Patti prematrimonialiFonte: Cod. Civ. Articolo 143
26 Giugno 2015
Inquadramento
Il tema dei patti prematrimoniali è un terreno di sperimentazione giurisprudenziale e dottrinale, in assenza, allo stato, di riferimenti normativi specifici. L'espressione “patti prematrimoniali” viene genericamente utilizzata per tutte quelle intese di carattere preventivo della crisi coniugale, intendendosi come tali sia gli accordi stipulati prima della celebrazione delle nozze, oppure anche durante il matrimonio, con i quali le parti si preoccupano di (pre)stabilire le condizioni dell'eventuale crisi coniugale (c.d. “accordi in vista della separazione, del divorzio, dell'annullamento”), sia gli accordi stipulati in occasione della separazione personale consensuale, oppure tra la separazione e il divorzio (e, dunque, in un momento in cui è già esplosa la crisi coniugale), con i quali i coniugi intendono (pre)stabilire le condizioni del futuro (ma ormai probabile e prossimo) divorzio (c.d. “accordi tra separazione e divorzio”). Si tratta, in realtà, di una differenziazione che si giustifica soltanto dal punto di vista temporale, e cioè con riferimento al momento in cui il patto viene stipulato, in quanto i problemi da sempre sollevati circa la validità di tali accordi, dalla dottrina e dalla giurisprudenza, riguardano indistintamente l'una e l'altra tipologia di “accordi prematrimoniali”. Inquadramento normativo nel sistema italiano: convenzioni matrimoniali, convenzioni sulla vita matrimoniale, accordi a latere della separazione
Il sistema giuridico italiano non conosce l'istituto dei “patti prematrimoniali”. Esistono, tuttavia, dei “patti” con i quali i coniugi dispongono dell'assetto economico e patrimoniale della famiglia, sia in costanza di matrimonio, sia in occasione della separazione personale, ossia rispettivamente le convenzioni matrimoniali e i patti a latere della separazione, convenzioni che sono entrambe giuridicamente differenti dai patti in vista del divorzio. a) Le convenzioni matrimoniali (art. 162 c.c.) L'ordinamento italiano prevede un duplice livello di regime patrimoniale della famiglia: il regime patrimoniale c.d. primario, sancito dall'art. 143 comma 3 c.c., volto a regolare l'apporto contributivo di ciascun coniuge ai bisogni della famiglia, secondo un principio inderogabile di proporzionalità, e il regime patrimoniale c.d. secondario che, invece, è finalizzato a regolare la redistribuzione della ricchezza tra i coniugi. Nella determinazione del regime secondario, i coniugi dispongono di ampia autonomia. Infatti, accanto alla previsione del regime della comunione dei beni, quale regime legale destinato a operare in mancanza di differente scelta dei coniugi (art. 159 c.c.), l'art. 162 c.c. consente a questi ultimi di stipulare, in ogni tempo, convenzioni matrimoniali, ossia atti di natura contrattuale, con cui adottare uno dei regimi patrimoniali tipicamente previsti dalla legge, quali la separazione dei beni, la comunione convenzionale o il fondo patrimoniale. In particolare, l'autonomia decisionale dei coniugi pare essere piuttosto ampia, se si considera che, optando per il regime della separazione dei beni (art. 215 ss. c.c.), di fatto essi neutralizzano qualunque forma di redistribuzione della ricchezza prodotta in costanza di matrimonio, vanificando sostanzialmente il regime patrimoniale secondario. D'altro canto, eleggendo come regime la comunione convenzionale (art. 210 c.c.), è possibile “adeguare” la disciplina della comunione legale alle esigenze concrete dei coniugi e della famiglia, ampliandone o riducendone il contenuto. Tuttavia, le deroghe rispetto al regime legale devono rispettare tre limiti ineludibili: 1. il patto concluso non deve essere in conflitto con il disposto di cui all'art. 161 c.c. (“...i coniugi devono enunciare in modo concreto il contenuto dei patti con i quali intendono regolare i loro rapporti patrimoniali”); 2. la comunione convenzionale non può essere ampliata al punto da ricomprendervi i beni strettamente personali, i beni che servono all'esercizio della professione del coniuge, e i beni ottenuti a titolo di risarcimento del danno o la pensione attinente alla perdita della capacità lavorativa (art. 210 comma 2 c.c.); 3. la comunione convenzionale deve rispettare le norme relative all'amministrazione dei beni della comunione e quelle relative all'uguaglianza delle quote, limitatamente ai beni che formerebbero oggetto della comunione legale (art. 210 comma 3 c.c.). Infine, nell'ottica di valorizzare maggiormente l'autonomia privata dei coniugi nella determinazione del regime patrimoniale della famiglia, autorevoli Autori (Bessone M., Alpa G., D'Angelo A., Ferrando G., Spallarossa M.R., La Famiglia nel nuovo diritto, Bologna, 1996, 190 ss; De Paola V., Macrì A., Il nuovo regime patrimoniale della famiglia, Milano, 1978, 224) sostengono che i coniugi possano stipulare convenzioni matrimoniali che prevedano regimi patrimoniali c.d. atipici, e cioè differenti e ulteriori rispetto a quelli previsti dal codice. Tale assunto troverebbe conferma nel dettato normativo dell'art. 159 c.c., che non prevede come uniche convenzioni stipulabili quelle tipizzate dalla legge, nonché nell'art. 161 c.c. che, se letto a contrario, parrebbe ammettere l'importazione di regimi patrimoniali ulteriori a quelli espressamente previsti, anche regolati parzialmente da leggi straniere. In ogni caso, l'eventuale regime atipico, elaborato dai coniugi, deve mostrarsi conforme alle disposizioni di cui agli artt. 160, 166-bis e 210 c.c., e cioè deve rispettare i diritti inderogabili nascenti dal matrimonio, il divieto di costituzione di dote e l'esclusione dei beni strettamente personali.
b) Le convenzioni sulla “vita matrimoniale” (art. 144 c.c.) Dalle convenzioni matrimoniali devono distinguersi gli eventuali accordi che i coniugi potrebbero concludere, prima o durante il matrimonio, per regolare aspetti fondamentali della loro convivenza (ad esempio, la suddivisione dei compiti, la gestione dei figli, la ripartizione delle spese). Questi accordi trovano il proprio fondamento nell'art. 144 c.c., che rimette alla concorde volontà dei coniugi la determinazione dell'indirizzo della vita familiare. È, tuttavia, evidente che la libertà dei coniugi non è illimitata: al contrario, essi non potranno derogare ai doveri fondamentali derivanti dal matrimonio, quali quelli di fedeltà, di assistenza materiale e morale, di collaborazione e coabitazione (art. 143 c.c.), così come ai doveri nascenti verso i figli (artt. 147, 148, 315-bis e 316-bis c.c.). Pertanto, sembra potersi facilmente ammettere la nullità di accordi sull'indirizzo della vita familiare che prevedano, ad esempio, la possibilità per entrambi i coniugi di intraprendere liberamente relazioni extraconiugali, oppure di concorrere agli oneri secondo un criterio differente da quello proporzionale ex art. 148 c.c. (art. 316-bis c.c.), considerato il carattere inderogabile di detti obblighi. Nondimeno, la nullità di tali accordi non esclude che essi possano costituire utili prove, in sede di processo di separazione o divorzio, per escludere, ad esempio, cause di addebito o ai fini della corretta determinazione dell'assegno di mantenimento. Poniamo, infatti, il caso in cui, di comune accordo, i coniugi si fossero esonerati dal rispetto del dovere di fedeltà coniugale: nonostante la nullità di tale accordo, è evidente che in sede di separazione l'eventuale richiesta di addebito per violazione dell'obbligo di fedeltà verrebbe contrastata con l'esibizione dell'accordo, che dimostrerebbe inequivocabilmente l'esclusione del nesso di causalità tra i reciproci tradimenti e la crisi coniugale. c) Gli accordi a latere della separazione Ulteriori accordi di natura contrattuale spesso stipulati dai coniugi sono i c.d. accordi a latere della separazione consensuale, volti a regolare aspetti, patrimoniali e non, della frattura coniugale, eventualmente anche non contemplati nel verbale di separazione consensuale. Tali accordi, che possono precedere oppure essere contestuali alla separazione, costituiscono, tuttavia, ben altra cosa rispetto ai c.d. patti in vista del divorzio, in quanto non mirano a disporre in merito alle condizioni del futuro divorzio, ma determinano e disciplinano unicamente gli assetti della separazione. In altri termini, tali patti non sono finalizzati a disporre dei diritti connessi alla fase del divorzio (come, ad esempio, l'assegno divorzile), bensì si limitano a regolare concretamente la fase separativa. Al contempo, gli accordi a latere devono essere tenuti distinti dalle convenzioni matrimoniali, in quanto queste ultime si caratterizzano per l'obiettivo di disciplinare la distribuzione e la gestione dei beni in costanza di convivenza coniugale, mentre gli accordi a latere sono atti atipici volti a regolare la fase della separazione coniugale. Tale distinzione è tutt'altro che teorica, in quanto è destinata a incidere sulla forma che gli atti devono assumere ai fini della loro validità. Infatti, l'esclusione della riconducibilità dei patti a latere alle convenzioni di cui all'art. 162 c.c., comporta che essi potranno essere stipulati con scrittura privata, senza dover ricorrere all'atto pubblico richiesto, invece, per la validità delle convenzioni matrimoniali. Il punctum dolens degli accordi a latere della separazione risiede nel fatto di non essere sottoposti al (necessario?) vaglio giudiziale; tale carenza aveva indotto parte della giurisprudenza a escluderne la validità, indipendentemente dall'eventuale vantaggio che, da tali accordi, il coniuge economicamente debole o i figli potessero trarre. Tale orientamento è stato superato a partire dagli anni ‘90.
In ragione del carattere dell'indisponibilità dei diritti che scaturiscono dal matrimonio, di cui agli artt. 143 e 160 c.c., specialmente di natura economica, sono state elaborate le principali tesi dottrinali e giurisprudenziali orientate a tacciare di invalidità i patti in vista del divorzio nel nostro ordinamento. Le principali argomentazioni a sostegno della nullità sono le seguenti. • In primo luogo, è stata sostenuta l'illiceità della causa degli accordi in vista del divorzio (art. 1343 c.c.), in quanto essa si sostanzierebbe nella mercificazione dello status di coniuge, che è, invece, indisponibile (Gabrielli G., Indisponibilità preventiva degli effetti patrimoniali del divorzio: in difesa dell'orientamento adottato dalla giurisprudenza, Riv. dir. civ., I, 1996; Sacco R., Il contratto, Torino, 1975). Secondo questo orientamento, infatti, tali accordi determinerebbero la prestazione del consenso allo scioglimento del matrimonio, in cambio di una prestazione patrimoniale, limitando, tra l'altro, la libertà di difesa dei coniugi nel futuro giudizio di divorzio. • Secondo altre pronunce, invece, la nullità dell'accordo deriverebbe dal fatto che il diritto oggetto del patto medesimo (assegno divorzile) non è ancora esistente nel patrimonio di colui che ne dispone (Cass. civ. n. 3777/1981). • Altri ancora sostengono l'invalidità di tali accordi richiamando la disciplina della legge sul divorzio che regola la c.d. una tantum, ossia l'accordo con cui i coniugi stabiliscono che la corresponsione del mantenimento avvenga in un'unica soluzione ex art. 5 comma 8 l. n. 898/1970 (Guarini M., La cassazione conferma la nullità dei “patti” anteriori al divorzio, nota in Giust. civ., 2001, I, 457 ss.; Gabrielli G., Indisponibilità preventiva degli effetti patrimoniali del divorzio: in difesa dell'orientamento adottato dalla giurisprudenza, in Riv. dir. civ., 1996, 700). In particolare la legge prevede che tale accordo debba avvenire contestualmente al divorzio, dunque, non precedentemente a esso, e, soprattutto, che debba superare il vaglio di equità del Tribunale. Da ciò deriverebbe la nullità di tutti gli accordi patrimoniali in vista del divorzio che non rispettino tali garanzie. • Si è inoltre argomentato che la nullità dei patti in questione sarebbe diretta conseguenza della natura assistenziale dell'assegno di divorzio (Ferrando G., Le conseguenze patrimoniali del divorzio tra autonomia e tutela, in Dir. fam. pers., 1998, 722 ss.). Una volta assodata, infatti, alla luce delle chiarificatorie sentenze delle Sezioni Unite di inizio anni '90 (le c.d. sentenze gemelle, cfr. Cass., S.U., 29 novembre 1990, n. 11489; Cass. n. 11490/1990; Cass. n. 11491/1990; Cass. n. 11492/1990), la natura assistenziale dell'assegno di divorzio, anche tale emolumento, quanto meno nella sua componente “assistenziale”, dovrebbe essere ricompreso nel novero dei diritti indisponibili di cui all'art. 160 c.c.. • Ma l'argomentazione più dibattuta su cui si fonda la nullità di tali accordi è certamente quella che fa perno sul contrasto con l'art. 143 c.c. e, dunque, indirettamente, con l'art. 160 c.c., e che individua l'invalidità dei patti de quibus nel fatto che essi costituirebbero una inammissibile deroga ai doveri coniugali sorti dal matrimonio, in particolare all'obbligo di solidarietà economica (Ferrando G., Il Matrimonio, in Tratt. dir. civ. comm., Cicu A., Messineo F. (diretto da), continuato da Mengoni, VI, 1, Giuffrè, 2002, 125; Arrigo T., L'assegno di separazione e l'assegno di divorzio, in Separazione e divorzio, diretto da Ferrando G., I, 2003, 726). La dottrina più accorta (Oberto G., I contratti della crisi coniugale, Giuffré, Milano, 1999), sebbene minoritaria, ha tuttavia contrastato con solidi argomenti ciascuna delle tesi sopra illustrate, escludendo che possano considerarsi astrattamente invalidi i patti in vista del divorzio. In particolare, è stato sottolineato come tali accordi non determinino una mercificazione dello status, in quanto il divorzio, nel nostro ordinamento, prescinde dal consenso del marito o della moglie e costituisce, al contrario, un diritto (potestativo) esercitabile liberamente da ciascuno dei due coniugi. Inoltre, è stato osservato che la pattuizione delle condizioni patrimoniali in vista del divorzio non incide sui futuri comportamenti processuali dei coniugi, posto che sussiste una notevole differenza tra «porre a base del sinallagma l'impegno sullo status e stabilire le mere conseguenze economiche dell'eventuale mutamento di status» (Trib. Torino, ord. 20 aprile 2012). Anche l'obiezione relativa all'inesistenza, al momento dell'accordo, del diritto nel patrimonio del disponente è stata facilmente sconfessata, osservando come l'ordinamento consente di dedurre in contratto la prestazione di cose future (art. 1348 c.c.), quale potrebbe configurarsi il diritto all'assegno divorzile. È stato poi ulteriormente osservato che l'invocazione degli artt. 143 e 160 c.c. pare del tutto inopportuna, posto che tali norme dovrebbero operare nella fase fisiologica dell'unione matrimoniale e non anche in quella del divorzio che, rescindendo il vincolo coniugale, sembra sorretta da doveri ben differenti da quelli vigenti in costanza di matrimonio e di convivenza, essendo peraltro il diritto a percepire l'assegno divorzile pienamente disponibile.
L'orientamento “illiberale” con cui la giurisprudenza si è approcciata all'istituto dei patti prematrimoniali in generale ha avuto, anche in passato, timide ma significative aperture, fino ad arrivare a recenti pronunce, di legittimità e di merito, che approdano a concezioni particolarmente liberali, e cioè favorevoli a riconoscere ampi spazi all'autonomia negoziale dei coniugi.
Casistica
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