggetto che della stessa è autore, poiché la previsione dell'affidamento condiviso esclude una sanzione specifica di immaturità e conflittualità, ed altrettanto è stato sancito per il rifiuto della psicoterapia. Ciò, come prima accennato, esprime il tramonto del modello dell'intervento pubblico nel disagio familiare, riportando a quella nozione della famiglia “lambita dal diritto” che era stata negli scorsi decenni ampiamente superata, a favore, appunto, della tutela pubblica del “prioritario interesse del minore”, espressa anche attraverso l'intervento, anche prescrittivo, sui genitori. Una seconda osservazione viene evocata dai casi in cui i genitori si contrappongono fino ai massimi gradi di giudizio, con minori interessati dal contrasto già dalla più tenera età e la attuazione di più CTU, in situazioni per le quali, infine, si decide che, in assenza di un certo disagio per la prole, una conflittualità decennale non costituisca comunque un malum per se. Certamente si tratta di un principio realistico ma è lecito chiedersi se, pur senza cadere negli eccessi e nelle storture degli scorsi anni, sia oggi condivisibile una nozione liberistica di responsabilità genitoriale, per la quale il coinvolgere un minore in CTU seriate ed in più gradi di giudizio, con i costi e lo stress da ciò derivanti, rappresenti un modo condivisibile, o quantomeno non sanzionabile, di esercizio di quella genitorialità che, in base alla stessa “responsabilità”, dovrebbe invece vedere il genitore chiamato a rispondere delle proprie scelte attinenti alla prole e, in fondo, a se stesso, nei profili in cui il suo comportamento possa sottrarre risorse e qualità della vita ai figli. Infatti l'intera letteratura in materia attesta il danno derivante alla prole dalla esposizione ad una protratta conflittualità genitoriale, quindi, dinanzi a genitori immaturi e conflittuali, ci si potrebbe chiedere quale sia, a questo punto, l'utilità di un giudizio che non si faccia carico dei fattori causali del disagio e non preveda un intervento sui soggetti responsabili dello stesso, ma assuma una sostanziale, se non passiva, funzione di omologa di ciò che non integri un esplicito maltrattamento. Conclusioni
L'analisi condotta ha consentito di evidenziare come, ancora una volta, i rimedi giudiziari e peritali alla conflittualità genitoriale, e ai danni da essa potenzialmente derivanti alla prole, possano essere generici, contraddittori o scarsamente efficaci, se non anche contrari ai diritti fondamentali delle persone. La prescrizione psicoterapica in sede di CTU, come indicato dalla sentenza in esame, rappresenta una violazione dei diritti costituzionali della persona, ma nello stesso tempo, dal punto di vista clinico, ha uno scarso valore intrinseco, a fronte della genericità dell'indicazione che può essere posta in sede peritale e della assenza di certi esiti positivi per un percorso di questo tipo, comunque inattuabile in assenza di una reale e profonda motivazione della persona, certamente non vicariabile attraverso imposizioni di sorta. Ciò ripropone ancora una volta il fondamentale quesito sul senso concreto delle indagini di CTU. Se infatti la perizia, giustamente “trasformativa”, trova ascolto nei genitori ed effettivamente induce una trasformazione nella situazione in esame, forse lo stesso risultato si sarebbe potuto ottenere con il meno oneroso e formale intervento di un professionista di comune fiducia delle parti, le cui prescrizioni avrebbero tra l'altro fruito del diretto valore di indicazioni terapeutiche, rese forti dalla fiducia dei pazienti – committenti e dal migliore approfondimento che sarebbe potuto venire dalla libera adesione delle persone all'indagine. Nei casi di cronica e grave conflittualità, invece, la sempre più debole posizione scientifica e giuridica della CTU, compressa tra diritti delle parti, limiti di indagine ed enormità dei problemi da risolvere, rende spesso questo tipo di intervento scarsamente utile, se non esso stesso causa di nuove contestazioni. Forse è giunta l'ora di ammettere come la previsione di rimedi clinico – giudiziari alla conflittualità genitoriale, e ai danni da essa derivanti alla prole, abbia mostrato il proprio fallimento negli anni dell'intervento pubblico sulla famiglia, connotati da storture ed esagerazioni, e come in oggi si stia affermando un modello liberista di approccio alla crisi familiare, con il ribaltamento sui genitori della loro responsabilità condivisa, comunque sanzionabile solamente a fronte di comportamenti assolutamente estremi, e quindi di fatto scarsamente suscettibile di una reale “chiamata a rispondere” del soggetto interessato. Tuttavia, chiunque abbia esaminato professionalmente minori provati da anni di conflittualità non può accettare la nozione della “normalità del litigare”, considerando il disagio del minore come una sorta di “danno collaterale” della libertà del genitore, mentre deve riaffermare la necessità che, a fronte delle carenze e storture citate, si identifichino nuove tipologie di accertamento peritale, garantistiche verso i diritti delle persone, ma nello stesso tempo dotate di un coefficiente di stimolo che sia efficace anche verso i soggetti più conflittuali e, soprattutto, non accetti la nozione per la quale, rotolando come una palla di neve, il disagio psicologico di una generazione si accumuli sulla successiva. Il problema del “che fare”, quindi, resta del tutto aperto. |