EmbrioneFonte: L. 19 febbraio 2004 n. 40
07 Marzo 2017
Inquadramento
La legislazione italiana, a differenza di altri ordinamenti, non contiene alcuna definizione di embrione, nonostante la legge sulla procreazione medicalmente assistita (l. 19 febbraio 2004, n. 40) detti una specifica disciplina a tutela dell'embrione stesso. In campo scientifico, non vi è alcun dubbio che per embrione si intenda il primo stadio di sviluppo di un organismo frutto della unione tra gameti maschili e femminili: esso è, dunque, il risultato del concepimento. Trattandosi, peraltro, di organismo che si evolve attraverso successive differenziazioni, ci si domanda se l'inizio della vita umana coincida con la fecondazione dell'ovocita, ovvero se sia necessario distinguere tra pre-embrioni ed embrioni propriamente detti, che si avrebbero solo con la cessazione della totipotenzialità, quando, con il raggiungimento di un certo grado di sviluppo, ha inizio la formazione del sistema nervoso. La risposta a tale interrogativo non può che incidere in modo penetrante sull'applicazione della legge: se si negasse, infatti, l'inizio della vita umana al semplice prodotto del concepimento, le norme sulla tutela dell'embrione risulterebbero inapplicabili. A ben diversa soluzione sembra giungere la l. n.40/2004 che, all'art. 1, riconosce la soggettività giuridica del concepito ma, nel contempo, non utilizza più tale termine, riferendosi sempre all'embrione: la piena coincidenza tra concepito ed embrione comporta che la “persona” si formi nel momento stesso del concepimento e che tutte le misure dettate a tutela dell'embrione trovino applicazione anche nei confronti del concepito. L'art. 1 l. n. 40/2004, sancendo che la legge «assicura i diritti di tutti i soggetti coinvolti, compreso il concepito», qualifica il concepito stesso quale soggetto titolare di diritti ed amplia l'ambito di applicazione delle misure dettate a tutela dell'embrione. Se ne trova diretta conferma in quanto disposto all'art. 6, a termini del quale il consenso alla tecnica riproduttiva può essere revocato solo fino a quando non sia avvenuta la fecondazione: il concepimento, dunque, avviene nel momento di incontro dei gameti in provetta e l'embrione così creato è oggetto di specifica tutela. Si prevedono, infatti, numerosi ed espressi divieti, quali la «produzione di embrioni umani a fini di ricerca»; la sperimentazione sugli stessi; la clonazione; «la fecondazione di un gamete umano con un gamete di specie diversa e la produzione di ibridi o di chimere» (art. 13). A ciò si aggiunga il divieto di ogni forma di selezione a scopo eugenetico e di intervento diretto ad «alterare il patrimonio genetico dell'embrione o del gamete ovvero a predeterminarne le caratteristiche genetiche», fatta espressa eccezione «degli interventi aventi finalità diagnostiche e terapeutiche, di cui al comma 2» della medesima norma (art. 13, comma 3, lett. b). Tale secondo comma, infatti, prevede che la ricerca clinica e sperimentale sia consentita nei soli limiti in cui persegua «finalità esclusivamente terapeutiche e diagnostiche…volte alla tutela della salute e allo sviluppo dell'embrione». Bisogna, infine, ricordare come, l'art. 14, comma 1, l. n. 40/2004 vieti la crioconservazione e la soppressione degli embrioni, salvo poi, al comma 3, prevedere la possibilità di crioconservazione quando questa sia resa necessaria per grave e documentata causa di forza maggiore relativa allo stato di salute della donna. Da ultimo, viene vietata la riduzione embrionaria di gravidanze plurime, fatti salvi i casi previsti dalla l. 22 maggio 1978, n. 194. Si tratta certamente di misure fortemente restrittive, dettate dal principio della considerazione dell'embrione quale “persona”, anche se si deve tener conto che sono state oggetto di modifica da parte della Corte costituzionale (Corte cost., 1 aprile 2009, n. 151) che ha modificato la formulazione iniziale dell'art. 14, pronunciando l'illegittimità del comma 2, nel punto in cui prevedeva che ci sia «unico e contemporaneo impianto, comunque non superiore a tre» di embrioni. Si è ritenuto, infatti, che l'obbligo di creare un numero predeterminato di embrioni e, nel contempo, di procedere al loro contemporaneo impianto limitasse in modo ingiustificato la discrezionalità del medico e non disponesse un'adeguata tutela della salute della donna. A fondamento della decisione si pone la necessità di un corretto bilanciamento tra la tutela dell'embrione e quello della salute della donna e si rimette alla valutazione del medico la decisione sulla necessità d'impianto immediato, nonché il numero di embrioni che possono essere formati: ne discende il sorgere di una deroga al generale divieto di crioconservazione, peraltro non toccato dalla sentenza, considerato che, accanto all'ipotesi eccezionale di forza maggiore (art. 14, comma 3), si profila la possibilità che il medico scelga in modo discrezionale di non procedere all'impianto di tutti gli embrioni formati, considerato che ciò, a suo giudizio, costituirebbe pregiudizio per la salute della donna. La diagnosi pre-impianto
Per diagnosi pre-impianto si intende quella procedura che permette di identificare la presenza di malattie genetiche o di alterazioni cromosomiche in embrioni in fasi molto precoci di sviluppo, risultando, dunque, essere l'unica in grado di valutare, prima dell'inizio della gravidanza, la presenza di anomalie negli embrioni. La sua ammissibilità è stata oggetto di un annoso dibattito che trova le proprie origini nelle prime Linee guida del 2004, nelle quali si precludeva ogni diagnosi a finalità eugenetica, precisandosi anche che le indagini relative allo stato di salute dell'embrione, ai sensi dell'art. 14, comma 5, dovevano essere esclusivamente di tipo "osservazionale", non, quindi, dirette a fornire una risposta in merito alla sussistenza o meno di gravi patologie familiari a carico dell'embrione da impiantare. Sollevata questione di legittimità costituzionale (Trib. Cagliari,16 luglio 2005), la Corte costituzionale, chiamata a pronunciarsi sulla legittimità dell'art. 13 l. n. 40/2004 nella parte in cui non consentiva la verifica della sussistenza di patologie genetiche negli embrioni mediante diagnosi, ha giudicato la questione inammissibile, in quanto il divieto stesso non discendeva dal solo art. 13 l. n. 40/2004, ma poteva essere desunto dai principi ispiratori della legge e «dalla disciplina complessiva della procedura di procreazione medicalmente assistita» (Corte cost., 24 ottobre 2006, n. 369). A seguito di una pronuncia della giustizia amministrativa (TAR Lazio, 21 gennaio 2008, n. 398) che ha disposto l'annullamento delle Linee guida del 2004, nella parte riguardante le misure a tutela dell'embrione, sono state emanate nuove Linee guida (2008), con le quali si è disposto che il divieto di diagnosi pre-impianto concerne il solo caso di finalità eugenetica, eliminando così ogni ulteriore specificazione relativa alle indagini di tipo osservazionale. Nonostante tale precisazione, peraltro, si continuava a ritenere che, in forza delle disposizioni contenute negli artt. 13 e 14 l. n. 40/2004 - là dove si collegava la ricerca clinica alle finalità diagnostiche e terapeutiche volte alla tutela della salute del solo embrione - la diagnosi pre-impianto non trovasse ancora spazio nel nostro ordinamento. Numerose le critiche a tale orientamento considerato che in tal modo non solo veniva trascurato ogni bilanciamento con altri valori costituzionali, quali la salute della donna, ma si contraddiceva anche la disposizione che sancisce espressamente il diritto dei genitori di essere informati sulla salute degli embrioni prima dell'impianto: era chiaro, dunque, che doveva ritenersi lecita un'indagine che consentisse di fornire tali risposte. A ciò si aggiunga che, non ammettendo la diagnosi sugli embrioni, si sarebbe costretta la donna ad interrompere la gravidanza una volta che avesse scoperto la patologia di cui fossero eventualmente affetti. Il mutamento di indirizzo si è avuto proprio sulla base di queste motivazioni, fatte proprie dalla succitata pronuncia della Corte costituzionale (Corte cost.,1 aprile 2009, n. 151): dichiarata l'illegittimità dell'art. 14, comma 2, l. n. 40/2004 nel punto in cui prevede che ci sia «unico e contemporaneo impianto, comunque non superiore a tre» di embrioni, e stabilito che è rimessa al medico la decisione di quanti embrioni creare e di quanti degli embrioni debbano essere impiantati, viene meno la preesistente connessione tra obbligo di impianto contemporaneo e liceità della diagnosi pre-impianto; se ne deduce che, venuto meno il primo obbligo, non potrebbe che discenderne la liceità di una diagnosi genetica che permetta di conoscere lo stato di salute degli embrioni, al fine di poter valutare se procederne o meno all'impianto. In altri termini, stabilito che la decisione sull'impianto deve essere effettuata dal medico tenendo conto della salute psico-fisica della donna, si ammette che venga effettuata ogni indagine sugli embrioni, al fine di valutare l'opportunità del loro impianto. A questo principio si ispirano le successive pronunce: la diagnosi genetica sull'embrione deve considerarsi lecita alla luce di un'interpretazione costituzionalmente orientata, visto che il suo divieto sarebbe “irragionevole ed incongruente” rispetto alla liceità della diagnosi prenatale, altrettanto rischiosa ma «perfettamente legittima in quanto avente la funzione di tutelare la maternità e la salute del feto», consentendo anche di fornire ai futuri genitori le informazioni necessarie per esprimere il consenso all'impianto, che potrà poi avere luogo con riferimento ai soli embrioni accertati come sani o comunque portatori sani di patologie genetiche. Sulla liceità della diagnosi pre-impianto si è pronunciata anche la Corte europea dei Diritti dell'Uomo (28 agosto 2012, n. 5427) che, ricondotta la scelta di accedere alle tecniche di riproduzione e di sottoporre l'embrione alla diagnosi genetica nell'alveo del «rispetto della vita privata e familiare», ha applicato l'art. 8 CEDU, affermando che l'ingerenza dello Stato italiano è sproporzionata in relazione al rispetto alla vita privata: la l. n. 40/2004 appare incongruente in quanto vieta la diagnosi pre-impianto, ammettendo però l'interruzione della gravidanza in seguito a diagnosi prenatale. Le Linee guida 2015 (d.m. 1 luglio 2015; si veda Pubblicate in Gazzetta Ufficiale le nuove Linee guida del Ministero della Salute in materia di procreazione medicalmente assistita, in IlFamiliarista.it) confermano la posizione italiana: è proibita ogni diagnosi pre-impianto a finalità eugenetica. Le indagini relative allo stato di salute degli embrioni creati in vitro dovranno sempre essere volte alla tutela della salute e dello sviluppo di ciascun embrione. Gli embrioni residui
La legge sulla procreazione assistita risulta carente anche nei confronti di un altro tema fortemente dibattuto: manca ogni disciplina sulla sorte dei cosiddetti embrioni residui o soprannumerari, ossia quegli embrioni per i quali non è stato possibile l'impianto. Gli unici riferimenti normativi, infatti, sono contenuti nelle disposizioni transitorie (art. 17 l. n. 40/2004), là dove è previsto che i centri autorizzati debbano trasmettere al Ministero della salute il numero degli embrioni prodotti prima dell'entrata in vigore della legge, e nelle Linee guida, nelle quali vengono fissate le modalità di conservazione. Il problema della loro sorte era, dunque, ben presente sin dal momento della emanazione della l. n. 40/2004, ma si deve tener conto che il vuoto normativo ha assunto attualmente proporzioni ancora maggiori: se, infatti, era tendenzialmente possibile ritenere che si trattasse di decidere della sorte dei soli embrioni creati prima della legge stessa – la primitiva formulazione dell'art. 14 l. n. 40/2004, infatti, prevedeva la possibilità di creare solo tre embrioni e di destinarli tutti ad un unico e contemporaneo impianto – attualmente l'abrogazione di questa parte della norma, ad opera della Corte costituzionale, lascia ogni decisione al medico, che provvederà a seconda della condizione della donna stessa. Le Linee guida 2015 dispongono che in cartella clinica andranno riportate le motivazioni in base alle quali è stato determinato il numero di embrioni strettamente necessario a generare ed, eventualmente, quelle in base alle quali si è stabilito quali e quanti embrioni non trasferiti siano temporaneamente da crioconservare. É dunque possibile che il numero degli embrioni non impiantati aumenti: vuoi perché destinati ad un impianto successivo, vuoi perché il medico reputa che vi siano impedimenti all'impianto immediato, vuoi perché la donna ne rifiuta l'impianto, ad esempio per la presenza di malformazioni o malattie genetiche negli embrioni stessi. Qualunque sia la ragione, ogni soluzione sulla sorte di tali embrioni soprannumerari non può che tener conto del valore di “persona” riconosciuta agli embrioni stessi, come, d'altra parte, è ampiamente dimostrato dal chiaro divieto di soppressione. Non si può, peraltro, dimenticare che l'alternativa non può che essere la crioconservazione, già prevista in ipotesi di forza maggiore ed oggi ampliata dalla possibilità che vengano creati più embrioni di quanti destinati ad un immediato impianto. A ciò si aggiunga che le conoscenze scientifiche attuali ancora non consentono di determinare con sicurezza per quanto tempo l'embrione crioconservato possa mantenere inalterate le sue proprietà senza deteriorarsi quanto meno a fini riproduttivi: si è pertanto ritenuto che sarebbe stato auspicabile, dopo un certo lasso di tempo, tale da consentire che i genitori ne possano richiedere l'utilizzo, prevedere che gli embrioni residui possano essere destinati alla ricerca, superando quanto disposto dall'art. 13 l. n. 40/2004 che ne detta confini stretti, giudicandola lecita solo se diretta a finalità esclusivamente terapeutiche e diagnostiche volte alla tutela della salute dello stesso embrione. Netta la risposta della Corte costituzionale (Corte cost.,13 aprile 2016, n. 84; si veda A. Figone, Sperimentazione sugli embrioni. Un'ulteriore pronuncia della Corte Costituzionale, in IlFamiliarista.it), che ha giudicato inammissibile la questione sottopostale in riferimento alla previsione dell'irrevocabilità del consenso dopo la fecondazione e al divieto di ricerca scientifica sugli embrioni non impiantati in quanto affetti da anomalie. D'altro canto, la stessa Corte europea (Corte EDU, Grande Sez., 27 agosto 2015, n. 46470; si veda A. Fasano, G. Pizzolante, Strasburgo: è legittimo il divieto dell'uso di embrioni a fini di ricerca, in IlFamiliarista.it) ha giudicato pienamente legittima la normativa italiana in tema di divieto di donare alla ricerca scientifica embrioni creati in vitro: pur ritenendo applicabile l'art. 8 CEDU ed il principio del “rispetto della vita privata”, è stata rilevata l'assenza di un consenso europeo uniforme sulla materia, dovendosi, quindi, riconoscere all'Italia un ampio margine di discrezionalità. Va, infine, rilevata la richiesta di un provvedimento di urgenza, da parte di una donna rimasta vedova, al fine di ottenere autorizzazione all'impianto di embrioni crioconservati da sedici anni: la richiesta non è stata accolta in quanto il lungo tempo trascorso non consente di ritenere efficace il consenso allora prestato dal marito defunto (Trib. Bologna 21 maggio 2014). Casistica
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