Successione testamentaria

Marco Barinotti
24 Gennaio 2022

Il testamento è il negozio giuridico con cui la persona (testatore) dispone delle sue sostanze o di parte di esse, ovvero detta disposizioni di carattere non patrimoniale (ad esempio, riconoscimento di un figlio) per il tempo successivo alla sua morte (art. 587 c.c.).
Inquadramento

Il nostro ordinamento prevede due sole forme di successione ereditaria, la legittima e la testamentaria (art. 457 c.c.), mentre le norme sulla successione necessaria non costituiscono un tertium genus, ma sono finalizzate esclusivamente a tutelare i diritti di determinate categorie di persone (c.d. legittimari o riservatari), ponendo dei limiti sia alle disposizioni testamentarie lesive di tali diritti sia alle norme disciplinanti la successione legittima, riconoscendo in particolare ai legittimari l'azione di riduzione delle disposizioni testamentarie lesive delle proprie quote di riserva (Cass. civ., S.U., 27 febbraio 2013, n. 4847).

Venendo all'esame della successione testamentaria, disciplinata nel Libro II del codice civile, Titolo III, preme osservare che il testamento è il negozio giuridico con cui la persona (testatore) dispone delle sue sostanze o di parte di esse, ovvero detta disposizioni di carattere non patrimoniale (ad esempio, riconoscimento di un figlio) per il tempo successivo alla sua morte (art. 587 c.c.).

Più precisamente, il testamento è:

- un atto negoziale unilaterale, perché il suo perfezionamento necessita della sola volontà del testatore;

- un negozio mortis causa, posto che l'atto è perfettamente valido sin dal momento della sua redazione, ma sarà efficace solo dopo la morte del testatore;

- strettamente personale, in quanto non può compiersi a mezzo di rappresentante né è possibile, a pena di nullità, attribuire all'arbitriodi un terzo la scelta dell'erede o del legatario o la determinazione delle quote ad essi spettanti (il terzo, semmai, potrà essere chiamato a scegliere il legatario tra più individui o enti individuati dal testatore);

- non recettizio, perché è efficace indipendentemente dalla sua comunicazione a terzi;

- formale, poiché la legge prevede espressamente i modi in cui il testatore può redigere il testamento;

- revocabile, in quanto è sempre possibile per il testatore ritrattare le proprie disposizioni testamentarie.

In evidenza

Il testamento è l'atto con cui si provvede, in esplicazione del diritto di proprietà individuale, alla destinazione dei beni per il tempo successivo alla morte; il diritto di testare si rapporta alla volontà del disponente da far valere post mortem. Il testamento è validamente formato anche se con esso si dispone di una frazione soltanto della quota disponibile oppure di beni singoli e determinati, in quanto, in tale ipotesi, in forza del combinato disposto di cui agli artt. 587, comma 1, e 457, comma 2, c.c., la successione testamentaria concorre con quella legittima: conformemente a tale assunto si può affermare il principio della sussidiarietà della successione legittima rispetto a quella testamentaria.

Il testamento, in quanto atto giuridico, deve essere redatto osservando le forme previste dalla legge. In particolare, può assumere tre forme

  • olografo: affinché possa considerarsi valido è necessaria la sussistenza indefettibile e congiunta di tutti i requisiti previsti dall'art. 602 c.c., ovvero la scheda testamentaria deve essere scritta, datata e sottoscritta interamente di pugno dal testatore.
  • pubblico: concreta una delle due forme ordinarie di testamento per atto di notaio ed è un atto pubblico (art. 601, comma 2, c.c.); esso viene redatto dal notaio secondo la volontà espressa dal testatore (alla presenza di due testimoni) con le formalità previste ex lege: il notaio lo rilegge e annota il luogo e la data; lo sottoscrivono il testatore, i testimoni e il notaio, che indica anche l'ora della sottoscrizione (art. 603 c.c.).
  • segreto: integra la seconda forma di testamento per atto di notaio. La natura di atto pubblico concerne il solo atto di ricevimento, mentre la scheda testamentaria sottoscritta dal testatore (che può però essere scritta anche da un terzo e perfino con mezzi meccanici) ha natura di scrittura privata (art. 604 c.c.).
La successione testamentaria: disposizioni a titolo universale e a titolo particolare

Le disposizioni a titolo universale attribuiscono la qualità di erede mentre quelle a titolo particolare, generalmente, quella di legatario. Il legato si distingue dall'istituzione di erede perché in questa la disposizione testamentaria comprende l'universalità dei beni o una quota di essi, mentre nel primo si considerano singole e concrete attribuzioni patrimoniali, avulse dal complesso unitario dell'eredità.

Inoltre, mentre l'eredità riguarda indistintamente i rapporti attivi e passivi del defunto, il legato consiste sempre in un'attribuzione patrimoniale di segno positivo.

Ai sensi dell'art. 588 c.c., l'assegnazione di beni determinati configura pertanto una successione a titolo universale (institutio ex re certa), qualora il testatore abbia inteso chiamare l'istituito nell'universalità dei beni o in una quota del patrimonio relitto, mentre deve interpretarsi come legato se egli abbia voluto attribuire singoli, individuati, beni. L'indagine diretta ad accertare se ricorra l'una o l'altra ipotesi si risolve in un apprezzamento di fatto, riservato ai giudici del merito e, quindi, incensurabile in Cassazione, se congruamente motivato (Cass. civ., sez. VI, ord.,5 marzo 2020, n. 6125; Cass. civ., sez. II, 25 ottobre 2013, n. 24163; Cass. civ., sez. II, 10 ottobre 2012, n. 17266; Cass. civ., sez. II, 1 marzo 2002, n. 3016).

Al fine di distinguere tra disposizioni testamentarie a titolo universale - che, indipendentemente dalle espressioni e dalle denominazioni usate dal testatore, sono attributive della qualità di erede - e disposizioni a titolo particolare - che, invece, attribuiscono la sola qualità di legatario - il giudice deve compiere una duplice indagine, una di carattere oggettivo riferita al contenuto dell'atto, l'altra di carattere soggettivo riferita all'intenzione del testatore. Ne consegue che soltanto in seguito a tali indagini si può stabilire se attraverso l'assegnazione di beni determinati il testatore abbia inteso attribuire una quota del proprio patrimonio unitariamente considerato (sicché la successione in esso è a titolo universale) ovvero abbia inteso escludere l'istituzione nell' universum ius (sicché la successione è a titolo di legato) (Cass. civ., sez. lav., 12 luglio 2001, n. 9467).

Si ha dunque istituzione di erede quando l'istituito, qualunque sia l'espressione o la denominazione usata, è chiamato nell'universalità dei beni o in una parte indeterminata di essi considerata in funzione della quota del patrimonio ereditario.

Ne deriva che la determinazione della quota possa venire fatta non solo aritmeticamente (un terzo, un quarto, ecc.), ma anche attraverso l'attribuzione di determinati beni, ove si dimostri che il testatore, nel disporre dei singoli beni, abbia tenuto presente l'universalità dei suoi beni e li abbia intesi assegnare e dividere ai suoi eredi come quote del tutto.

Può osservarsi, infine, che l'istituzione di erede ex re certa rappresenti un'eccezione rispetto alla regola della qualificazione come legato della disposizione con cui siano assegnati uno più beni determinati. Ne consegue che, in caso di dubbio, deve propendersi per l'interpretazione della clausola attributiva di beni determinati in termini di legato (App. Genova, Sez. II, sent., 16 aprile 2021, n. 440; App. Torino, Sez. II, sent., 24 febbraio 2021; Trib. Genova, 19 maggio 2016, n.1809).

In ottemperanza a tali principi la Corte di Cassazione ha, dunque, ritenuto che la disposizione testamentaria di attribuzione dell'usufrutto generale sui beni (mobili e immobili) costituisce istituzione di erede e non di legato (Cass. civ., sez. II, 24 febbraio 2009, n. 4435; Cass. civ., sez. II, 12 settembre 2002, n. 13310) e che l'institutio ex re certa configura, ai sensi dell'art. 588 c.c., una successione a titolo universale nel patrimonio del de cuius qualora il testatore, nell'attribuire determinati beni, abbia fatto riferimento alla quota di legittima spettante all'istituito, avendo in tal modo inteso considerare i beni come una frazione rappresentativa dell'intero patrimonio ereditario (Cass. civ., sez. II, 18 gennaio 2007, n. 1066).

Interpretazione del testamento

Poiché difettano norme specifiche per l'interpretazione del testamento, in linea di principio si ritengono applicabili le regole d'ermeneutica dettate dal codice civile in tema di contratti, con la sola eccezione di quelle incompatibili con la natura di atto unilaterale non recettizio del negozio mortis causa.

Occorre precisare che l'interpretazione del testamento è caratterizzata, rispetto a quella contrattuale, da una più penetrante ricerca, al di là della dichiarazione, della volontà del testatore, la quale, alla stregua dell'art. 1362 c.c., va individuata con riferimento ad elementi intrinseci alla scheda testamentaria sulla base dell'esame globale della scheda stessa e non di ciascuna singola disposizione ed, in via sussidiaria, id est ove dal testo dell'atto non emergano con certezza l'effettiva intenzione del de cuius e la portata della disposizione, con il ricorso ad elementi estrinseci al testamento, se pur sempre riferibili al testatore, quali la personalità, la mentalità, la cultura, la condizione sociale, l'ambiente di vita, i rapporti pregressi con i soggetti menzionati nella scheda, ecc. (Cass. civ., sez. II, 28 luglio 2015, n. 15931; Cass. civ., sez. II, 20 dicembre2011, n. 27773).

In altri termini, il riferimento ad elementi esterni è ammesso solo ogniqualvolta dal tenore testuale dell'atto non emerga con certezza la volontà del testatore, diversamente dovendosi escludere importanza a tali dati (Cass. civ., sez. II, 16 aprile 2013, n. 9180).

Nell'atto di ultima volontà può dunque dirsi assolutamente prevalente l'interpretazione soggettiva anziché quella oggettiva.

Le espressioni dubbie si chiariscono con la ricerca di qualsiasi elemento desunto anche da altri atti o scritti del de cuius.

Si conferisce risalto alle intenzioni del testatore anche mediante una cospicua opera di integrazione.

Ne deriva che il giudice di merito può attribuire alle parole usate dal testatore un significato diverso da quello tecnico e letterale, quando si manifesti evidente, nella valutazione complessiva dell'atto, che esse siano state adoperate in senso differente, purché non contrastante ed antitetico, e si prestino ad esprimere, in modo più adeguato e coerente, la reale intenzione del de cuius (Cass. civ., sez. II, 30 maggio 2014, n. 12242).

Parimenti applicabile è l'art. 1363 c.c., che nell'ambito testamentario assumerebbe il significato di permettere l'apprezzamento sistematico del complesso delle disposizioni.

Circa, invece, l'art. 1367 c.c., la giurisprudenza ha affermato che il principio di conservazione del negozio impone al giudice di interpretare il testamento nel senso in cui esso possa avere qualche effetto piuttosto che nel senso in cui non ne avrebbe alcuno (c.d. favor testamenti) (Cass. civ., sez. II, 14 ottobre 2013, n. 23278; Cass n. 207/1985).

Al contrario, l'art. 1366 c.c. non può applicarsi all'interpretazione del testamento, in quanto esso ha per presupposto il principio della tutela dell'affidamento del destinatario della dichiarazione, principio che non opera con riferimento agli atti di ultima volontà.

Analogamente non si ritengono applicabili gli artt. 1368 e 1369 c.c. (siccome norme dirette a tutelare l'affidamento altrui), né l'art. 1370 c.c. (poiché presuppone uno stipulante), e l'art. 1371 c.c. (considerato che la disposizione testamentaria non è volta a comporre un conflitto di interessi, bensì a creare un rapporto successorio tra defunto e aventi causa) (Cass. civ., sez. II, 27 marzo 2002, n. 4373).

La diseredazione

La diseredazione consiste in quella disposizione testamentaria con la quale il de cuius dichiara di escludere un determinato soggetto dalla propria successione.

In merito alla validità di siffatta clausola è sorto un ampio dibattito in dottrina ed in giurisprudenza.

In tempi meno recenti si è, infatti, sostenuto che, in applicazione dell'art. 587, comma 1, c.c., il testatore potesse validamente escludere dall'eredità, in modo implicito o esplicito, un erede legittimo, purché non legittimario, a condizione, però, che la scheda testamentaria contenesse anche disposizioni positive e cioè rivolte ad attribuire beni ereditari ad altri soggetti, nelle forme dell'istituzione di erede o del legato. Si è pertanto ritenuto nullo il testamento con il quale, senza altre disposizioni, si è escluso il detto erede dalla successione diseredandolo (Cass. n. 1458/1967).

Successivamente la Corte di Cassazione ha inteso riconoscere l'ammissibilità di una volontà di diseredazione ove in essa si ravvisasse un'implicita istituzione di tutti gli altri successibili non diseredati, volontà che non si presume ma va provata: in tal caso è ammessa la clausola di diseredazione solo se fondata sull'equivalenza tra l'esclusione e l'istituzione implicita di altri (Cass. civ., sez. II, 18 giugno 1994, n. 5895; Cass. civ., sez. II, 23 novembre 1982, n. 6339).

Chiamata di recente a pronunciarsi sulla stessa questione, la Suprema Corte ha mutato il precedente indirizzo ed ha ritenuto valida la clausola del testamento «con la quale il testatore manifesti la volontà destitutiva - che può includersi nel “disporre”, di cui all'art. 587, comma 1, c.c. - diretta ad escludere dalla propria successione legittima alcuni dei successibili ed a restringerla così ai non diseredati, costituendo detta clausola di diseredazione espressione di un regolamento di rapporti patrimoniali, rientrante nel contenuto tipico dell'atto di ultima volontà e volta ad indirizzare la concreta destinazione post mortem delle proprie sostanze, senza che per diseredare sia, quindi, necessario procedere ad una positiva attribuzione di bene, né occorra prova di un'implicita istituzione» (Cass. civ., sez. II, 25 maggio 2012, n. 8352).

A tale considerazione la Corte è giunta offrendo una lettura degli artt. 587 e 588 c.c. differente rispetto a quella delle pronunce precedenti (App. Catania, 28 maggio 2003; Trib. Reggio Emilia, 27 settembre 2000; Trib. Catania, 28 marzo 2000; App. Cagliari-Sassari, 12 gennaio 1996).

La prima delle predette norme, definendo il testamento come atto di disposizione delle proprie sostanze, sottolinea sì la necessità che la disposizione testamentaria abbia contenuto patrimoniale, ma non presuppone che il testamento, per essere tale, debba necessariamente avere funzione attributiva.

Inoltre, le forme di disposizione a titolo di eredità o di legato, di cui all'art. 588 c.c., sarebbero da considerare come mere esemplificazioni di disposizioni idonee a formare oggetto dell'atto testamentario, e non come le uniche forme tipiche di disposizioni che possono essere ivi contenute.

In sostanza, la clausola di diseredazione integra, secondo il giudice di legittimità, un atto dispositivo delle sostanze del testatore, costituendo espressione di un regolamento di rapporti patrimoniali, che può includersi nel contenuto tipico del testamento: il testatore, sottraendo dal quadro dei successibili ex lege il diseredato e restringendo la successione legittima ai non diseredati, indirizza la concreta destinazione post mortem del proprio patrimonio. Il termine “disporre”, di cui all'art. 587, comma 1, c.c., andrebbe pertanto identificato con il termine “regolare” e può includere non solo una volontà attributiva e una volontà istitutiva, ma anche una volontà ablativa e, più esattamente, destituiva, purché rispettosa dei diritti dei legittimari.

La capacità di disporre per testamento

Secondo autorevole dottrina (P. Rescigno, voce Capacità di agire, in Noviss. Dig. It.), la capacità di disporre per testamento costituisce una specie della capacità negoziale ed importa, in quanto tale, l'attitudine del soggetto ad effettuare da sé, senza essere sostituito ed assistito, atti di diminuzione del proprio patrimonio.

Norma di riferimento è l'art. 591, commi 1 e 2, c.c., secondo cui «possono disporre per testamento tutti coloro che non sono dichiarati incapaci dalla legge» (comma 1).

Il comma 2 contempla, invece, gli incapaci di testare.

Questi ultimi vengono individuati in:

1) coloro che non hanno compiuto la maggiore età;

2) interdetti per infermità di mente;

3) coloro che, sebbene non interdetti, si provi essere stati, per qualsiasi causa, anche transitoria, incapaci di intendere e volere nel momento in cui fecero testamento.

Ne discende che ai fini della capacità di disporre per testamento il soggetto deve possedere pienamente la capacità naturale o capacità di intendere e di volere.

Questa è esclusa da infermità o altre cause, tra cui gli stati di ubriachezza accidentale o volontaria, il delirio, purché vi sia una ripercussione negativa sul processo intellettivo e volitivo analoga a quelle tali da legittimare, qualora siano abituali, la pronuncia di interdizione.

Non determinano invece incapacità naturale gli stati emotivi e passionali, la lieve alterazione delle facoltà mentali causata da malattia o vecchiaia, le imperfezioni fisiche, salvo che incidano sulle facoltà mentali o che da esse sia derivata una infermità di mente.

Si può dunque affermare, secondo il costante insegnamento della Suprema Corte, che l'incapacità naturale del testatore postula l'esistenza non già di una semplice anomalia o alterazione delle facoltà psichiche ed intellettive del de cuius, bensì la prova che, a cagione di una infermità transitoria o permanente, ovvero di altra causa perturbatrice, il soggetto sia stato privo in modo assoluto, al momento della redazione dell'atto di ultima volontà, della coscienza dei propri atti o della capacità di autodeterminarsi (Cass. civ., sez. II, ord., 3 dicembre 2021, n. 38357; Cass. civ., sez. II, 23 dicembre 2014, n. 27351; Cass. civ., sez. VI, 11 gennaio 2012, n. 166; Cass. civ., sez. II, 15 aprile 2010, n. 9081).

Come previsto dall'art. 591, comma 3, c.c., nei casi di incapacità il testamento può essere impugnato da chiunque vi abbia interesse nel termine di cinque anni dal giorno in cui è stata data esecuzione alle disposizioni testamentarie.

Sul punto la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto che il chiamato all'eredità sia legittimato ad impugnare, ex art. 591 c.c., il testamento che lo ha nominato quando il suo annullamento gli consenta di accedere, anche solo per motivi di interesse morale, ad una diversa delazione, legittima o testamentaria, la cui maggiore o minore convenienza non è sindacabile dal giudice (Cass. civ., sez. II, ord., 13 luglio 2017, n. 17392).

Poiché lo stato di capacità costituisce la regola e quello di incapacità l'eccezione, spetta a chi impugna il testamento provare la dedotta incapacità, fornendo al giudice gli elementi di fatto necessari a dimostrarla, salvo che il testatore non risulti affetto da incapacità totale e permanente, nel qual caso grava, invece, su chi voglia avvalersene provarne la corrispondente redazione in un momento di lucido intervallo (Cass. civ., sez. II, 23 dicembre 2014, n. 27351).

La prova dell'incapacità del testatore può essere raggiunta con qualunque mezzo consentito dal nostro ordinamento giuridico ed anche mediante presunzioni gravi e concordanti (Cass. n. 736/1952).

L'azione di annullamento, di natura costitutiva, si prescrive entro cinque anni, a far tempo dal giorno in cui sia stata data esecuzione alle disposizioni testamentarie. La sola circostanza che l'erede abbia accettato l'eredità non è dunque sufficiente a far decorrere il termine quinquennale per la proposizione dell'azione, giacché è necessario che venga data esecuzione alle disposizioni testamentarie (Cass. civ., sez. II, 20 agosto 2009, n. 18560).

A tal fine, per esecuzione del testamento, deve intendersi un'attività diretta alla concreta realizzazione della volontà del testatore, come la consegna o l'impossessamento dei beni ereditari o la proposizione delle azioni giudiziarie occorrenti a tale scopo; onde, non valgono a far decorrere il detto termine, né la pubblicazione del testamento olografo, che è atto anteriore e soltanto preparatorio alla sua effettiva esecuzione, né la presentazione della denuncia di successione ed il pagamento dell'imposta, che costituiscono atti dovuti, volti ad evitare conseguenze sfavorevoli alla massa ereditaria e neppure, di per sé, l'istanza di sequestro giudiziario di beni ereditari, con cui si richiede un provvedimento tipicamente cautelare, diretto alla mera custodia o gestione temporanea e non attributivo o dichiarativo della proprietà né del possesso dei beni stessi (per ottenere i quali è necessaria la citazione per la convalida e per il merito) (Cass. civ., sez. II, 30 gennaio 1987, n. 892; cfr. Cass. civ., sez. II,sent., 20 febbraio 2020, n. 4449).

Ricorre, infine, rispetto all'impugnazione del testamento per incapacità naturale del de cuius, un'ipotesi di litisconsorzio necessario (art. 102 c.p.c.), in quanto l'azione è rivolta all'affermazione dell'apertura di un tipo di successione piuttosto che un altro, che rimarrebbe inutiliter data ove non pronunciata nei confronti di tutti i soggetti del rapporto successorio (Cass. civ., sez. II, 21 maggio 1980, n. 3339).

Più precisamente, nelle cause aventi ad oggetto l'impugnazione del testamento sono parti necessarie, oltre le persone istituite eredi, anche coloro che succederebbero ex lege, ove l'atto di ultima volontà fosse riconosciuto invalido, tenuto conto della unitarietà inscindibile del rapporto dedotto in giudizio, che non potrebbe rimanere contemporaneamente regolato per alcuni dal testamento e per altri dalla legge (Cass. civ., sez. VI - 2, ord., 17 dicembre 2019, n. 33302; Cass. civ. sez. II, sent., 27 aprile 2005, n. 8728).

A diversa conclusione deve pervenirsi invece nel caso di azione diretta a far valere non l'invalidità del testamento nel suo complesso, ma l'invalidità di singole disposizioni. In questo caso il litisconsorzio necessario sussiste solo tra gli eredi ed i beneficiari della disposizione impugnata e non pure nei confronti di coloro in favore dei quali il testamento contenga altre disposizioni che non siano state impugnate (Cass. n. 1462/1965).

Casistica

Disposizioni di ultima volontà

Perché un atto costituisca manifestazione di ultima volontà, riconducibile ai negozi mortis causa, non è necessario che il dichiarante faccia espresso riferimento alla sua morte ed all'intento di disporre dei suoi beni dopo la sua scomparsa, essendo sufficiente che lo scritto sia espressione di una volontà definitiva dell'autore, compiutamente e incondizionatamente manifestata allo scopo di disporre attualmente dei suoi beni, in tutto o in parte, per il tempo successivo alla propria morte (nella specie, in applicazione del principio, la Suprema Corte ha respinto il ricorso avverso la decisione di merito che aveva qualificato come testamento olografo un biglietto autografo del de cuius recante la clausola “nessuno faccia osservazione a questo biglietto essendo scritto di sua propria mano”) (Cass. civ., sez. II, 8 gennaio 2014, n. 150).

Disposizioni di carattere patrimoniale relative a beni futuri

Ai fini dell'attuazione delle disposizioni testamentarie, occorre far riferimento alla situazione patrimoniale esistente al momento dell'apertura della successione, ben potendo il testatore disporre anche di beni che non gli appartengono al momento della redazione del testamento ma rientranti nel suo patrimonio al momento della sua morte (Cass. civ., sez. II, 11 marzo 2008, n. 6449).

Interpretazione del testamento

In tema di interpretazione di un testamento, la volontà del testatore, alla stregua del principio generale di ermeneutica di cui all'art. 1362 c.c., va individuata sulla base dell'esame globale della scheda testamentaria e non di ciascuna singola disposizione, sicché il giudice di merito può attribuire alle parole usate dal testatore un significato diverso da quello tecnico e letterale, purché non contrastante e antitetico (nella specie, la Suprema Corte ha ritenuto corretta la motivazione del giudice di merito secondo cui l'espressione “somma”, utilizzata dal testatore, dovesse intendersi nel significato proprio di “somma di denaro”, e la generica dichiarazione di revoca espressa delle precedenti disposizioni dovesse ritenersi circoscritta alla sola frazione mobiliare del patrimonio del de cuius) (Cass. civ., sez. II, 28 luglio 2015, n. 15931).

Perché un atto costituisca disposizione testamentaria, è necessario che lo scritto contenga la manifestazione di una volontà definitiva dell'autore, compiutamente e incondizionatamente formata, diretta allo scopo di disporre attualmente dei suoi beni, in tutto o in parte, per il tempo successivo alla propria morte; pertanto, ai fini della configurabilità di una scrittura privata come testamento non è sufficiente il riscontro dei requisiti di forma, occorrendo, altresì, l'accertamento dell'oggettiva riconoscibilità nella scrittura della volontà attuale del suo autore di compiere non già un mero progetto, ma un atto di disposizione del proprio patrimonio per il tempo successivo al suo decesso. Siffatto accertamento - che, ove le espressioni contenute nel documento risultino ambigue o di valore non certo, presuppone la necessaria indagine su ogni circostanza, anche estrinseca, idonea a chiarire la portata, le ragioni e le finalità perseguite con la disposizione - involge un apprezzamento di fatto spettante al giudice del merito che, se adeguatamente motivato, è incensurabile in sede di legittimità. (Dichiara inammissibile, App. Napoli, 17 ottobre 2019) (Cass. civ., sez. VI - 2, ord., 24 settembre 2021, n. 25936)

Institutio ex re certa: beni sopravvenuti o ignorati dal testatore

In tema di delazione dell'eredità, non ha luogo la successione legittima (nella specie, per la somma risultante da un credito su un conto corrente intestato al de cuius, non oggetto di legato) agli effetti dell'art. 457, comma 2, c.c., in presenza di disposizione testamentaria a titolo universale, sia pur in forma di istituzione ex re certa, tenuto conto della forza espansiva della stessa per i beni ignorati dal testatore o sopravvenuti (Cass. civ., sez. II, 11 giugno 2015, n. 12158).

Interdizione, amministrazione e incapacità a testare

L'incapacità legale derivante dalla sentenza di interdizione decorre soltanto dal giorno della sua pubblicazione (art. 421 c.c.), con la conseguenza dell'operatività, fino a tale momento, della generale presunzione di normale capacità dell'interdicendo e dell'irretroattività degli effetti della suddetta decisione (nella specie, in applicazione dell'enunciato principio, la Suprema Corte ha confermato la sentenza di merito la quale, considerando operante la menzionata presunzione, aveva stabilito che l'incapacità naturale della testatrice e donante, in relazione agli atti di formazione pregressa, avrebbe dovuto essere provata dall'interessato in modo univoco e rigoroso, e con riguardo ad ogni singolo atto specificamente impugnato) (Cass. n. 7477/2011).

In tema di amministrazione di sostegno, il giudice tutelare può prevedere d'ufficio, ex art. 405, comma 5, nn. 3 e 4, c.c., e art. 407, comma 4, c.c., sia con il provvedimento di nomina dell'amministratore, sia mediante successive modifiche, la limitazione della capacità di testare o donare del beneficiario, ove le sue condizioni psico-fisiche non gli consentano di esprimere una libera e consapevole volontà, essendo tuttavia esclusa la possibilità di estendere in via analogica l'incapacità di testare, prevista per l'interdetto dall'art. 591, comma 2, c.c., al beneficiario dell'amministrazione di sostegno (Cass. civ., sez. II, ord., 28 agosto 2020, n. 18042).

Decorso del termine di prescrizione quinquennale dell'azione di annullamento del testamento per incapacità del testatore

In tema di successioni, che, ai fini del decorso del termine di prescrizione quinquennale dell'azione di annullamento del testamento olografo per incapacità del testatore, il "dies a quo" – che si identifica con il "giorno in cui è stata data esecuzione alle disposizioni testamentarie" (art. 591, comma 3, c.c.) – va individuato in un'attività diretta alla concreta realizzazione della volontà del testatore - come la consegna o l'impossessamento dei beni ereditati o la proposizione delle azioni giudiziarie occorrenti a tale scopo. Ne deriva che la pubblicazione del testamento olografo, che è atto anteriore e soltanto preparatorio alla sua effettiva esecuzione, ovvero la presentazione della denuncia di successione ed il pagamento dell'imposta, che costituiscono atti dovuti, volti ad evitare conseguenze sfavorevoli alla massa ereditaria, non costituiscono azioni di esecuzione del testamento e non sono fatti o atti idonei a far decorrere il detto termine quinquennale. Conseguentemente, integra gli estremi di una condotta di esecuzione, sia pure parziale, delle disposizioni testamentarie, ai sensi del citato art. 591, comma 3, c.c., l'attività dell'erede che percepisca il canone di locazione di un immobile commerciale facente parte del compendio ereditario, anche quando tale attività di impossessamento dei frutti dell'immobile costituisca prosecuzione di precedente posta in essere quando il testatore era ancora in vita (Cass. civ., sez. II, sent., 20 febbraio 2020, n. 4449).

Revocazione del testamento

La revocazione espressa del testamento può farsi, ai sensi dell'art. 680 c.c., oltre che con un atto ricevuto da notaio in presenza di due testimoni, con un nuovo testamento, mediante una dichiarazione di volontà unilaterale e non recettizia, diretta a togliere, in tutto o in parte, efficacia giuridica a precedenti disposizioni testamentarie dello stesso revocante; ne consegue che, a tal fine, non può essere considerata come una formula di stile l'espressione “revoco ogni mia precedente disposizione testamentaria” contenuta nel testamento posteriore (Cass. civ., sez. II, 9 ottobre 2013, n. 22983).

Ai sensi dell'art. 681 c.c., la revoca del testamento prevede che la revocazione totale o parziale di un testamento può essere a sua volta revocata, ma sempre con le forme previste dall'art. 680 c.c., ovvero con un nuovo testamento o con un atto ricevuto da notaio (Cass. civ., sez. II, 15 giugno 2020, n. 11472).

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