La riforma del diritto di famiglia del 1975 ha profondamente innovato l'istituto della separazione giudiziale che si è trasformato da una sanzione nei confronti del coniuge colpevole di specifiche gravi condotte espressamente previste dal legislatore (adulterio, volontario abbandono, eccessi, sevizie, minacce, ingiurie gravi) in un rimedio da invocare anche da parte di uno solo dei coniugi allorché sia cessata la comunione materiale e spirituale propria del sodalizio coniugale e la prosecuzione della convivenza sia divenuta intollerabile, ovvero si siano verificati fatti pregiudizievoli per l'educazione della prole.
La recente riforma del diritto processuale di famiglia (c.d. riforma Cartabia) non ha innovato la disciplina della separazione dei coniugi quanto ai suoi presupposti sostanziali, nondimeno ne ha interamente riscritto la disciplina processuale tanto da condurre a una progressiva sfumatura dei confini tra il giudizio di separazione e quello di divorzio sulla scia della l. 55/2015 che ha introdotto nel nostro ordinamento giuridico il c.d. “divorzio breve”.
Inquadramento
* Aggiornamento a cura di C. Filauro
La riforma del diritto di famiglia del 1975 ha profondamente innovato l'istituto della separazione giudiziale che si è trasformato da una sanzione nei confronti del coniuge colpevole di specifiche gravi condotte espressamente previste dal legislatore (adulterio, volontario abbandono, eccessi, sevizie, minacce, ingiurie gravi) in un rimedio da invocare anche da parte di uno solo dei coniugi allorché sia cessata la comunione materiale e spirituale propria del sodalizio coniugale e la prosecuzione della convivenza sia divenuta intollerabile, ovvero si siano verificati fatti pregiudizievoli per l'educazione della prole. L'accertamento della colpa per condotte contrarie ai doveri che nascono dal matrimonio è solo eventuale ed accessorio e necessita di espressa domanda di uno dei coniugi.
Il mutamento trova il suo fondamento in una nuova concezione del matrimonio: non più un istituto connotato da forti risvolti di interesse pubblico dove solo la grave colpa di un coniuge, rintracciabile solo nei casi tipici valutati a priori dal legislatore, abilita l'altro a chiedere la separazione che non approda mai al definitivo scioglimento del vincolo, ma un sodalizio di due persone che, in quanto fondato sul consenso e finalizzato alla realizzazione di un progetto di vita comune, non può che risentire delle mutazioni dell'umano sentire e dei mutevoli accadimenti della vita.
L'attenzione si sposta dalla prova di condotte legalmente tipizzate commesse colposamente da un coniuge, alla verifica di una situazione che si è venuta a creare tra i coniugi causata dai più svariati fatti, anche involontari, che hanno determinato la intollerabilità della convivenza. Lo sguardo non è sulle cause, ma sugli effetti.
In un simile quadro è evidente come il diritto alla separazione non sia preventivamente rinunciabile dai coniugi così come, per la medesima ratio, sarebbero illeciti i patti di ricorrere in futuro alla sola separazione consensuale.
Negli anni la giurisprudenza ha progressivamente attenuato il rigore dell'indagine circa l'effettiva sopravvenuta intollerabilità della convivenza, ritenendo determinante, come si vedrà, la mera prospettazione di una delle parti. Nella stessa direzione, d'altronde, si è mosso il legislatore. Con la l. 55/2015 è stato infatti codificato l'istituto del c.d. divorzio breve, in virtù del quale ciascun coniuge, decorsi 6 o 12 mesi dalla data di comparizione dinanzi al Presidente, a seconda che si tratti di separazione consensuale ovvero giudiziale, ha facoltà di chiedere la pronuncia di divorzio, senza dover più attendere i tre anni originariamente previsti dall'art. 3 comma 1, n. 2) lett. b) l. 898/1970. La riduzione dell'arco temporale tra la separazione e il divorzio costituisce un chiaro indice del progressivo indebolimento degli status, consolidatosi nella società ancor prima che nella normativa vigente. Il legislatore della riforma Cartabia (attuata con il d.lgs. 149/2022), nel riscrivere le norme del – a questo punto unico – processo di famiglia, ha completato l'opera avviata dal legislatore del 2015, consentendo alle parti di proporre nel medesimo giudizio sia la domanda di separazione quanto quella di divorzio (art. 473-bis.49 c.p.c.). Nonostante i dubbi inizialmente sollevati da parte della giurisprudenza di merito, la medesima facoltà è stata riconosciuta ai coniugi che intendano richiedere la separazione e il divorzio su domanda congiunta (Cass. 28727/2023). Sebbene la pronuncia di divorzio postuli il passaggio in giudicato della sentenza di separazione, in seguito all'entrata in vigore del d.lgs. 149/2022 i coniugi che intendano depositare una domanda congiunta di separazione e divorzio, in soli sei mesi potranno conseguire la pronuncia di divorzio, non occorrendo alcuna nuova iscrizione a ruolo del procedimento di divorzio. È evidente come in un simile quadro lo status coniugale abbia perso la stabilità originariamente ipotizzata dal legislatore della l. 898/1970.
In evidenza
Il diritto a chiedere la separazione può essere esercitato anche dal coniuge che ha volontariamente posto in essere i fatti che rendono intollerabile la convivenza, ancorché siano violativi dei doveri che informano il matrimonio e quindi anche se la separazione possa essere a lui addebitata, dovendosi tenere distinte legittimazione ed addebitabilità
La nuova normativa è conforme ai principi costituzionali espressi dagli artt. 2 e 29 Cost. che implicano, per ciascun coniuge, il diritto di ottenere la separazione ed interrompere la convivenza ove, per fatti obiettivi, ancorché non dipendenti da colpa propria o dell'altro coniuge, la convivenza sia divenuta per lui intollerabile così da essere divenuto impossibile svolgere adeguatamente la propria personalità in quella “società naturale” costituita con il matrimonio che è la famiglia (Cass. civ., sez.I, 9 ottobre 2007 n. 21099; Cass. civ., sez. I, 30 gennaio 2013 n. 2183). Il diritto del coniuge di ottenere la separazione a prescindere da una rigorosa indagine circa le cause che hanno condotto all’intollerabilità della convivenza è stato rinforzato per effetto dell’entrata in vigore della l. 55/2015 - che, introducendo il c.d. divorzio breve, ha contribuito a indebolire il principio di stabilità degli status – e del d.lgs. 149/2022, che ha previsto la possibilità per i coniugi di domandare in un medesimo giudizio tanto la separazione quanto il divorzio.
L'intollerabilità della convivenza
Il concetto di convivenza si differenzia profondamente da quello di coabitazione. La convivenza coniugale è la comunione morale e materiale che si instaura tra i coniugi, la coabitazione consiste nella comune dimora. Può esservi convivenza senza coabitazione laddove i coniugi, pur uniti in una communio omnis vitae, per svariati motivi non coabitino; può esservi coabitazione anche quando l'unione coniugale sia venuta del tutto meno ed il matrimonio si sia ridotto ad un mero simulacro (Cass. civ., sez. I, 17 settembre 2014 n. 19535; Cass. civ. 23 gennaio 2018, n. 1630; Trib. Torino 7 febbraio 2019 n. 597). La distinzione non è di poco conto in quanto rileva non solo ai fini della richiesta di separazione, ma anche per l’ipotesi in cui un coniuge eccepisca l’intervenuta riconciliazione, che presuppone la ripresa della convivenza e non della mera coabitazione e, ove fondata, preclude la possibilità di pronunciare il divorzio in quanto determina il venir meno degli effetti della separazione.
In evidenza
La intollerabilità della convivenza è il venir meno della comunione di vita e d'intenti, materiale e spirituale, che costituisce il fondamento del vincolo coniugale. Assumono rilievo tutte quelle situazioni che affondano il progetto di vita insieme, che rompono l'intesa dei corpi e dello spirito, che bloccano la crescita individuale e impediscono la realizzazione della propria personalità all'interno della famiglia, che costituiscono pregiudizio per la salute fisica o per l'equilibrio psichico della persona.
La formula è opportunamente generica e, seppure sono utili classificazioni orientative, è aperta a sempre nuove concretizzazioni che discendono dalla evoluzione del sentire sociale in ordine ai nuovi doveri discendenti dal coniugio fondati sul principio di parità dei coniugi, sul rispetto del metodo dell'accordo in ordine alle questioni rilevanti della vita familiare, sul rispetto della persona e sulla tutela dei diritti fondamentali all'interno della relazione coniugale.
Alle cause di separazione riconosciute dalla vecchia normativa (gravi fatti volontari e colpevoli) se ne sono aggiunte di nuove che talvolta non costituiscono violazione dei doveri del matrimonio, né discendono dalla condotta di uno dei coniugi, andando ad ampliare la gamma di ipotesi che possono rilevare come ragioni di intollerabilità.
Possono consistere in situazioni oggettive riconosciute da entrambi i coniugi, per es. incompatibilità di carattere (Cass. civ., sez. I, 6 luglio 1988, n. 4439; Cass. civ.,sez. I, 3 luglio 1987, n. 5813) o gravi litigi, anche con soggetti terzi conviventi (Cass. civ.,sez. I, 20 gennaio 2006, n. 1202); ma anche in fatti involontari, per esempio, il grave stato di infermità di uno dei coniugi, perdurante nel tempo e non reversibile, specialmente se investa la sfera psichica della persona, che può precludere ogni possibilità di comunicazione o di intesa con l'altro, provocando una grave alterazione dell'equilibrio coniugale (Cass. civ., sez. I, 20 dicembre 1995,n. 13021); assumono rilevanza mutamenti dello stile di vita conseguenti a scelte culturali, professionali, conversioni religiose che, pur ricollegandosi all'esercizio di diritti garantiti dall'art. 19 Cost. si traducano in atti oppressivi di intolleranza, in condizionamenti sulle scelte fondamentali di vita, ad imposizione di principi educativi della prole non concordati dai coniugi, ma anche che abbiano dato origine solo ad un contrasto insanabile tra i coniugi sul modo di professare la religione e di educare i figli dal punto di vista religioso (Cass. civ.,sez. I, 6 agosto 2004, n.15241; Cass. civ., sez. I, 26 maggio 1990, n. 4920); possono legittimare la separazione anche le modifiche interiori, del tutto soggettive, del rapporto con l'altro, come disaffezione o distacco spiritualeo fisico anche di uno solo dei coniugi che determina incapacità di comprendere e dare significato alle emozioni ed alle aspirazioni dell'altro (Cass. civ.,sez. I, 21 gennaio 2014, n. 1164; Cass. civ., sez. I, 14 febbraio 2007,n.3356), che rompe il filo che univa le vite, che fa sentire l'altro un estraneo e che fa venir meno la volontà di vivere insieme.
L'intollerabilità può essere di uno solo dei coniugi, non potendo ritenersi esclusa per il solo fatto che l'altro assume un atteggiamento di accettazione e di disponibilità, potendo tale atteggiamento trovare spiegazione in motivi pratici o materiali, nella prevalenza di concezioni etiche, ovvero in irreali prospettive di recupero del rapporto, che rendono quel coniuge eccezionalmente tollerante rispetto ad una situazione obbiettivamente priva dei contenuti minimi di reciproca affectio che devono assistere una comunione non meramente materiale, e comunque non coercibile, quale quella coniugale (Cass. civ., sez. I, 8 maggio 2003, n. 6970; Cass. civ.,sez. I, 10 giugno 1992, n. 7148).
Intollerabilità soggettiva o oggettiva
Si discute se l'intollerabilità sia soggettiva od oggettiva. La concezione soggettiva pone l'accento sulla penosità individuale della convivenza della quale il giudice dovrebbe limitarsi a prendere atto, c.d. separazione a discrezione del coniuge; quella oggettiva fonda il diritto alla separazione sull'accertamento di fatti che nella coscienza sociale e nella comune percezione rendono intollerabile il proseguimento della convivenza coniugale (Cass. civ., sez. I, 23 agosto 1985, n. 4498; Cass. civ., sez. I, 21 febbraio 1983, n. 1304).
Solo la giurisprudenza della Suprema Corte più risalente, non ancora assimilato il profondo salto di qualità introdotto dalla nuova disciplina, ha aderito alla interpretazione oggettiva della intollerabilità, allorché ha sottolineato che meri atteggiamenti soggettivi di rifiuto della convivenza devono riflettersi in circostanze che rendano oggettivamente apprezzabile la situazione di intollerabilità nella sua essenza e nella sua dinamica causale (Cass. civ.,sez. I, 10 gennaio 1986, n. 67), giustificando tale interpretazione nella esigenza di garantire l'unità della famiglia ed il diritto di ciascun coniuge alla prosecuzione della convivenza che può venir meno solo in presenza di fattori di intollerabilità valutabili secondo indici oggettivamente apprezzabili.
La giurisprudenza successiva ha riconosciuto sempre maggiore spazio a motivi squisitamente individuali, riferibili alla formazione culturale, alla sensibilità ed al contesto interno alla vita dei coniugi (Cass. civ.,sez. I, 16 febbraio 2012, n.2274; Cass. civ.,sez. I, 9 ottobre 2007,n. 21099; Cass. civ.,sez. I,10 giugno 1992, n.7148).
Del resto l'utilizzo del termine “intollerabilità” rinvia ad una valutazione personale e soggettiva, non essendo corretto dal riferimento alla “normalità” che compare nei contesti in cui si intende ottenere un contemperamento equo degli interessi in conflitto. L'intollerabilità è un fatto psicologico, squisitamente individuale.
In evidenza
La separazione dei coniugi deve trovare causa e giustificazione in una situazione di intollerabilità della convivenza intesa in senso soggettivo, potendo dipendere dalla condizione di disaffezione e distacco di una sola delle parti, non essendo necessario che sussista una situazione di conflitto riconducibile alla volontà di entrambi i coniugi dovendosi ritenere, in tali evenienze, venuto meno quel principio del consenso che, con la riforma attuata attraverso la L. 19 maggio 1975, n. 151, caratterizza ogni vicenda del rapporto coniugale (Cass. civ.,sez. I,21 gennaio 2014, n. 1164).
L'ampia apertura alle situazioni soggettive non esclude che la sussistenza della situazione di intollerabilità debba essere giuridicamente verificata (Cass. civ.,sez. I,14 febbraio 2007, n. 3356). La valutazione condotta con riguardo al soggetto non elimina la necessità di far riferimento al dato oggettivo della irrimediabile rottura verificatasi tra i coniugi, così come l'accertamento della serietà dei fatti che sono causa della intollerabilità non è incompatibile con il rilievo degli elementi soggettivi che hanno provocato l'impossibilità anche per uno solo dei coniugi di vivere insieme.
Del resto il diritto di liberarsi dall'obbligo della convivenza non può tramutarsi in mero arbitrio. Il matrimonio, seppure dissolubile, è pur sempre un vincolo e non è revocabile ad nutum, come se si trattasse di una libera unione. Ecco perché l'atteggiamento soggettivo di distacco e rifiuto deve essere allegato e verificato dal giudice.
In evidenza
La situazione di intollerabilità non può che intendersi in senso soggettivo, pur essendo necessario che tale stato soggettivo sia serio e grave, abbia determinato il venir meno della comunione coniugale e sia giuridicamente accertabile
L'accertamento giudiziale
È necessario un accertamento effettivo circa il verificarsi della grave situazione, anche soggettiva, di intollerabilità, che deve essere allegata e provata dal coniuge che richiede la separazione e che è rimesso all'attenta e prudente valutazione del giudice, commisurato alle regole di comportamento proprie dell'ambiente sociale in cui la famiglia è inserita, da condursi con criteri di relatività, tenuto conto della condizione sociale delle persone, della loro educazione, della loro formazione culturale, della sensibilità personale, dell'ambiente in cui vivono e delle circostanze nel loro complesso (Cass. civ.,sez. I, 9 ottobre 2007,n. 21099).
Il controllo del giudice è finalizzato ad accertare la gravità della frattura e la sua irrimediabilità. Il giudice deve verificare, specialmente di fronte all'opposizione dell'altro coniuge, che il sentimento di intollerabilità non sia frutto di una spinta emotiva, occasionale o solo emulativa, ma che sia meditato e rispondente ad un profondo sentire del coniuge richiedente la separazione e che quindi non si tratti di una separazione capricciosa. Pertanto la intollerabilità, che ben può essere, anzi sempre è, intimamente soggettiva, deve nascere da fatti maturati nel tempo e non superabili, e causare una grave frattura che conduce al rifiuto della vita in comune, al venire meno del consenso a far parte di quel sodalizio familiare. Tale controllo costituisce il cuore stesso del tentativo di conciliazione presidenziale che si pone come l'offerta alle parti di un ultima possibilità di dialogo con la mediazione di un soggetto terzo, autorevole e qualificato.
La domanda rigettata, per mancanza delle necessarie allegazioni circa la gravità e l'irrimediabilità della frattura ovvero per mancanza di serietà ed approfondimento della scelta separativa, ipotesi peraltro molto rara che non ha riscontro in sentenze di legittimità, può essere ripresentata con il protrarsi della rottura della vita di coppia e quindi con il venire in essere di quei parametri sufficienti a constatare il venir meno della comunione materiale e spirituale di vita.
Il tentativo di conciliazione dei coniugi teso a verificare l’effettiva frattura del vincolo coniugale, quanto meno in capo a un solo coniuge, costituisce un preciso dovere anche del Giudice Delegato nell’ambito dell’udienza di comparizione dei coniugi disciplinata dall’art. 473-bis.21 c.p.c., introdotto dal d.lgs. 149/2022. Il legislatore della riforma Cartabia ha anzi valorizzato l’importanza della comparizione personale dei coniugi dinanzi al Giudice delegato, prevedendo che la mancata comparizione possa essere valutata sia come argomento di prova ex art. 116 c.p.c., p.e. ai fini della verifica della sopravvenuta intollerabilità della convivenza, sia ai fini della regolazione delle spese di lite.
Come già anticipato in apertura, corre l’obbligo di evidenziare che l’accertamento compiuto dal Giudice circa l’effettiva sopravvenuta intollerabilità della convivenza, al di fuori delle ipotesi in cui una parte domandi l’addebito e di quelle – per vero molto rare – in cui un coniuge si opponga alla richiesta di separazione formulata dall’altro, è alquanto attenuato. La giurisprudenza ritiene infatti sufficiente l’esistenza, anche in un solo coniuge, di una condizione di disaffezione al matrimonio tale da rendere incompatibile, allo stato, la convivenza (in termini cfr. Cass. civ., sez. I, sentenza 30 gennaio 2013 n. 2183), disaffezione che può essere connotata anche dalla semplice proposizione della domanda di separazione.
Va infine rilevato come su tale controllo non abbia inciso, quanto alla separazione consensuale - che pur presuppone la prospettazione di entrambe le parti della sopravvenuta intollerabilità della convivenza -, nemmeno il mutamento del provvedimento conclusivo del giudizio, da decreto di omologa (art. 710 c.p.c., abrogato dal d.lgs.149/2022) a sentenza (art. 473-bis.51 c.p.c.). La previsione che anche i procedimenti di separazione consensuale si concludano con sentenza è infatti dipesa dalla necessità che, in un rito unitario quale è il nuovo rito di famiglia, tutti i procedimenti si concludano con provvedimenti aventi la medesima forma. La mutata forma del provvedimento non ne muta tuttavia la sostanza dal momento che lo stesso art. 473-bis.51 c.p.c. dispone che sulla domanda il collegio provvede con sentenza con cui “omologa” gli accordi delle parti.
In evidenza
La verifica dei fatti obiettivi che legittimano la pronuncia di separazione è condotta avuto riguardo alle allegazioni dei coniugi ed alle prove offerte, essendo sufficiente anche la valutazione del comportamento processuale delle parti, in particolare l'iniziativa processuale assunta, cioè la presentazione del ricorso, l'esito negativo del tentativo di conciliazione, la conflittualità espressa alla udienza presidenziale, l'eventuale separazione di fatto, a prescindere da qualsivoglia elemento di addebitabilità (Cass. civ.,sez. I,21 gennaio 2014, n. 1164, Cass. civ.,sez. I,14 febbraio 2007, n. 3356)
Il pregiudizio alla educazione della prole
Il secondo presupposto della separazione è il verificarsi di fatti che rechino pregiudizio alla educazione della prole. Secondo i più tale causa di separazione non avrebbe rilevanza autonoma venendo quei fatti in considerazione come indirette manifestazioni della intollerabilità. Si è detto che i comportamenti non consoni di uno od entrambi i coniugi nei riguardi della prole non possono che determinare l'impossibilità a proseguire nella comunione di vita e quindi il presupposto della separazione risiederà sempre nell'intollerabilità della convivenza. Inoltre i fatti pregiudizievoli per la prole, che non incidano sull'affectio coniugalis, possono trovare specifico rimedio nei provvedimenti di cui agli artt. 330 e 333 c.c..
Altri hanno sottolineato che, seppur marginali, si possono configurare ipotesi di pregiudizio alla educazione dei figli tali da non integrare i fatti gravi che portano alla decadenza o all'allontanamento del genitore e che coesistano con il reciproco attaccamento dei coniugi. Si potrebbero ipotizzare situazioni di permanenza del sentimento coniugale in coniugi che trovino la forza interiore di sacrificare la loro vita affettiva, ma dannosa per i figli, nel solo interesse di questi.
Non si rinvengono sentenze che abbiano pronunciato la separazione solo in base al pregiudizio dei figli, senza richiamare la intollerabilità della convivenza.
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