Impugnazione del riconoscimento

23 Giugno 2015

Il riconoscimento del figlio può essere impugnato per difetto di veridicità nel caso si affermi che l'autore del riconoscimento non è in realtà il genitore della persona riconosciuta. L'azione ha riguardo ai soli figli nati fuori dal matrimonio e si affianca al disconoscimento di paternità, che trova applicazione per i figli nati durante il matrimonio ed ha lo scopo di accertare che il marito della madre non è il padre del presunto figlio.
Inquadramento

Si tratta di una delle azioni previste dall'ordinamento per l'accertamento del rapporto di filiazione.

Il riconoscimento del figlio può essere impugnato per difetto di veridicità nel caso si affermi che l'autore del riconoscimento non è in realtà il genitore della persona riconosciuta.

L'azione ha riguardo ai soli figli nati fuori dal matrimonio e si affianca al disconoscimento di paternità, che trova applicazione per i figli nati durante il matrimonio ed ha lo scopo di accertare che il marito della madre non è il padre del presunto figlio.

La riforma della filiazione, che ha unificato lo status di tutti i figli, ha introdotto importanti novità anche in ordine alle regole di accertamento del rapporto di filiazione, in particolare rendendo sostanzialmente omogenei i termini per l'esercizio dell'azione di impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità con quelli per l'azione di disconoscimento di paternità.

La diversa disciplina delle due azioni finiva per creare ingiustificate discriminazioni per i figli nati fuori dal matrimonio, il cui status era maggiormente incerto in ragione dell'estensione dei soggetti legittimati (chiunque vi ha interesse) e dell'imprescrittibilità per tutti della relativa azione.

Permangono alcune differenze nella disciplina delle due azioni è determinate dalla circostanza che per i figli nati nel matrimonio opera la presunzione di paternità (art. 231 c.c.), per cui il figlio nato in costanza di matrimonio si presume figlio del marito della madre, mentre per il figlio nato fuori dal matrimonio è necessario l'atto formale di volontà consistente nel riconoscimento, mediante il quale il dichiarante assume di esserne il genitore.

Accertamento del rapporto di filiazione: “favor veritatis” ed interesse del minore

Parte della dottrina e della giurisprudenza avevano messo in dubbio che tra gli interessi in conflitto nei giudizi di accertamento del rapporto di filiazione operasse sempre il principio del favor veritatis (come in diverse occasioni affermato dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione e della Corte Costituzionale) e, soprattutto, che esso avesse valenza costituzionale.

Infatti, l'ultimo comma dell'art. 30 Cost. stabilisce che la legge «detta le norme ed i limitiper la ricerca della paternità», affermando implicitamente che la ricerca della filiazione biologica possa incontrare i limiti derivanti dalla necessità di bilanciamento con altri interessi costituzionalmente garantiti.

Inoltre, si è ritenuto, che non fosse tale principio che sovrintendeva alla disciplina del disconoscimento di paternità (azione “vicina” all'impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità), ove pareva prevalere l'interesse alla stabilità dei rapporti familiari.

La Corte di Cassazione (Cass., sent., n. 2315/1999), negando l'azione di disconoscimento di paternità a chi avesse dato il consenso alla fecondazione eterologa (all'epoca non era stata approvata la legge sulla fecondazione assistita e la fecondazione eterologa non era disciplinata), nel solco di tale orientamento critico, aveva affermato principi di valenza generale e che hanno trovato conferma nel diritto positivo con l'entrata in vigore della legge n. 40/2004: il ristretto ambito di titolarità dell'azione di disconoscimento di paternità, coordinato con la tassatività dei casi in cui era esercitabile e con i brevi termini di decadenza all'uopo stabiliti (art. 244 c.c.), indicava che la preferenza e prevalenza della realtà sulla presunzione non erano incondizionate, non rispondevano ad un'esigenza pubblicistica, ma miravano a difendere esclusivamente le posizioni di quei soggetti, ai quali soltanto era demandata la valutazione comparativa delle due situazioni in conflitto e la decisione di optare per l'una o l'altra, facendo emergere la verità, ovvero mantenendo la fictio iuris della paternità presunta.

In tale direzione era anche la regola affermata dalla Corte Costituzionale, in materia di accertamento della paternità o maternità naturale, per cui, se si trattava di un minore di età inferiore ai 16 anni, la ricerca della paternità, pur quando concorrevano specifiche circostanze che la facevano apparire giustificata ai sensi degli artt. 235 o 274, comma 1, c.c., non era ammessa ove risultasse un interesse del minore contrario alla privazione dello stato di figlio legittimo o, rispettivamente, all'assunzione dello stato di figlio naturale nei confronti di colui contro il quale si intendeva promuovere l'azione: interesse che doveva essere apprezzato dal giudice soprattutto in funzione dell'esigenza di evitare che l'eventuale mutamento dello status familiare del minore potesse pregiudicarne gli equilibri affettivi e l'educazione. In questo caso la decisione doveva essere lasciata allo stesso figlio al compimento dei 16 anni di età.

La sentenza additiva della Corte costituzionale implicitamente aveva modificato la ratio sottesa fino ad allora all'art. 274 c.c., che prevedeva il giudizio di ammissibilità per la dichiarazione giudiziale di paternità e maternità, attraverso un ribaltamento della scala di valori. Se in passato, la limitazione dell'accertamento della verità biologica si spiegava in ragione della tutela della rispettabilità ed onorabilità di colui che era ritenuto il presunto padre, ora la compressione del principio del favor veritatis viene giustificata in funzione dell'interesse del minore.

La centralità dell'interesse del minore nelle azioni di stato è stata ribadita nella sentenza della Corte costituzionale n. 50/2006 che ha dichiarato l'incostituzionalità dell'art. 274 del c.c..

La Corte Costituzionale nel travolgere l'intera norma, si è fatta comunque carico di tutelare l'interesse del minore affermando che tale valutazione doveva permanere nel giudizio di merito: essa poteva essere eventualmente delibata prima dell'accertamento della fondatezza dell'azione.

Il principio secondo il quale l'accertamento della verità biologica è destinato a soccombere dinanzi al primario interesse dell'ordinamento di assicurare al minore un sano ed equilibrato sviluppo, è stato recentemente ancora ribadito dalla Corte costituzionale (sent. n. 31/2012) che, rivedendo un precedente orientamento in base al quale aveva rigettato la medesima questione, ha dichiarato la parziale incostituzionalità della pena accessoria al reato di alterazione di stato previsto dall'art. 567 c.p., laddove si prevede la automatica decadenza della potestà in assenza di una valutazione caso per caso, fondata sull'accertamento della sua concreta corrispondenza agli interessi del minore.

Interesse alla stabilità dei rapporti familiari e termini di decadenza dall'azione

Nell'evoluzione del diritto positivo e della sua interpretazione giurisprudenziale, sempre meno rilievo, quindi, ha assunto il dato formale del rapporto familiare legato sul legame meramente biologico, mentre la famiglia ha assunto sempre di più la connotazione della prima comunità nella quale effettivamente si svolge e si sviluppa la personalità del singolo e si fonda sua identità.

Il legislatore della riforma della filiazione ha accolto il principio in base al quale la tutela del diritto allo status ed alla identità personale può non identificarsi con la prevalenza della verità biologica.

Nel bilanciamento degli interessi in conflitto, prevedendo un termine di decadenza “tombale” per l'esercizio dell'azione, il legislatore delegato ha inteso mutare radicalmente il principio fondante la disposizione originaria, lasciando prevalere sull'interesse pubblico alla verità del rapporto di filiazione, l'esigenza di non prolungare indefinitivamente la durata dell'incertezza dello stato di figlio, anche in ragione della natura volontaria dell'atto di riconoscimento e della conseguente assunzione di responsabilità che lo stesso comporta (cfr. relazione illustrativa al decreto legislativo).

Allineamento delle azioni di impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità e di disconoscimento di paternità

Il legislatore accoglie tale linea interpretativa prevedendo il termine di un anno per l'impugnazione da parte degli autori del riconoscimento, decorrente dal giorno dell'annotazione del riconoscimento sull'atto di nascita, salva la possibilità per il padre di dare prova che aveva ignorato la propria impotenza al tempo del concepimento e per la madre di avere ignorato l'impotenza del presunto padre, nel qual caso il termine decorre dal giorno in cui ne ha avuto conoscenza.

L'azione in ogni caso non può essere proposta né dagli autori del riconoscimento né dagli altri legittimati, decorso il termine di 5 anni dall'annotazione del riconoscimento.

Oltre questo termine prevale in ogni caso l'interesse alla stabilità dei rapporti familiari, salva la possibilità per il figlio, per il quale l'azione è imprescrittibile, di valutare se recidere o meno lo stato di figlio che non corrisponda alla verità biologica, in ossequio al principio della centralità degli interessi del minore che ormai governa sia il diritto interno che internazionale.

In relazione agli autori del riconoscimento prevale il principio di “autoresponsabilità” che trova il proprio fondamento nell'obbligo di solidarietà costituzionalmente sancito dall'art. 2 Cost..

Il diritto della personalità costituito dal diritto all'identità appare sempre più sganciato dalla verità biologica della procreazione e sempre più legato al mondo degli affetti ed al vissuto della persona cresciuta ed accolta, per un certo numero di anni, all'interno di una famiglia.

Impugnazione del riconoscimento da parte di chi era consapevole della sua falsità

Nell'evoluzione del dibattito giuridico, la sentenza della suprema corte citata più sopra, Cass. n. 2315/1999, ha segnato una svolta, chiarendo i principi che dovrebbero governare le relazioni familiari, avendo come punto di riferimento i diritti fondamentali sanciti dalla carta costituzionale e basando la propria decisione proprio sul principio dell' “autoresponsabilità”: «La norma che permettesse detta condizione (il disconoscimento di paternità da parte di chi avesse dato il proprio consenso alla fecondazione eterologa n.d.r.), per mezzo di una statuizione giudiziale resa proprio su istanza del soggetto che abbia determinato o concorso a determinare la nascita con il personale impegno di svolgere il ruolo di padre, eluderebbe i menzionati cardini dell'assetto costituzionale ed il principio di solidarietà cui gli stessi rispondono. Il frutto dell'inseminazione, infatti, verrebbe a perdere il diritto di essere assistito, mantenuto e curato, da parte di chi si sia liberamente e coscientemente obbligato ad accoglierlo quale padre "di diritto", in ossequio ad un parametro di prevalenza del favor veritatis, che è privo, come si è detto, di valore assoluto, e non può comunque compromettere posizioni dotate di tutela prioritaria. Il sacrificio del favor veritatis, a fronte di libere determinazioni dell'adulto che incidano sullo status del minore è del resto regola portante dell'adozione legittimante, ove la decisione degli adottanti di acquisire una veste genitoriale "legale", non coincidente con la maternità e la paternità effettive, è irrevocabile; la diversità del relativo istituto, (…), non preclude di cogliere nella disciplina dell'adozione la conferma della presenza nell'ordinamento di un canone d'irreversibilità degli effetti degli atti determinativi dello status della persona rispetto allo stesso soggetto che li abbia compiuti (con volontà non affetta da vizi). Infine, va considerato che buona fede, correttezza e lealtà nei rapporti giuridici rispondono a doveri generali, non circoscritti agli atti o contratti per i quali sono richiamate da specifiche disposizioni di legge; questi doveri, nella particolare materia dei rapporti di famiglia, assumono il significato della solidarietà e del reciproco affidamento».

Partendo da tali principi e sulla base della norma che sancisce l'irretrattabilità del riconoscimento (art. 256 c.c., che non ha subito modificazioni), vi è stata una parte della giurisprudenza di merito che, andando in senso contrario ad un risalente orientamento della Corte di Cassazione, ha ritenuto che l'autore del riconoscimento effettuato in mala fede non sia legittimato ad impugnarlo successivamente per difetto di veridicità, restando, invece, tale legittimazione in capo a tutti gli altri soggetti previsti dalla norma di cui all'art. 263 c.c..

Il legislatore delegato non ha preso posizione esplicita sul punto, anche se la questione perde di drammaticità a fronte del termine “tombale” di 5 anni previsto sia per il disconoscimento di paternità che per l'impugnazione del riconoscimento, ma rispetto all'impugnazione del riconoscimento il problema può comunque porsi in situazioni residuali, anche in considerazione dell'ampia gamma dei possibili legittimati all'impugnazione.

Impugnazione del riconoscimento e abuso del diritto

Le Sezioni Unite della Cassazione con la sentenza n. 23726 del 2007 hanno fatto applicazione dell'istituto dell'abuso del diritto - e del processo (che comporterebbe invece la preclusione dell'esame nel merito della domanda) - sulla base di principi generali applicabili a tutte le relazioni giuridiche: «in un quadro normativo nel frattempo evolutosi nella duplice direzione, sia di una sempre più accentuata e pervasiva valorizzazione della regola di correttezza e buona fede … degli "inderogabili doveri di solidarietà", il cui adempimento è richiesto dall'art. 2 Cost. - sia in relazione al canone del "giusto processo", di cui al novellato art. 111 Cost., in relazione al quale si impone una lettura "adeguata" della normativa di riferimento (in particolare dell'art. 88 c.p.c.), nel senso del suo allineamento al duplice obiettivo della "ragionevolezza della durata" del procedimento e della "giustezza" del "processo", inteso come risultato finale (della risposta cioè alla domanda della parte), che "giusto" non potrebbe essere ove frutto di abuso, appunto, del processo, per esercizio dell'azione in forme eccedenti, o devianti, rispetto alla tutela dell'interesse sostanziale, che segna il limite, oltreché la ragione dell'attribuzione, al suo titolare, della potestas agendi.

Per il primo profilo, viene in rilievo l'ormai acquisita consapevolezza della intervenuta costituzionalizzazione del canone generale di buona fede oggettiva e correttezza, in ragione del suo porsi in sinergia con il dovere inderogabile di solidarietà di cui all'art. 2 Cost., che a quella clausola generale attribuisce all'un tempo forza normativa e ricchezza di contenuti, inglobanti anche obblighi di protezione della persona e delle cose della controparte, funzionalizzando così il rapporto obbligatorio alla tutela anche dell'interesse del partner negoziale».

Se, pertanto, si ritiene che l'ipotesi in cui ad impugnare il riconoscimento sia un soggetto che era consapevole della sua falsità sin dal momento in cui era stato effettuato configuri abuso del diritto, la conseguenza dovrebbe essere l'improponibilità dell'azione da parte del medesimo soggetto, anche perché tale ipotesi configurerebbe in sostanza una revoca del riconoscimento espressamente vietata dalla legge.

Differenze tra la disciplina del disconoscimento di paternità e dell'impugnazione del riconoscimento

A) I soggetti legittimati

Nella nuova formulazione della norma permangono delle differenze rispetto alla disciplina del disconoscimento di paternità che potrebbero indurre taluno a scorgervi i segni del permanere, sebbene in modo molto limitato, di un favor per la famiglia fondata sul matrimonio.

Il nuovo art. 243-bis c.c. prevede, infatti, che l'azione di disconoscimento di paternità possa essere esercitata solo dal figlio, dal marito e dalla madre; la legittimazione ad impugnare il riconoscimento per difetto di veridicità permane, invece, in capo a chiunque vi abbia interesse, nel termine di decadenza di 5 anni dall'annotazione del riconoscimento nell'atto di nascita (un termine più lungo rispetto a quello concesso alla madre ed all'autore del riconoscimento).

Nelle due diverse ipotesi il rapporto di filiazione trae origine da situazioni diverse, e cioè, nel primo caso, dalla presunzione di paternità del marito e, nel secondo, da una dichiarazione del soggetto che ha effettuato il riconoscimento, che l'ordinamento impone che sia veridica.

Sulla base di tale presupposto, nel vigore della precedente normativa, la giurisprudenza, sia della Corte Costituzionale che della Corte di Cassazione, aveva ritenuto infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 263, commi 2 e 3, c.c., in relazione agli artt. 3, 29, 30 e 31 Cost., nella parte in cui la norma del codice prevedeva che l'impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità potesse essere proposta da chiunque vi avesse interesse, nonché nella parte in cui prevedeva che l'azione di cui all'art. 263 c.c. fosse imprescrittibile.

La questione della disparità di trattamento potrebbe in concreto venire posta sia dal punto di vista della limitazione dei soggetti legittimati a proporre l'azione di disconoscimento di paternità che dal punto di vista dell'estensione eccessiva dei soggetti legittimati all'impugnazione del riconoscimento.

Esempi:

Potrebbe essere, ad esempio sollevata, in relazione all'art. 3 Cost., dal padre biologico del figlio nato dalla relazione con una donna coniugata, che non avrebbe in questo caso nessuno strumento per rivendicare la propria paternità, non essendo legittimato ad esercitare l'azione di disconoscimento, tenuto conto che se la donna non fosse stata coniugata ed il figlio fosse stato riconosciuto dal convivente di questa (magari ignaro), il padre biologico sarebbe stato comunque legittimato ad impugnare il riconoscimento.

La giurisprudenza, nel vigore della disciplina previgente ha sempre negato al presunto padre naturale sia la possibilità di intervenire nel giudizio di disconoscimento che di proporre opposizione di terzo ex art. 404 c.p.c. avverso la sentenza emessa nel giudizio di disconoscimento, asserendo che lo stesso era «portatore di un interesse di mero fatto».

La Suprema Corte e la Corte Costituzionale hanno affermato, nel vigore della vecchia disciplina, che «La determinazione dei soggetti legittimati a proporre l'azione di disconoscimento della paternità è una scelta insindacabile del legislatore».

La diversa disciplina, anche nel vigore della nuova normativa che ha unificato lo stato di figlio, viene spiegata con la diversità delle situazioni sulle quali le norme vanno ad incidere.

La famiglia fondata sul matrimonio viene costituita sulla libera scelta di due soggetti di impegnarsi in una relazione che viene disciplinata dall'ordinamento attraverso la previsione di diritti e doveri codificati, ed anche resa pubblica attraverso le pubblicazioni; è proprio sulla base di ciò, infatti, che può operare la presunzione di paternità.

I soggetti che si sposano decidono consapevolmente di fondare una famiglia, che potrà avere diverse vicissitudini, ma tutte tendenzialmente regolate dalla legge, anche in relazione al suo dissolvimento attraverso la separazione ed il divorzio.

La filiazione fuori dal matrimonio può avvenire, invece, nelle più disparate situazioni, anche non caratterizzate dalla stabilità e dal reciproco impegno, del tutto al di fuori dalla volontà di “fondare una famiglia” della quale faccia parte anche la coppia genitoriale. La coppia di fatto, e la regolamentazione dei rapporti dei suoi protagonisti, è una realtà che è rimessa alla volontà della coppia e non alla legge.

È chiaro che, in una vicenda che può assumere le più svariate connotazioni, la presunzione di paternità non potrebbe operare, non essendovi dei presupposti giuridici e sicuri sul piano fattuale alla quale ancorarla.

Chi entrasse in relazione con una donna che avesse anche un'altra relazione potrebbe tranquillamente non saperlo, mentre è molto difficile che ciò possa accadere a chi entra in relazione con una donna sposata. In questo modo si spiega la più intensa tutela per il padre biologico, che può esercitare l'azione di impugnazione del riconoscimento.

Da altro punto di vista, il figlio nato fuori dal matrimonio potrebbe essere danneggiato ad esempio dall'impugnazione del riconoscimento effettuata da un parente alla morte del presunto padre, intervenuta nel termine di cinque anni dall'annotazione del riconoscimento, sulla base di aspettative ereditarie, al contrario del figlio nato in costanza di matrimonio che non si troverebbe esposto a questo genere di azioni.

Il legislatore delegato ha ritenuto che nel bilanciamento fra gli opposti interessi, il diritto del figlio alla stabilità dei rapporti familiari fosse sufficientemente tutelato dalla previsione del termine di 5 anni per proporre l'impugnazione, sul presupposto che il bambino entro tale termine potrebbe avere sì creato dei legami familiari significativi, ma non ancora compiutamente costruito la propria identità sulla base di questi.

Il giudice del caso concreto dovrà però effettuare un bilanciamento degli interessi che vengono in conflitto nelle singole fattispecie.

Nel conflitto tra diritto della personalità del figlio, di rango costituzionale, ed il diritto patrimoniale dei parenti relativo all'eredità, dovrebbe prevalere comunque l'interesse al mantenimento dei legami familiari ed il giudice potrebbe ritenere giustificato il rifiuto a sottoporsi agli esami ematologici, rigettando, pertanto, la domanda perché non provata.

B) Termini per proporre l'azione

L'azione di impugnazione può essere proposta entro un anno dal giorno dell'annotazione del riconoscimento sull'atto di nascita da parte degli autori del riconoscimento ed entro cinque anni da parte di tutti gli altri legittimati. È imprescrittibile solo riguardo al figlio (così come ora l'azione di disconoscimento di paternità).

Il termine resta sospeso per i genitori qualora abbiano ignorato l'impotenza del presunto padre, ma non può comunque più essere proposta decorso il termine di 5 anni dall'annotazione del riconoscimento.

La mancata previsione, nel caso di impugnazione del riconoscimento, della sospensione del termine per il presunto padre che fosse lontano al momento della nascita o la ignorasse (prevista per il disconoscimento di paternità) è conseguenza dell'operatività della presunzione di paternità in costanza di matrimonio, mentre per il riconoscimento è necessario un atto di volontà.

La previsione della sospensione in caso di ignoranza dell'adulterio della moglie, prevista per il disconoscimento e non per l'impugnazione del riconoscimento, è conseguenza della presunzione di paternità e del dovere giuridico di fedeltà nascente dal matrimonio.

L'interesse del figlio alla stabilità dei rapporti familiari e dello status viene garantita dalla previsione del termine massimo di 5 anni, che opera anche in tali casi di sospensione.

Un'altra ipotesi di sospensione del termine per la parte interessata a promuovere l'azione deriva dall'applicabilità all'impugnazione del riconoscimento dell'art. 245 c.c. (richiamato dall'art. 263 c.c.), in base al quale «il termine previsto dall'art. 244 c.c.» rimane sospeso per chi si trovi in stato di interdizione o di grave infermità di mente.

Il legislatore delegato ha esteso la sospensione del termine anche a chi, sebbene non interdetto, si trovi in stato di grave infermità di mente che lo renda incapace di attendere ai propri interessi, nel solco già tracciato dalla sentenza della C. cost. n. 322/2011 che aveva dichiarato incostituzionale l'art. 244 c.c..

Tale richiamo pone alcuni problemi interpretativi.

La sentenza della Corte Costituzionale sopra richiamata aveva suscitato qualche critica da parte della dottrina perché lasciava sostanzialmente aperta, in situazioni comunque tutto sommato residuali, senza limiti di tempo, la possibilità di proporre l'azione di disconoscimento, comprimendo oltre misura l'interesse alla certezza degli status ed il diritto del figlio alla propria identità personale.

Se l'intento del legislatore è stato quello di considerare in ogni caso prevalente, oltre il termine dei 5 anni, l'interesse del figlio alla certezza dello status, la norma deve interpretarsi nel senso che oltre tale termine l'azione non può più essere proposta nemmeno dall'incapace, il quale troverebbe comunque adeguata tutela nella possibilità di proporre l'azione attraverso un tutore od un curatore speciale previa autorizzazione del giudice.

Del resto la stessa Corte Costituzionale nella sentenza n. 322 del 2011 aveva individuato la ratio dell'allargamento della sospensione ai soggetti in concreto incapaci di intendere e di volere, nella compromissione del diritto di azione cui sarebbe sottoposto il soggetto di fatto incapace che si trovasse nella condizione di non avere conoscenza e consapevolezza del fatto costitutivo dell'azione e quindi nella possibilità di esperirla validamente e tempestivamente.

Situazione che a ben guardare non differisce dalla ratio sottesa alla sospensione del termine in caso di successiva conoscenza dell'impotenza a generare o dell'adulterio della moglie. Si tratta appunto di ipotesi di mancata conoscenza di uno degli elementi costitutivi dell'azione che sottendono alle ipotesi di sospensione breve, ma non hanno però impedito la previsione legislativa dell'operatività in ogni caso del termine di 5 anni dalla nascita o dall'annotazione del riconoscimento. Oltre tale termine, sul diritto di azione dei soggetti legittimati il legislatore ha ritenuto prevalente l'interesse del figlio.

Circostanza che induce a ritenere che il termine massimo dei 5 anni previsto dal legislatore valga in ogni caso per tutti i legittimati ed in tutti i casi di sospensione previsti dalla legge nei casi in cui il termine sia più breve.

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