Liberalità indiretteFonte: Cod. Civ. Articolo 809
14 Maggio 2015
Inquadramento
Si parla di donazione atipica o indiretta in relazione a qualsiasi liberalità attuata attraverso uno strumento giuridico caratterizzato da uno scopo diverso, avendosi cura di precisare che la causa è la medesima della donazione diretta (Cass. civ. 13 maggio 1980, n. 3147). L'ambizione di costruire una teoria generale delle liberalità paga il prezzo di una esasperata oggettivazione, che si traduce nel valutare l'obiettivo arricchimento del beneficiario con conseguente dissoluzione della rilevanza dello spirito di liberalità, ossia della platea di cause che concorrono a spiegare l'attribuzione (Roppo V., Il contratto, Milano, 2001, 437 ss.).
Ne deriva la grave conseguenza circa l'amputazione della considerazione dell'atto di autonomia privata e l'assottigliarsi della fattispecie dell'art. 809 c.c.: è, dunque, preferibile una paziente ricognizione delle diverse ragioni in cui si possono manifestare gli atti di liberalità e le figure riconducibili a questo spirito. Un contributo ha attaccato la visione che collega l'impoverimento al patrimonio, al dare e non al fare, obiettando che, al contrario, anche il fare può essere ricondotto alla donazione (Gianola A., Atto gratuito, atto liberale, Milano, 2002). Un'articolata riflessione (Amadio G., La nozione di liberalità non donativa nel codice civile in AA. VV., Liberalità non donative e attività notarile, Quaderni della Fondazione italiana per il Notariato, Milano 2008) ha registrato le tesi che hanno variamente assegnato virtù distintiva allo spirito di liberalità oppure all'arricchimento, segnalando inoltre come la liberalità sia stata alternativamente riferita all'atto oppure agli effetti. La celebre proposta della liberalità come causa fu messa a punto nella prima metà del secolo (Oppo G., Adempimento e liberalità, Milano, 1947), facendo riferimento all'accezione di funzione economico-sociale allora in auge ed impiegando tale identità per giustificare la disciplina comune (errore sul motivo, divieto di mandato). Tuttavia questa prima idea di intento liberale come causa non soddisferebbe, non spiegando il contenuto specifico che consente allo spirito di liberalità di diventare causa. Una varianteguarda all'effetto di arricchire. La categoria della liberalità sarebbe accomunata dal risultato finale dell'arricchimento del beneficiario, che assurgerebbe ad indice di riconoscimento della categoria, comprendente tutti i negozi-mezzo aventi appunto tale risultato finale. Tale costruzione risulterebbe, però, contraddetta dall'art. 793 comma 2 c.c.- da cui emerge come l'onere possa assorbire l'intero valore della donazione -, cosicché la dottrina più recente ne esclude l'idoneità a contraddistinguere la categoria. Si propone, allora, di recuperare la piena portata normativa dell'art. 769 c.c. che identifica la donazione come il contratto che non solo arricchisce, ma che lo fa per spirito di liberalità. La conferma sistematica deriverebbe dal confronto tra gratuità e liberalità: è gratuito l'atto che comporta sacrifici economici a carico di una sola parte, oneroso quello che ne importa ad entrambi; quindi il primo arricchisce il beneficiario (si pensi al mecenatismo, ai premi alla clientela, alla prestazione di garanzia a favore delle società controllate), pur non integrando liberalità. Lo spirito di liberalità sarebbe da tradursi nel soddisfacimento di un interesse non economico. In questo modo si compirebbe la parabola dell'oggettivazione dell'animus donandi in un interesse. Per contro, l'interesse non patrimoniale identificherebbe la categoria degli atti liberali, come quelli che mirano a procurare all'accipiens un vantaggio in vista del soddisfacimento di un interesse non patrimoniale del tradens. Sarebbero in questo modo superate le tre antiche teorie sulle liberalità non donative: quella che le assimila al negozio indiretto, costruendo la liberalità quale fine ulteriore; quella della causa sufficiente, secondo la quale la donazione sarebbe sostituita dalla forma; quella dello spirito di liberalità. Si osserva, poi, che la gamma degli schemi rivolti a realizzare interessi non patrimoniali include comportamenti non negoziali, quali l'astensione dalla interruzione della prescrizione o la mancata indicazione della natura personale del denaro impiegato nell'acquisto di un bene da parte di un soggetto coniugato in comunione legale, dove si verifica la combinazione con l'operatività della fattispecie legale. Per ripensare l'inconciliabilità tra acquisto ex lege ed intento liberale si propone di far capo al "negozio configurativo", quale accordo sulla causa, sorta di contratto normativo, per il quale sorge l'interrogativo circa la necessità dell'atto pubblico (Amadio G., La nozione di liberalità non donativa nel codice civile, cit.). Si è opportunamente notato come l'art. 743 c.c. attesti l'attitudine del contratto sociale a veicolare liberalità (Gatt L., Onerosità e liberalità, in Riv. dir. civ., 2003, I, 677). La riforma del diritto delle società di capitali ha introdotto l'art. 2346 comma 4 c.c. che consente in sede sia di costituzione sia di aumento del capitale attribuzioni di partecipazioni proporzionali rispetto ai conferimenti. L'art. 2468 comma 3 c.c. permette di riconoscere ai singoli soci “particolari diritti” nella distribuzione degli utili. Si tratta di schemi atti a realizzare liberalità non donative laddove difettino ragioni giustificative tali da supportare oggettivamente lo squilibrio. La via tradizionalmente più praticata passa attraverso rinunce totali o parziali all'opzione in caso di operazioni sul capitale. Nelle società di persone ciò è ritenuto privo di consistenza giuridica da parte di chi esclude la presenza di opzione in senso proprio rispetto agli aumenti, del resto dubitandosi della configurabilità stessa del capitale in senso proprio (per le opposte interpretazioni: Cass. civ. 9 marzo 1955, n. 711; Cass. civ. 27 settembre 1955, n. 2648). Nelle S.p.a. al medesimo risultato può pervenirsi percorrendo l'iter societario dell'esclusione dell'opzione nelle ipotesi e secondo le modalità previste dall'art. 2441 c.c., quindi invocando l'interesse sociale (tra le numerose: Cass. civ. 28 giugno 1980, n. 4089; Cass. civ. 13 gennaio 1987, n. 133), oppure a fronte di conferimento in natura. Alternativamente si offre la - più percorsa - via della rinuncia del socio a sottoscrivere l'aumento, la cui riconducibilità alla liberalità indiretta od alla cessione occulta dell'opzione porta spesso a preferire l'attesa inerte del decorso del termine per l'opzione senza esercitarla, avendo previamente concordato con l'organo amministrativo l'offerta della sottoscrizione al soggetto da favorire. In questa prospettiva fu ammessa, rispetto ad una S.r.l. anteriormente alla riforma, la rinunzia alla sottoscrizione già effettuata da parte del socio, alla stregua di una risoluzione consensuale del contratto, con la conseguente possibilità di offerta ai terzi (Cass. civ. 5 luglio 1984, n. 3945). Presupposto sottinteso, raramente messo in chiaro, di questo meccanismo è l'inferiorità del "prezzo di sottoscrizione" (ed – eventuale - sovrapprezzo), quindi della somma richiesta per la sottoscrizione, rispetto al suo valore reale. Quest'evenienza è pressoché costante - salvo il caso di società di nuova costituzione, oppure già avviata, ma in stato di decozione - rispetto alle società di persone, il cui capitale è solitamente irrisorio. È tuttavia frequente anche presso le società di capitali. La causa liberale è stata, tuttavia, esclusa in un'occasione in cui si era inteso attribuire al dipendente una particolare forma di retribuzione, rinunciando all'intestazione delle azioni da parte della maggioranza e dell'organo amministrativo di una S.p.a., avvalendosi del meccanismo del transfert ai sensi dell'art. 2022 comma 2 c.c.. Manovra ancora più drastica è quella consistente nella fuoriuscita di un socio la cui partecipazione venga liquidata in modo depresso, o per nulla. Oltre al conferimento in numerario, anche quello in natura si presta all'obiettivo di avvantaggiare indirettamente alcuno: si ottiene di arricchire i soci diversi dal conferente, ove quest'ultimo accetti l'attribuzione di quote per un valore inferiore rispetto a quanto attribuito. Quanto sopra fa, ovviamente, salvo l'eventuale esperimento di azione revocatoria da parte dei creditori particolari del conferente, che è consentito dalla giurisprudenza, in ragione dello squilibrio sinallagmatico, anche nei confronti dei conferimenti in società (Cass. civ. 11 marzo 1995, n. 2817). Pur essendo ammessa la possibilità di conferire in società un bene sottovalutato contabilmente, la dottrina ritiene, in ogni caso, necessario far emergere, a livello contabile, la corrispondente plusvalenza (Miola M., I conferimenti in natura in Trattato delle società per azioni, G.E. Colombo, G.B. Portale (diretto da), vol. 1 ***, Torino, 2004, 396 e ss). Considerazioni di corrispondente tenore possono avanzarsi a margine di fusioni e scissioni rispetto al computo del concambio, il quale può avvenire secondo criteri volti a favorire una certa compagine, nei limiti consentiti dalla relazione degli esperti, e nell'assenza di opposizione dei creditori (art. 2503 c.c.). Alcune vicende giudiziarie (Trib. Milano 13 maggio 1999 in Vita not., 2000,991, nonché in Società, 2000, 75) non recentissime evidenziarono, invero, sia l'opinabilità dei conteggi formulati per determinare il rapporto di cambio, sia la limitata sindacabilità da parte del giudice (oggi - in prima battuta - dal notaio). La riforma ha, inoltre, recepito le aperture giurisprudenziali all'omissione della relazione degli esperti sul rapporto di cambio (art. 2505 c.c.). Per le scissioni con costituzione di nuova società l'art. 2506-ter comma 3 c.c. ha fatto proprio l'orientamento giurisprudenziale che ammetteva la superfluità della relazione degli esperti ove l'assegnazione delle partecipazioni avvenga secondo criteri rigorosamente proporzionali. Il 4 comma dell'art. 2506-ter c.c., escludendo l'obbligo per l'organo amministrativo di redigere i documenti previsti ai commi precedenti con il consenso unanime dei soci e dei possessori di strumenti finanziari, ha recepito il criterio a suo tempo sancito dal decreto ambrosiano (App. Milano, decr., 12 gennaio 2001, in Riv. not., 2001, 1219) il quale ammise che la volontà di tutti i soci (quindi assemblea totalitaria che delibera all'unanimità) possa rendere superflua la relazione degli esperti sul rapporto di cambio, assumendo il carattere disponibile delle norme relative, in quanto poste ad esclusiva tutela dei soci, ed invece irrilevanti per i terzi. È evidente l'utilizzabilità di quest'apertura per attuare liberalità indirette (scorrendo alcuni pareri del Comitato antielusione, esistente fino a metà 2007, si trovano queste indicazioni circa l'applicabilità dell'art. 37-bis d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 alle scissioni). Il trasferimento di quote a titolo - formalmente - oneroso può, poi, arricchire il cessionario in caso di corrispettivo inferiore al valore effettivo, ciò che configura "vendita mista a donazione". La fattispecie transita nella generica donazione indiretta laddove venga fatto ricorso all'accorgimento consistente nell'effettuazione di versamenti di denaro da parte del cedente nelle casse sociali riservandosene il diritto al rimborso - quindi a titolo di finanziamento, anziché in conto ripianamento perdite/futuro aumento del capitale -, e successiva rinuncia al corrispondente credito, che avvantaggia il cessionario solo in via mediata, per effetto dell'eliminazione di una posta passiva del patrimonio sociale. L'operazione è agevolata dall'incertezza che in concreto spesso circonda la causa di questi versamenti, raramente chiarita al momento del loro perfezionamento, e sfornita di alcuna presunzione (relativa) di fonte non solo legale, ma pure giurisprudenziale, a seguito del superamento dell'originario indirizzo incline ad inferire nel dubbio la natura di versamenti in conto capitale (Cass. civ. 3 dicembre 1980, n. 6315. Successivamente è stato negato, al tempo stesso escludendo la presunzione speculare, onde far capo al mutuo: a titolo esemplificativo si veda Cass. 19 marzo 1996, n. 2314). La sussistenza di un'impresa familiareoffre il destro a ghiotte tentazioni ove si faccia propria la tesi prevalente che rimette all'autonomia degli interessati la capitalizzazione dei crediti spettanti ai collaboratori familiari sulla base dell'art. 230-bis c.c., che si traducono in (percentuale di) contitolarità dell'azienda, e ciò quand'anche, laddove il conferimento sia effettuato nei confronti di una società di capitali, l'apporto sia soggetto alla perizia prevista dall'art. 2343 c.c. (Tassinari F., Costituzione di società di capitali mediante conferimento di azienda familiare, in Notariato, 1996, 4). La cessione di azienda con costituzione di rendita vitalizia a favore del cedente, non realizzerebbe liberalità indiretta in ragione dell'aleatorietà della causa, salvo la rendita non venga creata a favore di soggetto diverso dal cedente, nel qual caso si rientra nel paradigma della stipulazione a favore del terzo (al riguardo si rinvia a Fusaro A., Autonomia privata e mantenimento: i contratti di vitalizio atipico,in Famiglia e diritto, 2008, n. 3). Centrale appare la considerazione dell'alienazione di azienda per un corrispettivo inferiore al valore reale, evenienza riconducibile alla figura del "negozio misto con donazione".
Con questa espressione si indica, solitamente, l'evenienza del pagamento da parte del terzo, ma pare altrettanto rilevante il contratto a favore del terzo. Viene qui in gioco l'individuazione del perfezionamento della liberalità, spesso affrettatamente individuata nel comportamento presupposto della fattispecie - il pagamento, il trasferimento del bene: insomma la prestazione rivolta a vantaggio di altro soggetto - dimenticando che la qualificazione nei termini della liberalità è subordinata al difetto di rapporto sottostante giustificativo dell'attribuzione (ad esempio un mandato senza rappresentanza, una delegazione, o comunque altra causa idonea a supportare la prestazione solutoria) e, nell'assenza di esso, alla rinuncia ad esperire alcun regresso o ripetizione. Ne consegue l'opportunità di esplicitare in atto la ricorrenza di questi presupposti, negativi (assenza di rapporto pregresso idoneo a supportare casualmente la prestazione) e/o positivi (rinuncia a regresso o ripetizione). La donazione diretta del denaro destinato all'acquisto di un immobile è contemplata dall'art. 1, comma 4-bis, d.lgs. 31 ottobre 1990, n. 346 e non si tratta di un'evenienza peregrina, ancorché non appaia la più idonea a mettere l'acquisto - specie immobiliare - al riparo dalla potenziale portata recuperatoria dell'azione di riduzione. Invero, attualmente si suggerisce una formalizzazione distinta - quindi all'interno di un rogito autonomo - della donazione del denaro da impiegarsi per l'acquisto (Delle Monache S., Liberalità atipiche, donazioni occulte e tutela dei legittimari, in www.judicium.it). Opposto atteggiamento riesce preferibile qualora si intenda consolidare l'esclusione dalla comunione legale del bene acquistato con i denari ricevuti in dono da terzi (solitamente i genitori). Invero - coerentemente con quanto sopra considerato circa la tutela dell'affidamento dei terzi - l'esclusione delle donazioni indirette dalla comunione legale (Cass. civ. 15 novembre 1997, n. 11327; Cass. civ. 14 dicembre 2000, n. 15778) deve intendersi circoscritta al piano obbligatorio, quindi al versante per così dire contabile interno, in assenza di indici emergenti dal titolo di acquisto, ciò che può ora realizzarsi esplicitando la provenienza del denaro senza timore di incorrere in prelievi fiscali, proprio grazie al comma 4-bis dell'art. 1 d.lgs. n. 346/1990. La scelta circa la formalizzazione delle liberalità risulterà filtrata da un articolato bilanciamento dei costi e dei vantaggi variabili in dipendenza del contesto. In ordine alle liberalità dirette ai figli giocherà la preoccupazione perequativa, o piuttosto discriminatoria, dei genitori: in un caso saranno confortati dalla perenne tracciabilità delle singole elargizioni idonea a rendere conto della distribuzione del patrimonio, mettendo in grado i discendenti di riepilogarle, e se del caso reclamare conguagli; nell'altro si mostreranno refrattari alla trasparenza in quanto antagonista rispetto ai loro piani. Altrettanto non vale, ovviamente, per le liberalità tra coniugi,tendenzialmente amorfe in sintonia con l'atmosfera domestica, con la comunione - come si dice - di affetti, di tetto e di mensa. Questo quadro di solidarietà sembra - però - ormai messo a dura prova e sfidato dall'aumento delle crisi coniugali, come ha rilevato la stessa Corte Costituzionale (sent., 25 febbraio 1999, n. 41), allorché ha demolito il carattere assoluto della presunzione di gratuità dei trasferimenti tra coniugi allora contemplata dall'art. 26 d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, osservando come all'interno della coppia siano ipotizzabili ed effettivamente si realizzino trasferimenti sia gratuiti sia onerosi. L'inevitabile riverbero degli arricchimenti reciprocamente procurati rispetto alla sistemazione patrimoniale imposta dalla crisi coniugale può - allora - forse costituire un incentivo alla formalizzazione delle liberalità. Infine ulteriore pressione verso la formalizzazione deriva dalla normativa antiriciclaggio, nonché dai ben noti obblighi di menzionare i mezzi di pagamento in maniera analitica nelle transazioni immobiliari. Casistica
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