Giuseppe Spadaro
Luca Dell'Osta
21 Maggio 2018

Dal 6 aprile 2018, data di entrata in vigore del d.lgs. 1 marzo 2018, n. 21, che ha introdotto nel codice penale la cd. riserva di codice, le sanzioni penali per l'aborto effettuato al di fuori della cornice legale descritta dalla l. n. 194/1978 sono contenute negli artt. 593-bis e 593-ter c.p..
Inquadramento

Non è possibile trattare il fenomeno dell'aborto limitandosi a richiamare concetti di natura esclusivamente giuridica e prescindendo da un seppur solo accennato excursus storico che ripercorra le tappe evolutive delle riflessioni in materia. Inquadrare l'aborto significa infatti parlare di diritto e, a mero titolo di esempio, di medicina e di morale, oltre che delle grandi divisioni, evidenziatesi in particolare dalla metà degli anni ‘70 in poi, che hanno avuto come protagonisti certamente non solo gli operatori della giustizia.

Muoversi in tale panorama non è semplice. Pertanto, sembra opportuno iniziare con una definizione, che sia la più neutra possibile: può definirsi aborto qualsiasi interruzione di gravidanza, non importa se autoindotta o eteroindotta, la cui conseguenza (e a volte, come si avrà modo di specificare, la cui unica finalità) sia la morte del feto, prima che quest'ultimo abbia raggiunto uno stadio di sviluppo tale da poter sopravvivere separato della gestante. Va pertanto escluso il caso in cui il feto, a seguito dell'interruzione della gravidanza e anche grazie all'intervento dei sanitari o per il tramite di idonea strumentazione medica, resti in vita.

Comunque considerato, nell'ordinamento italiano l'aborto era un reato previsto e punito dagli artt. 545 e ss. c.p., prima attenzionati dalla Corte costituzionale e poi abrogati dalla l. 22 maggio 1978, n. 194, che è oggi la norma di riferimento e che ha introdotto, a determinate condizioni, la possibilità per la donna di abortire.

Dal 6 aprile 2018, data di entrata in vigore del d.lgs. 1 marzo 2018, n. 21, che ha introdotto nel codice penale la cd. riserva di codice, le sanzioni penali per l'aborto effettuato al di fuori della cornice legale descritta dalla l. n. 194/1978 sono contenute negli artt. 593-bis e 593-ter c.p..

Finalità dell'aborto

Senza voler indulgere a obiettivi classificatori di dubbia utilità, anticipando il contenuto della l. n. 194/1978 (per la cui analisi si rimanda infra, al par. “La legge n. 194/1978”) è comunque possibile circoscrivere almeno quattro tipi di aborto, utilizzando come parametro l'obiettivo per cui esso viene praticato. Si faccia riferimento allo schema che segue:

Aborto terapeutico

Ricomprende tutti i casi in cui l'interruzione di gravidanza avviene per salvaguardare la salute fisica o psichica della donna. Nel nostro ordinamento è la fattispecie prevista, disciplinata e autorizzata (alle condizioni di cui si dirà oltre) dagli artt. 4 e 6 l. n. 194/1978

Aborto sociale

Si pone come obiettivo quello di impedire la nascita di un bambino che, a causa delle condizioni sociali della donna incinta, non potrebbe essere cresciuto

Aborto etico

Si pone come obiettivo quello di impedire la nascita di un bambino che sia stato concepito a seguito di stupro o di incesto

Aborto eugenetico

Si pone come obiettivo quello di impedire la nascita di un bambino che presenti anomalie o malformazioni

Le finalità sopra indicate non esauriscono certo le motivazioni che possono spingere una donna ad abortire. Si pensi, ad esempio, al caso della Cina, Stato nel quale fino a non molto tempo fa ogni nucleo familiare poteva legittimamente avere un unico figlio: diffusissimi erano i casi di aborto nel caso in cui l'attività diagnostica avesse permesso di stabilire che il sesso del feto fosse quello femminile. Ancora, non è stato inusuale l'utilizzo dell'aborto come strumento demografico, utilizzato per il controllo delle nascite.

L'aborto come reato e la rivoluzione degli anni ‘70

Nell'antichità l'aborto non era reato. Non lo era nell'antica Grecia, e non lo era a Roma, almeno per tutto il periodo classico: il pater familias poteva esercitare, nei confronti dei membri di tutta la famiglia, il noto ius vitae ac necis (diritto di vita e di morte), e se di “reato” si può parlare è perché la donna, abortendo senza l'autorizzazione del pater e quindi disponendo in prima persona del “frutto delle proprie viscere”, ossia del concepito, impediva la prosecuzione della stirpe (non è infatti un caso che la disciplina dell'aborto, contenuta nel Codice Rocco e da esso espunta solamente nel 1978, a seguito dell'approvazione della l. n. 194/1978, era inquadrata nel Titolo X del Libro Secondo, intitolato «Dei delitti contro la integrità e la sanità della stirpe») (solo il d.lgs. n. 21/2018, a seguito dell'introduzione della riserva di codice nel nostro ordinamento, ha riportato nell'alveo del codice penale la disciplina penale dell'aborto, sotto la rubrica «Dei delitti contro la maternità»).

Con la diffusione del cristianesimo l'aborto diviene un fatto immorale, peccaminoso, pur non essendovi, anche qui, unità di definizioni: si discute infatti su come isolare, e su come inquadrare, i differenti momenti del concepimento dell'infusio animae.

Di tale influenza risente anche il legislatore penale del 1930, che intese punire con la reclusione da 7 a 12 anni chiunque avesse cagionato l'aborto di donna non consenziente (art. 545 c.p., ora abrogato), e con la reclusione da 2 a 5 anni chiunque avesse cagionato l'aborto di donna consenziente, oltre alla donna che avesse consentito all'aborto (art. 546 c.p., ora abrogato). La donna che si fosse procurata l'aborto era invece punita con la reclusione da uno a 4 anni. L'unica eccezione normativamente prevista era quella dell'art. 54 c.p. (scriminante del cd. “stato di necessità”), per il quale «non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé od altri dal pericolo attuale di un grave danno alla persona, pericolo da lui non volontariamente causato, né altrimenti evitabile, sempre che il fatto sia proporzionale al pericolo». Oltre alla “proporzionalità”, per la quale era da escludersi l'applicabilità della scriminante nel caso in cui l'aborto fosse stato compiuto per salvaguardare non già la vita ma solo la salute della donna incinta, era quindi ulteriormente richiesto il requisito del pericolo attuale e non altrimenti evitabile di un grave danno alla persona.

È nel corso degli anni ‘60, e in particolare nei Paesi anglosassoni, che nascono gruppi per la liberalizzazione dell'aborto: si arriva così, nel 1967, all'approvazione in Inghilterra dell'Abortion Act (il quale prevedeva la liceità dell'aborto a determinate condizioni) e, in Colorado e California, alla possibilità per la donna di presentare domanda per abortire.

Nel 1973 la celeberrima sentenza Roe vs. Wade della Corte Suprema degli Stati Uniti dichiara che la donna può scegliere se abortire o meno, riconducendo tale libertà nell'alveo del XIV emendamento.

La sentenza costituzionale n. 27/1975

È proprio in tale contesto giuridico e sociale che interviene la Corte costituzionale italiana (C. cost. 18 febbraio 1975, n. 27) (poco dopo una simile pronuncia del Conseil Constitutionnel francese, datata 15 gennaio 1975, e poco prima di una simile pronuncia del Tribunale costituzionale della Repubblica Federale Tedesca, datata 25 febbraio 1975). Investita della questione di costituzionalità dell'art. 546 c.p. nella parte in cui puniva chi cagionava l'aborto di donna consenziente anche qualora fosse stata accertata la pericolosità della gravidanza per il benessere fisico o per l'equilibrio psichico della gestante, senza che ricorressero per l'appunto gli estremi dello stato di necessità di cui all'art. 54 c.p., la Corte stabilisce alcuni punti fermi. In primo luogo, dichiara che la tutela del concepito ha rilievo costituzionale (di tal ché risulta coerente il fatto che il legislatore abbia previsto sanzioni penali a carico di chi compie l'aborto); ritiene tuttavia che l'interesse costituzionalmente protetto relativo al concepito può venire in collisione con altri beni che godono pur essi di tutela costituzionale: di conseguenza, la legge non può dare alla tutela del concepito una prevalenza totale ed assoluta, negando adeguata protezione agli altri beni, tra i quali la condizione della donna gestante. In fondo – continua la Corte –non esiste equivalenza fra il diritto non solo alla vita ma anche alla salute proprio di chi è già persona, come la madre, e la salvaguardia dell'embrione che persona deve ancora diventare.

La pronuncia in esame può rientrare nel novero delle cosiddette “sentenze additive di principio”: per la Corte costituzionale, infatti, deve essere il legislatore a intervenire, predisponendo le necessarie cautele affinché l'aborto non venga procurato qualora non siano stati effettuati accertamenti sulla realtà e sulla gravità del danno o pericolo che potrebbe derivare alla madre dal proseguire della gestazione. Per questi motivi – continua la Corte – la liceità dell'aborto deve essere ancorata ad una previa valutazione della sussistenza delle condizioni atte a giustificarla.

La legge n. 194/1978

Il legislatore non è sordo alle esortazioni della Corte costituzionale; pur in un clima fortemente conflittuale, viene approvata la l. n. 194/1978, che recepisce le indicazioni fornite dalla Consulta e depenalizza l'aborto (depenalizzazione che può essere letta come una terza via tra la repressione penale tout court e la completa liberalizzazione). Il legislatore tenta infatti di positivizzare un “giusto mezzo” tra le due possibili strade, recependo le indicazioni della Corte, stabilendo il diritto alla procreazione cosciente e responsabile (art. 1), riconoscendo i valori sociali della maternità e tutelando la vita umana dal suo inizio.

L'art. 4 prevede che l'aborto sia considerato lecito se effettuato entro i primi 90 giorni di gestazione, a condizione che la donna accusi circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica, in relazione o allo stato di salute (aborto cd. terapeutico), o alle condizioni economiche, o sociali o familiari (aborto cd. sociale), o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento (aborto cd. etico), o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito (aborto cd. eugenetico). Per l'interruzione di gravidanza, la donna può rivolgersi a un consultorio pubblico, a una struttura sociosanitaria a ciò abilitata, o a un medico di sua fiducia.

Compiti dei primi due enti, ai sensi dell'art. 5, sono:

  • garantire i necessari accertamenti medici;
  • esaminare le possibili soluzioni ai problemi addotti dalla gestante;
  • aiutare la donna a rimuovere le cause che porterebbero all'interruzione di gravidanza;
  • mettere in grado la donna di far valere i suoi diritti di lavoratrice e di madre;
  • promuovere ogni intervento atto a sostenere la donna, offrendole tutti gli aiuti necessari sia durante la gravidanza sia dopo il parto.

Nel caso in cui la donna si rivolga a un medico, questo deve:

  • compiere i necessari accertamenti medici;
  • valutare le circostanze che hanno determinato la donna a chiedere l'interruzione di gravidanza;
  • informare la donna sui diritti a lei spettanti.

Nel caso in cui il consultorio, la struttura sociosanitaria o il medico di fiducia riscontrino l'esistenza di condizioni tali da rendere urgente l'intervento, rilasciano un certificato attestante l'urgenza, con il quale la donna può presentarsi in una delle sedi autorizzate per praticare l'aborto. Qualora non venga riscontrata l'urgenza, alla donna viene consegnato un documento, da lei controfirmato, con il quale si attestano lo stato di gravidanza e l'avvenuta richiesta di interruzione di gravidanza. Dopo un periodo di “decantazione”, se così può essere definito, di 7 giorni, la donna può presentarsi presso una delle sedi autorizzate per interrompere la gravidanza.

In maniera molto più stringente, l'art. 6 disciplina i casi in cui è invece possibile abortire dopo i primi 90 giorni. Tali casi sono ricondotti all'ipotesi in cui la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna (e non più, come richiesto dall'art. 4, un «serio pericolo per la salute fisica o psichica») e all'ipotesi in cui siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro (e non più, come richiesto dall'art. 4, relativi a «previsioni di anomalie o malformazioni del concepito»), che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna.

Qualora sussista la possibilità di una vita autonoma del feto, l'unico caso in cui è ammessa l'interruzione della gravidanza è quello previsto dalla prima parte dell'art. 6 (quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna); in tali ipotesi, il medico è comunque tenuto ad adottare ogni misura idonea a salvaguardare la vita del feto (si evidenzia che questa previsione non è tecnicamente inquadrabile nella definizione di “aborto”, come si è specificato sopra).

Mentre l'art. 9 disciplina l'obiezione di coscienza, l'art. 12 accentua il carattere individualista che il legislatore ha voluto dare alla disciplina dell'aborto, prevedendo che la richiesta di interruzione della gravidanza sia fatta, personalmente, dalla donna incinta. Nel caso in cui la donna sia minorenne, per l'interruzione di gravidanza è richiesto l'assenso di coloro che esercitano la responsabilità genitoriale o la tutela. È il giudice tutelare che può autorizzare l'aborto qualora non pervenga il consenso degli esercenti la responsabilità o del tutore, o nel caso in cui vi siano seri motivi che impediscano o sconsiglino la consultazione di tali figure. Tuttavia, il medico può sempre effettuare l'aborto qualora accerti l'urgenza dell'intervento a causa di un grave pericolo per la salute della minorenne.

La Corte costituzionale, sia direttamente (giudizi incidentali) sia indirettamente (in tema di ammissibilità di referendum), si è pronunciata su tale complessiva disciplina, senza mai rilevare profili di incostituzionalità. In particolare, con la sentenza n. 35/1997 (C. cost. n. 35/1997) (nel giudizio di ammissibilità di un referendum volto ad abrogare alcune disposizioni della l. n. 194/1978, e avente come obiettivo ultimo quello di liberalizzare completamente l'aborto), dopo aver richiamato la propria precedente giurisprudenza per la quale non è possibile abrogare – anche per il tramite di un referendum – le disposizioni legislative ordinarie a contenuto costituzionalmente vincolato (ossia le leggi ordinarie la cui eliminazione determinerebbe la soppressione di una tutela minima per situazioni che tale tutela esigono secondo la Costituzione), la Corte sostiene che il legislatore del 1978 abbia dato piena attuazione alle indicazioni fornite dalla stessa Consulta con la sentenza n. 27/1975, bilanciando diversi diritti costituzionalmente garantiti, tra i quali anche il diritto del concepito alla vita. L'abrogazione delle norme della l. n. 194/1978, liberalizzando l'interruzione volontaria della gravidanza nei primi 90 giorni, ricondurrebbe tale vicenda ad un regime di totale libera disponibilità da parte della singola gestante, anche in ordine alla sorte degli interessi costituzionalmente rilevanti in essa coinvolti. Ora, ciò è precluso sia al legislatore sia al corpo elettorale (per il tramite della richiesta abrogativa con referendum).

Le sanzioni penali oggi in vigore

In tale contesto, più volte salvato dalla Consulta il nucleo della l. n. 194/1978, non resta che analizzare le sanzioni penali ivi previste.

L'articolata disciplina è riassumibile in questi termini. L'art. 17 l. n. 194/1978, abrogato dal d.lgs. n. 21/2018 e riproposto identico nel nuovo art. 593-bis c.p. in vigore dal 6 aprile 2018, punisce, con una pena da 3 mesi a 2 anni, colui che cagiona a una donna per colpa l'interruzione della gravidanza; il successivo art. 18, anch'esso abrogato dal d.lgs. n. 21/2018 e riproposto identico nel nuovo art. 593-ter c.p. in vigore dal 6 aprile 2018, punisce, con la reclusione da 4 a 8 anni, chiunque cagiona l'aborto alla donna non consenziente. Pene ben più gravi (reclusione da 8 a 16 anni e reclusione da 6 a 12 anni) sono previste se dal fatto doloso del terzo derivino, rispettivamente, la morte della donna o le sue lesioni gravissime.

Infine, l'art. 19 punisce chiunque cagioni l'interruzione volontaria di gravidanza senza l'osservanza delle modalità indicate dalla stessa l. n. 194/1978 con la reclusione sino a 3 anni; la donna, in questo caso, è punita solo con una sanzione amministrativa (da 5.000 a 10.000 euro secondo le recenti modifiche apportate dal d.lgs. n. 8/2016 in vigore dal 6 febbraio 2016). Se invece l'aborto avviene senza i prescritti accertamenti medici, chi lo cagiona è punito con la reclusione da uno a 4 anni, mentre la donna è punita con la reclusione fino a 6 mesi.

(Alcune) criticità della legge n. 194/1978

La spinta a una diversa legislazione in materia di aborto si concretizzò, alla fine degli anni ‘70, senza dubbio con l'intervento della Corte, ma le sue origini nascevano in seno ai movimenti femministi e progressisti (“il corpo è mio e me lo gestisco io”) e da una maggiore consapevolezza riguardo alla questione femminile. Com'è noto, infatti, benché prima del 1978 l'aborto fosse illegale, veniva comunque praticato, con rischi proporzionali alla classe sociale di appartenenza della donna: le possibilità andavano dal ferro da calza nella cantina, fino alla clinica all'estero; in mezzo vi erano un gran numero di medici e infermieri che praticavano l'aborto, a pagamento, ovviamente in clandestinità e nelle più svariate condizioni.

L'entrata in vigore della legge n. 194/1978, che è stata più volte “salvata” dalla Corte costituzionale e – forse proprio per questo – mai rimessa concretamente in discussione dal legislatore, se da una parte ha ovviato ad alcuni problemi, dall'altra ne ha innescati altri: svariate criticità sono emerse con dirompente evidenza nel corso degli anni.

È possibile evidenziarne almeno tre.

In primo luogo, nonostante l'art. 9 (che disciplina l'obiezione di coscienza) preveda che gli ospedali siano comunque tenuti ad assicurare l'espletamento e l'effettuazione degli interventi di interruzione di gravidanza, è noto che in molte zone d'Italia le altissime percentuali di medici obiettori non garantiscono alle donne l'esercizio dei diritti previsti dalla legge.

In secondo luogo, la legge non ha previsto un idoneo meccanismo per il controllo della valutazione circa i requisiti che devono sussistere affinché la donna possa interrompere la gravidanza tanto che, come ha sottolineato la più attenta dottrina, gli accertamenti medici previsti dagli artt. 4, 5, 6 e 7 l. n. 194/1978 si risolvono in una presa d'atto del medico della volontà abortiva della donna, vanificando pertanto gli effetti del meccanismo di bilanciamento degli interessi costituzionali in gioco auspicato dalla Corte costituzionale e tradotto in pratica dal legislatore (così Moscarini L. V., voce Aborto – Profili costituzionali e disciplina legislativa, in Enciclopedia giuridica, Treccani).

Infine, la legalizzazione dell'aborto ha portato con sé una maggiore accessibilità e quindi forse un maggiore ricorso a questa pratica, ma il controllo e l'assistenza psicologica nella fase “di riflessione” della donna sono ancora carenti.

Casistica

Per concludere, pare opportuno soffermarsi su pronunce della Corte di Cassazione che analizzano alcune tematiche connesse all'aborto, quali la responsabilità medica e i caratteri costitutivi della fattispecie penalmente perseguita.

Presupposti per l'aborto

Salvo il caso di grave pericolo di vita per la donna, dopo il novantesimo giorno di gravidanza la gestante può esercitare il diritto all'aborto solo in presenza, tra l'altro, di una condizione negativa, costituita dall'insussistenza di possibilità di vita autonoma per il feto. Con tale espressione deve intendersi quel grado di maturità del feto che gli consentirebbe, estratto dal grembo della madre, di mantenersi in vita e di completare il suo processo di formazione anche al di fuori dell'ambiente materno (Cass. civ., sez. III, 4 gennaio 2010, n. 13)

Diritto di “non nascere” e divieto di aborto eugenetico

L'ordinamento positivo tutela il concepito esclusivamente verso la nascita, e non anche verso la “non nascita”: devono quindi essere predisposti tutti gli istituti normativi e tutte le strutture di tutela, cura e assistenza della maternità idonei a garantire al concepito di nascere sano. In capo a quest'ultimo non è invece configurabile un “diritto a non nascere” o a “non nascere se non sano”. Il diritto di “non nascere” sarebbe infatti adespota (in quanto, ai sensi dell'art. 1 c.c., la capacità giuridica si acquista solamente al momento della nascita), sicché tale diritto non avrebbe alcun titolare fino al momento della nascita, in costanza della quale proprio esso risulterebbe peraltro non esistere più. Ipotizzare un diritto del concepito a “non nascere” significherebbe configurare una posizione giuridica con titolare solamente (e in via postuma) in caso di sua violazione, in difetto della quale essa risulterebbe pertanto sempre priva di titolare, rimanendone conseguentemente l'esercizio definitivamente precluso. Ne consegue che è da escludersi la configurabilità e l'ammissibilità nell'ordinamento del cd. aborto eugenetico, essendo per converso il diritto del concepito a nascere, pur se con malformazioni o patologie, ad essere propriamente – anche mediante sanzioni penali – tutelato dall'ordinamento.

Ne consegue ulteriormente che, verificatasi la nascita, non può dal minore essere fatto valere come proprio danno da inadempimento contrattuale l'essere egli affetto da malformazioni congenite (Cass. civ., sez. III, 29 luglio 2004, n. 14488)

Interruzione colposa di gravidanza e omicidio colposo

Il criterio distintivo tra tali reati deve individuarsi nell'inizio del travaglio e, dunque, nel raggiungimento dell'autonomia del feto (Cass. pen., sez. IV, 19 gennaio 2013, n. 7967)

Omicidio volontario di donna in gravidanza

L'omicidio volontario di donna in stato di gravidanza non assorbe il reato di procurato aborto, trovando applicazione in simile ipotesi la disposizione sul concorso formale di reati e non quella sul concorso apparente di norme (Cass. pen., sez. I, 31 marzo 2010, n. 24156)

Concorso di reati

I reati di cui agli artt. 18 e 19 l. n. 194/1978 (causazione volontaria dell'interruzione di gravidanza senza il consenso della donna e violazione dell'osservanza delle modalità prescritte dalla medesima legge) costituiscono ipotesi delittuose autonome e quindi possono, all'occorrenza, concorrere (Cass. pen., sez. feriale, 28 agosto 2008, n. 39051)

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