La conservazione dei reperti alla luce della normativa sulla privacy e degli orientamenti della Corte Edu

Gian Luca Giovannini
01 Dicembre 2015

Conservare i reperti, legittimamente acquisiti da parte delle Forze di Polizia, al termine del processo con l'assoluzione dell'imputato integra una lesione dei principi di cui all'art. 8 della Cedu. Così si è espressa la Corte europea dei diritti dell'uomo in data 18 aprile 2013 accogliendo il ricorso n. 19522/2009 tra M.K. e lo Stato delle Francia.
Abstract

Conservare i reperti, legittimamente acquisiti da parte delle Forze di Polizia, al termine del processo con l'assoluzione dell'imputato integra una lesione dei principi di cui all'art. 8 della Cedu.

Così si è espressa la Corte europea dei diritti dell'uomo in data 18 aprile 2013 accogliendo il ricorso n. 19522/2009 tra M.K. e lo Stato delle Francia.

M.K. è un cittadino francese accusato del furto di alcuni libri. Al termine dell'iter processuale è stato assolto dall'imputazione contestatagli.

Il procedimento giunge alla Corte europea dei diritti dell'uomo per la doglianza dell'imputato in merito al prelievo delle impronte digitali, effettuato nel corso delle indagini preliminari in due diverse occasioni e ogni volta inserite in un database digitale (FAED). Concluso il procedimento penale, M.K. chiede la rimozione delle impronte dal suddetto database ma la richiesta viene soddisfatta solamente per il primo procedimento e non per il secondo. Dopo una serie di ricorsi agli organi giurisdizionali francesi, M.K. rimette appunto la questione alla Corte di Strasburgo lamentando la violazione dell'art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo.

Il caso e i principi di diritto

Alla base del ricorso, c'è la considerazione che il compimento di un reato o anche la semplice sottoposizione ad indagini preliminari con un provvedimento conclusivo di tipo favorevole all'imputato, produce significative conseguenze sulla vita privata del singolo, che rischia di perdere la sua riservatezza in ragione di un superiore interesse di carattere pubblico.

Fondamento dell'eccessiva archiviazione dei dati è l'altissimo rischio di stigmatizzazione delle persone che invece hanno diritto alla presunzione d'innocenza. Infatti, se la conservazione dei dati personali non è equivalente all'espressione di sospetto, è comunque necessario che le condizioni di questa conservazione non diano l'impressione che i soggetti in questione non si possano considerare innocenti e che vengano trattati come colpevoli. Si consideri poi che il rifiuto del pubblico ministero francese di cancellare i campioni prelevati durante la seconda procedura è stato motivato dalla necessità di salvaguardare addirittura gli interessi del ricorrente in modo da poter escludere la sua partecipazione ad un reato in caso di furto d'identità da parte di autori terzi. Tale motivazione sembra potersi dedurre solo da un'interpretazione estensiva delle norme interne che rilevano in materia e la Corte ha ritenuto che accettare tale argomentazione sarebbe stato come giustificare il deposito dei dati di tutta la popolazione presente sul suolo francese solo ai fini di agevolare tutte le indagini.

Inoltre la normativa interna che giustifica il deposito di dati privati è da riferire alle indagini in materia di reati di criminalità organizzata e non ai reati minori come quello del caso di specie.

Il ricorrente non contestava né la legalità dell'ingerenza nel diritto al rispetto della vita privata né il fatto che gli sono stati prelevati i campioni dattiloscopici per ben due volte; M.K riteneva invece ingiustificata tale suddetta ingerenza.

La Corte europea dei diritti dell'uomo ha ricordato che la memorizzazione in un file delle autorità nazionali delle impronte digitali di una persona fisica identificata o identificabile costituisce un'ingerenza nel diritto al rispetto della vita privata. Per potersi giustificare tale ingerenza deve essere prevista dalla legge.

In questo caso la Corte ha ritenuto che l'ingerenza fosse prevista dalla legge e perseguisse uno scopo legittimo: il rilevamento delle impronte e di conseguenza la prevenzione della criminalità. preso atto di ciò, la Corte ha compiuto un passo ulteriore disquisendo e decidendo circa la rispondenza di tale legittima ingerenza ai requisiti della Convenzione tenendo conto che la legge (rectius le norme) deve assicurare che i dati raccolti siano pertinenti e non eccedenti rispetto alle finalità per i quali si sono resi necessari e siano tenuti in una forma che consenta l'identificazione dell'interessato per un periodo non superiore a quello strettamente necessario.

Il cosiddetto diritto all'oblio da parte di quest'ultimo di fronte all'ingerenza pubblica. Pertanto la Corte ha accertato che vi è stata violazione dell'articolo 8 della Convenzione.

La vicenda del sig. M.K. fa riflettere sul rischio di dover rimanere schedati per poter essere sollevati da future accuse, per dover quasi fungere da parametro di confronto per scongiurare le ipotesi che qualcuno possa essersi servito della nostra identità per compiere un reato. Tale presupposto è totalmente contra legem: una presunzione di colpevolezza e non di innocenza.

L'art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo

Dalla lettura dell'articolo in esame, si ricavano agevolmente quelli che sono i campi in cui esso appalesa la tutela giuridica: la vita privata e la vita familiare.

Per quanto riguarda invece il domicilio e la corrispondenza sono collocabili nel contesto della vita privata, in quanto funzionali alle esigenze di questa.

Il modello per la formulazione di tale articolo è stato fornito dai lavori preparatori dell'art. 12 della dichiarazione universale dei diritti dell' uomo. Tale norma è stata scissa negli articoli 8 (Diritto al rispetto della vita privata e familiare) e 10 (libertà di espressione) della Cedu.

Per quanto la nozione di rispetto sia alquanto vaga e necessiti pertanto di una specificazione, la giurisprudenza della Corte si è invece incentrata principalmente su quella di ingerenza/interferenza. Infatti la portata giuridica delle norme di uno Stato (in seno dei singoli Stati membri) può spesso sfociare nelle cosiddette ingerenze/interferenze di cui sopra rispetto a quelli che sono considerati i diritti fondamentali dell'uomo come la propria vita privata e familiare nonché il rispetto della privacy.

Tali norme sarebbero dunque, in teoria, in contrasto con l'art. 8 della Cedu e quindi potrebbero integrare gli estremi di un'ingerenza/interferenza, suscettibile quindi di ledere diritti protetti dalla Convenzione.

Ma attenzione, al fine di realizzare un corretto bilanciamento tra gli interessi in gioco ed il permettere un adeguato adattamento ai mutamenti sociali ed alle esigenze collettive, non è affatto possibile indicare in astratto quelli che potrebbero essere delle norme tipo contrarie ai principi della Cedu ma è necessario che ogni caso venga valutato nella sua specificità considerando la singola situazione in modo complesso.

Con riferimento al caso di specie, ci si può agevolmente accostare all'interpretazione negativa data dalla Corte della gestione del reperto papillare, solamente se si considera l'intera vicenda in questione, comprese le motivazioni che hanno avallato i singoli provvedimenti di rigetto dei vari ricorsi presentati dall'interessato nei confronti dei competenti organi statali.

Si rammenti che le doglianze di M.K. non si riferivano alla legittimazione dell'attività di prelievo dattiloscopico posto in essere dalla polizia giudiziaria, quanto alla conservazione dei dati dopo la completa assoluzione del ricorrente. Soprattutto non ha trovato affatto terreno fertile la motivazione dell'ultimo rigetto del ricorso; cioè la conservazione dei suddetti dati ai fini garantistici nei confronti di M.K. in caso di altre e successive commissioni di reati.

Si immagini quanto possa essere in contrasto tale circostanza con il principio generale (in particolar modo all'interno del nostro ordinamento giuridico) della presunzione di innocenza di chiunque di fronte alla legge.

Abnorme sarebbe il principio che per essere scagionati necessariamente bisognerebbe essere schedati in via preventiva.

La banca dati può essere definita come quel complesso d'informazioni (generali o particolari) che vengono rese disponibili ai fini della risoluzione di un'interrogazione.

Attualmente in Italia esistono una molteplicità di sistemi, oramai quasi esclusivamente informatici, in cui sono stati e vengono immagazzinati dei dati.

I gestori e gli utenti di tali informazioni possono essere sia soggetti pubblici che privati.

Proprio con riguardo ai primi, di particolare importanza assumo le banche dati al servizio delle forze di polizia; sistemi d'immagazzinamento e di gestione di informazioni utili anche al perseguimento dei fini previsti dall'art. 55 c.p.p.

Da tempo dottrina e giurisprudenza si interrogano, anche se non sempre omogeneamente, circa la compatibilità delle banche dati, anche per quelle a disposizione delle forze di polizia, sia con la consolidata legislazione italiana sulla privacy sia con le norme di diritto internazionale/comunitario.

Per evitare che il discorso si allarghi a macchia d'olio e per rimanere connessi all'argomento di cui in trattazione, si farà riferimento esclusivamente alle banche dati a disposizione delle forze di polizia italiane ed in particolar modo a quelle inerenti l'immagazzinamento, la gestione e la conservazione dei dati biologici e dattiloscopici (AFIS) a fini forensi.

In Italia le forze dell'ordine hanno a disposizione diverse banche dati, non solamente quelle di cui al precedente capoverso.

Tra le più utilizzate e comunque quelle più comuni, si possono elencare, a mero titolo d'esempio:

S.D.I. Il Sistema Di Indagine nasce da un ambizioso disegno di progettare un sistema interforze che permetta di avere a disposizione un'unica Banca Dati, dove i vari tipi di informazioni vengono alimentate in un unico formato da tutte le forze di polizia. Possono accedere allo S.D.I. tutte le forze di polizia italiane. Questo sistema va a sostituire il vecchio Ced, la banca dati che forniva il supporto informatico per l'attività operativa delle forze di polizia ed assicurava la classificazione, l'analisi e la valutazione delle informazioni e dei dati significativi sia per la tutela dell'ordine e della sicurezza pubblica, che per la prevenzione e la repressione dei reati. Nel 2001 con l'entrata in vigore di questo nuovo sistema è più facile la consultazione della Banca dati interforze tramite terminale da parte di tutti gli organi operativi ed investigativi. Il sistema consente di esplorare anche banche dati esterne collegate e permette di accedere ad una massa considerevole d'informazioni, tanto che l'utente, assistito da strumenti di ricerca particolarmente sofisticati, può svolgere sia ricerche specifiche su singoli fatti, sia ricerche integrate. Le banche dati esterne che si possono consultare direttamente dallo S.D.I. sono, per esempio, Aci (consultazione sui veicoli e sui proprietari), motorizzazione civile (molto simile al precedente), Inps (informazioni inerenti lo stato retributivo e contributivo di soggetti privati,) Infocamere (sistema di informazione inerente le persone giuridiche), Ania (banca dati sulle assicurazioni), ecc.

Sis. Per far fronte alle incombenze previste dall'accordo Schengen si è previsto il collegamento telematico con l'unità Sirene (Supplementary Information Request at the National Entries), sistema informatico istituito presso il Ministero dell'Interno, che è parte integrante del S.I.S. (Sistema Informativo Schengen) con sede in Strasburgo. Il Sistema di Informazione Schengen - Sis si compone di una unità centrale tecnica di supporto con sede a Strasburgo denominata C.Sis (Central System Information Schengen) e da una sezione nazionale, detta N.Sis (National System Information Schengen), presso ciascuno degli Stati aderenti. Grazie ad un'articolata procedura automatizzata tale sistema consente di rendere disponibili le informazioni, relative a tassative categorie di dati previste dalla Convenzione, quelle di cui agli articoli da 95 a 100. Anche l'accesso al Sis avviene attraverso lo S.D.I.

Blanco doc database. Europol, allo scopo di contrastare i traffici illeciti d'autovetture immatricolate in uno stato straniero mediante l'utilizzazione di documentazione di circolazione falsificata con stampati rubati in bianco, ha realizzato il Blanco Doc Database, contenente le serie alfanumeriche dei documenti di circolazione trafugati in bianco trasmessi ufficialmente ad Europol da Belgio, Estonia, Germania, Francia, Irlanda, Italia, Lettonia, Lituania, Lussemburgo e Ungheria. Il data base, oltre ad essere un utile strumento per gli operatori di polizia impegnati nel settore dei furti e dei traffici illeciti di veicoli, rappresenta per gli uffici provinciali del Dipartimento dei Trasporti Terrestri un prezioso ausilio nella verifica dell'autenticità dei documenti esibiti per la nazionalizzazione. Per tale motivo, su disposizione del Ministero dell'Interno - direzione centrale polizia stradale, copia di detto cd-rom è stata recapitata agli accennati uffici del D.T.T. dalle locali Squadre di P.G. della polizia stradale, il cui responsabile – prendendo contatti diretti con il funzionario responsabile del settore delle nazionalizzazioni – si renderà disponibile a ricevere eventuali segnalazioni di rinvenimento di documentazione di dubbia autenticità. Il data base in argomento sarà, poi, fornito alle zone della polizia di frontiera, per l'ulteriore distribuzione ai dipendenti Settori interessati, al fine di rendere maggiormente efficace il controllo dei veicoli stranieri. La versione 21 novembre 2002 è stata distribuita agli uffici interessati della Polstrada nel mese di giugno 2002.

Eucaris. (European Car and Driving Licence Information System) è un sistema che interconnette le banche dati di diversi paesi relative ai veicoli immatricolati e alle patenti di guida e quelle dei veicoli e documenti da ricercare, in modo da consentire la verifica sulla corrispondenza dei dati effettivi al momento della nazionalizzazione dei veicoli e la loro lecita provenienza. In Italia la direzione generale della Motorizzazione Civile è autorizzata ad accedere al Ced interforze. Il sistema è operativo in venti stati.

Si fa presente che per accedere alla consultazione o alla gestione delle informazioni conservate all'interno di queste banche dati è necessario possedere alcuni requisiti. Per esempio per lo S.D.I. è necessario essere un ufficiale od agente di polizia giudiziaria all'uopo abilitato dopo un relativo corso di qualificazione professionale (quindi non tutti gli operatori di P.G. sono abilitati alla già semplice consultazione dello S.D.I.); al termine del corso verranno attribuiti all'operatore una user id ed una password (quest'ultima deve essere rinnovata ogni 60 giorni); ogni novanta giorni il responsabile dell'Ufficio di Polizia Giudiziaria deve inoltrare una richiesta formale al Ced interforze di rinnovo abilitazioni S.D.I” per il personale già abilitato (se questo non dovesse avvenire il sistema automaticamente disabilità l'operatore non riabilitato); all'operatore abilitato è richiesto di farvi ingresso solo dopo essere stato identificato e dopo aver espressamente dichiarato all'interno di una finestra apposita del sistema, le motivazioni dettagliate che hanno giustificato il suo accesso alla banca dati; l'operatore, inoltre, ogni volta che vi fa accesso, deve compilare un registro cartaceo (vistato ogni settimana dal responsabile dell'Ufficio) su cui dovrà indicare giorno ed ora dell'accesso, dati richiesti, motivazione dell'accesso e fonte da cui deriva l'ordine o la disposizione della sua interrogazione alla banca dati. In ultimo tutti i responsabili dell'Ufficio hanno a disposizione delle credenziali di accesso personalizzato che gli permettono non solamente la consultazione delle informazioni, ma anche il controllo dettagliato ed immediato di tutti gli accessi fatti dai loro collaboratori d'ufficio. Come si può vedere, almeno per il sistema S.D.I., la legge prevede dettagliate e minuziose procedure da rispettare al fine della conservazione della riservatezza dei dati ivi riportati.

La legge sulla privacy

Tornando alle banche dati italiane ad uso forense inerenti informazioni biologiche e dattiloscopiche, si deve necessariamente premettere che la nascita, la gestione e l'utilizzo di tali sistemi di informazione forense hanno creato e continuano a creare una serie di complesse vicende giudiziarie in quanto spesso in contrasto sia con le norme costituzionali che con il decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, codice in materia di protezione dei dati personali (o legge sulla privacy).

Numerosi sono stati nel tempo gli interventi normativi per regolare la fase dell'evidenziazione e prelievo del dato biologico e dattiloscopico all'interno della scena del crimine o direttamente dal sospettato. Meno particolareggiato invece è il quadro normativo che si riferisce squisitamente alla fase della conservazione dei suddetti reperti.

Tale ultimo campo, poi, è quello che più ha destato delle problematiche soprattutto per quanto riguarda il più volte citato pericolo di stigmatizzazione e diritto di presunzione di innocenza di chiunque. Circostanze queste che necessariamente devono andare di concerto con i principi dei diritti fondamentali dell'uomo. Si vedrà che il dibattito giuridico si è nel tempo più concentrato sul dato biologico che dattiloscopico. Questo perché il primo è sicuramente più “nuovo” del secondo e il dato biologico è più predisposto alle problematiche della sensibilità dell'informazione in quanto connesso alla salute, alla razza della persona ed al ceppo di paternità. Ma proprio in virtù della loro necessaria connessione con i principi fondamentali dell'uomo, si può affermare che le rispettive problematiche tecnico giuridiche sono sovrapponibili.

Non solo, ma la conservazione del dato in essa (banca dati) contenuto, in quanto finalizzato all'utilizzo forense (e quindi investigativo e processuale-penalistico) non deve protrarsi oltre il periodo di tempo necessario a raggiungere gli scopi per i quali le suddette informazioni sono state raccolte (art. 11, lett. e), decreto legislativo n. 196 del 2003).

Si faccia inoltre presente che non è semplice bilanciare l'esigenza d'indagine con la tutela dei diritti soggettivi; spesso la repressione o la prevenzione del crimine richiede delle attività più invasive per definizione, come per esempio proprio l'indagine genetica. Quello che si dovrebbe evitare è che sulla scia dell'allarme sociale per l'aumento di crimini quali omicidi, pedofilia e violenze sessuali in genere, si rinunci alla tutela dei diritti fondamentali dell'uomo.

L'incidente Zefi Ilir

Uno dei casi più clamorosi di resa ufficiosa dell'esistenza all'interno delle forze di polizia di una banca dati, fu nel 2004, quando un operatore di polizia giudiziaria, ascoltato in qualità di testimone all'interno di un processo penale pendente per un'indagine da lui seguita sotto l'aspetto tecnico scientifico, rivelò l'esistenza di una banca dati non ufficiale all'interno degli uffici della polizia giudiziaria scientifica, nella quale venivano schedati (e non cancellati) tutti i profili biologici che negli anni passati erano stati man mano identificati, a prescindere dal fatto che il soggetto biologicamente identificato lo fosse stato perché indagato, imputato o semplicemente sospettato e prescindendo poi dall'esito del processo nei suoi confronti. Insomma una banca dati biologica vera e propria con migliaia di profili genetici nominativi a disposizione solamente delle forze di polizia.

Se questo sicuramente ha potuto far rassicurare tutta la massa dei cittadini che nulla avrebbero da temere con la giustizia e che sarebbero disposti a tutto affinché l'interesse della sicurezza dello Stato fosse perseguito, di contro si è andato a scontrare però con la restante parte dei consociati che, sebbene anche loro lontanissimi sia dal commettere reati e sia dal considerare la sicurezza dello Stato un bene prescindibile, vedono e sentono la loro privacy altrettanto fondamentale rispetto ai principi di cui sopra. Si consideri inoltre che tale evento, noto come “l'incidente Zefi Ilir” è accaduto nel 2004, a circa un anno cioè dall'entrata in vigore della legge sulla privacy e precedente di cinque anni rispetto alla legge 85 del 30 giugno 2009, promotrice della banca dati del D.N.A. (ad uso squisitamente forense) anche in Italia. Fa d'uopo subito accennare, come meglio descritto nel corso della presente, che tale ultimo provvedimento normativo non convince sotto molteplici aspetti. Alcune disposizioni in essa contenute non sembrano rispettare i principi di cui all'art. 8 della Cedu ne sembrano essere in accordo con quanto disposto dalla Corte europea sia nella famosa sentenza del 2008 (Marper c. Regno Unito) ne tantomeno con quella di cui alla presente nota (M.K. c. Francia-2013); in particolare ci si riferisce a quanto previsto (vedi infra) sui tempi di conservazione dei reperti e dei campioni biologici e sulla possibilità di effettuare prelievi coatti non solo sull'indagato o imputato, ma anche su terzi.

La "gestione" dei dati biologici

Tornando invece alla legge 196 del 30 giugno 2003 e, in particolare, gli articoli 53-57 (dedicati alla gestione dei dati da parte delle forze di polizia) si può notare da subito come quest'ultime siano autorizzate, in esecuzione di quelli che sono i fini d cui alla legge 121/1981, alla trattazione e gestione dei dati personali, anche prescindendo da alcuni obblighi previsti della legge sulla privacy; obblighi quali per esempio la comunicazione all'interessato che sarebbe sicuramente incompatibile con le finalità di riservatezza di un'indagine penale.

Ma già l'art 55 della medesima legge pone alcuni limiti anche alle forze di polizia ribadendo alcuni principi fondamentali proprio sulla riservatezza dei dati personali.

Tale norma presenta due profili degni di considerazione: il primo è — per così dire — di carattere qualificatorio e consiste nella dichiarata appartenenza dei dati genetici, a prescindere dal fatto che siano anche sensibili, al novero di quelli per i quali sono riconosciuti maggiori rischi per i diritti dei soggetti interessati, riconoscimento che pone in linea la disciplina italiana con il Parere 17 maggio 2006 del Garante Europeo per la protezione dei dati, pronunciato proprio in vista dell'adozione di quel Trattato di Prüm, del quale la legge 85/2009 costituisce implementazione.

Il secondo — più strettamente regolamentare — segna il recupero dell'articolo 39 del codice sulla privacy, altrimenti escluso da quelli applicabili al trattamento dei dati per finalità di polizia. Il che vuole dire che la forza di polizia che intenda organizzare una banca dati genetica, pur nell'ambito delle sue finalità istituzionali e normative di contrasto alla criminalità, deve darne preventiva comunicazione al Garante. Ed il Garante, ai sensi dell'articolo 17 del medesimo codice, può impartire misure e accorgimenti a garanzia dell'interessato (e che tengano conto della natura dei dati, delle modalità di trattamento e degli effetti che può determinare), al cui rispetto è subordinata l'ammissibilità stessa del trattamento.

Alla luce di quanto sopra espresso dalla dottrina e così come dalla stessa comunque avallato, i dati raccolti, gestiti e conservati in modo non conforme a quelle che sono le normative sulla tutela della privacy, determinano una conseguente inutilizzabilità processuale delle informazioni raccolte.

Si faccia attenzione però: inutilizzabilità processuale e non procedimentale. Ciò sta a significare che un'identificazione dell'autore del reato tramite un profilo del D.N.A. o profilo dattiloscopico rilevato, confrontato, conservato fuori norma non avrà affatto rilevanza processuale ma conserva quella investigativa. Cioè le forze di polizia dovranno sforzarsi di raccogliere elementi a carico di tale soggetto così identificato, che siano però utilizzabili processualmente.

Potranno quindi operare magari dei servizi di controllo e pedinamento nei suoi confronti o delle perquisizioni oppure richiedere che le sue utenze telefoniche siano messe sotto controllo, bastando infatti per le attività poc'anzi elencate i gravi o sufficienti indizi di colpevolezza.

La questione però è più grande rispetto alla sola problematica processuale-penalistica. Questione che tra l'altro non è stata affatto risolta dal Garante della privacy in occasione dell'incidente Zefi Ilir.

Sebbene l'organo deputato alla tutela della riservatezza abbia emesso un provvedimento datato 19 luglio 2007 proprio per tentare di risolvere la scoperta della banca dati ufficiosa di uno dei Ris Carabinieri, non ha affatto risolto problemi etici della materia. Il Garante in tale provvedimento ha fermamente fissato quelli che sono i limiti normativi per la gestione di una banca dati biologica non facendo, però, affatto riferimento alla ratio della gestione della stessa, ponendo in essere una sorta di riparazione del fatto accaduto e cioè dicendo quello che avrebbe dovuto essere stato fatto in precedenza e non in clandestinità. Ma il problema è più grave. Si rammenti che oltre alla recente sentenza della Corte Europea dei Diritti dell'uomo, di cui alla presente nota, ve ne sono altre precedenti e simili che evidenziano la violazione dell' art. 8 della Cedu.

Giustificare inoltre la presenza di tutta una serie di campioni biologici o dattiloscopici all'interno di un qualsiasi archivio perché considerati corpi del reato o cose pertinenti al reato potrebbe essere una buona soluzione?

Si rammenti che tra gli obblighi della polizia giudiziaria vi è quello dell'assicurazione delle fonti di prova e della raccolta di quest'ultime per l'individuazione del colpevole. Il codice di procedura penale infatti fornisce alla polizia giudiziaria il potere di sequestro di quanto ritenuto di iniziativa utile alle indagini o di quanto individuato dall'autorità giudiziaria.

Ma per tali “cose sequestrate” (di cui in teoria anche il reperto biologico o dattiloscopico) il codice ne evidenzia una vita procedimentale dettando non solo quelli che sono i modi ed i tempi per l'acquisizione, ma anche quelli che sono i tempi ed i modi per la loro conservazione, restituzione all'interessato o la loro confisca (con vendita o distruzione dello stesso-si pensi alle armi o alle sostanze stupefacenti o ai beni sequestrati alla criminalità organizzata che vengono riutilizzati anche dalle forze di polizia stesse). Perché un reperto (rectius un dato oggetto di sequestro probatorio) biologico o dattiloscopico che sia, deve sfuggire a questa disciplina codicistica?

Forse la soluzione potrebbe trovarsi nella legge 85 del 2009 che, come già accennato, ha implementato il Trattato di Prum inerente proprio la banca dati del D.N.A. Ma a ben vedere le norme contenute in tale provvedimento e come infra meglio precisato, non sembra che siano in grado di risolvere tutti i dubbi di cui sopra. Sicuramente ora le banche dati biologiche ufficiose delle forze di polizia italiane hanno una loro ufficializzazione ed una loro conformità (almeno parziale) alla legge sulla privacy, alle norme costituzionali ed a quelle internazionali, ma sono ancora molto lontane dall'essere in linea con quelli che sono i principi della tutela della riservatezza, della vita familiare ed individuale dell'uomo e soprattutto al rispetto del diritto alla non stigmatizzazione ed alla presunzione di innocenza (così come più volte evidenziato anche dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, anche se non direttamente per casi nostrani).

Il dato genetico nel processo penale

Entrando nel particolare della legge 85 del 30 giugno 2009, bisogna però approfondire quello che è il rapporto tra dato genetico e processo penale. Fondamentale è il fatto che le norme di tale atto normativo autorizzano il trattamento dei dati genetici raccolti solamente in caso di procedimento penale pendente e solo ai fini della collaborazione internazionale e per la risoluzione di delitti. Non è assolutamente possibile utilizzare i dati raccolti nella baca dati del D.N.A. per effettuare analisi prognostiche sulla personalità dell'indagato o sospettato o per effettuare ricerche sulle relazioni familiari.

Ma questa relazione con il processo penale non può essere eterna. I dati devono avere, in esecuzione di quelli che sono i già più volte citati principi di privacy, presunzione di innocenza e non stigmatizzazione, un tempo determinato di conservazione, tempo scandito anche, come vedremo, dalla posizione processuale del soggetto geneticamente schedato e dal provvedimento giudiziario che ha concluso (anche non definitivamente) il suo rapporto con la giustizia penale.

A tal riguardo, osservando da vicino suddetto provvedimento normativo, si possono evidenziare due macro aree: quella inerente i tempi di mantenimento dei profili e dei campioni biologici (in ottemperanza al diritto alla vita privata) e quella inerente il rispetto della presunzione di innocenza (in ottemperanza al divieto di stigmatizzazione).

Riguardo alla prima macro area (tempi di mantenimento dei profili e dei campioni biologici ) fa d'obbligo subito precisare che, in via generale, i tempi di conservazione previsti dalla legge n. 85 del 2009 non appaiono in contrasto ne con la Cedu ne con la legge italiana sulla privacy ed anzi, sotto alcuni aspetti, la tutela di quest'ultima è maggiore rispetto agli standard europei.

Nella disposizione di cui all'art. 13, comma 1, della suddetta legge, la cancellazione dei dati genetici conservati presso la banca dati nazionale del D.N.A. risulta, come già accennato, strettamente connessa alla modalità di conclusione procedimento penale. La norma infatti prevede che deve essere disposta d'ufficio sia la distruzione dei campioni, quanto la cancellazione dei profili acquisiti ai sensi dell'art. 9, esclusivamente in conseguenza delle seguenti pronunce di assoluzione con sentenza definitiva:

  • perché il fatto non sussiste;
  • perché l'imputato non lo ha commesso;
  • perché il fatto non costituisce reato;
  • perché il fatto non è previsto dalla legge come reato.

La norma non prevede però l'immediata cancellazione del dato genetico nei confronti di procedimenti non definitivamente conclusi con i seguenti provvedimenti:

ordinanza o decreto di archiviazione;

  • sentenza di non luogo a procedere;
  • sentenza di non doversi procedere (per mancanza di una condizione di procedibilità o per estinzione del reato);
  • sentenza di assoluzione in primo grado.

Quindi i reperti ed i profili biologici di soggetti nei cui confronti il procedimento si sia concluso con uno di quest'ultimi epiloghi non verranno immediatamente distrutti, ma conservati fino al termine massimo previsto dall'art. 13, comma 4, cioè rispettivamente, per venti anni e per quaranta anni. Tale ratio si fonda sulla valutazione di una possibile futura utilità dei suddetti dati; si pensi infatti all'eventualità, nei casi sopra elencati, rispettivamente di una riapertura delle indagini, della revoca della sentenza di non luogo a procedere, della sopravvenienza di una condizione di procedibilità ovvero del giudizio in appello.

Tali tempi (20 e 40 anni) vengono stabiliti direttamente dalla legge 85 del 2009, la quale, sotto questo aspetto, integra perfettamente quanto già “stabilito” con l'oramai famose sentenze del 2008 (S. e Marper c. Regno Unito) e del 2013 (M.K.c Francia) della Corte europea dei diritti dell'Uomo, nel caso di persone non condannate. Si rammenti che le due decisioni della Corte ribadiscono solo che la conservazione dei dati biologici o dattiloscopici è limitata nel tempo, non dandone una quantificazione precisa e rimettendone la determinazione al rispetto del limite di apprezzamento nazionale da parte dei singoli Stati.

Quanto alla seconda macro area di cui sopra (rispetto della presunzione di innocenza) invece, le norme della legge 85/2009 non prevedono una differenziazione di trattamento (sempre sul tempo di conservazione dei dati) tra soggetti condannati, non condannati in via non definitiva o, se in via definitiva, al di fuori delle quattro formule di cui alla macro area precedente. Tale difetto di distinzione ha trovato non poche critiche anche a livello costituzionale e cioè di conformità della norma (art. 13 comma 4 della legge 85/2009) con i principi costituzionali della presunzione di innocenza e del giusto processo. Non solo, ma anche a livello internazionale (si ricordino sempre le già citate sentenze della Corte Europea) tale circostanza di fatto e di diritto non appare affatto foriera da contrasti giuridici che devono essere necessariamente risolti con, si spera, i regolamenti di attuazione della suddetta legge dello Stato. Il nostro ordinamento necessariamente è costretto a muoversi il più presto possibile per dirimere tali lacune normative approfittando del fatto che per ora la Corte si è recentemente pronunciata su due ricorsi (2008 e 2013) proposti avverso altri due Paesi europei. I principi della non stigmatizzazione e della presunzione d'innocenza sono, tra l'altro, anche alla base del nostro ordinamento giuridico caratterizzando profondamente il nostro modello processuale-penalistico dove la sua “prevalenza accusatoria” lo rende uno dei più democratici ed equi del mondo del diritto.

E sempre sulla base dei suddetti principi si fonda anche la gestione dei dati dattiloscopici. Come precedentemente accennato però è necessario da subito evidenziare le profonde differenze che esistono tra il dato biologico e quello dattiloscopico. Il primo è sicuramente più connesso alla problematica della “sensibilità” nel senso che dalla sua utilizzazione si possono desumere informazioni inerenti anche la salute della persona stessa, la sua ascendenza o discendenza. Informazioni queste invece non desumibili dal dato dattiloscopico che dal canto suo ha un fine esclusivo di prevenzione o repressione dei reati.

Quindi la problematica che più si attaglierebbe a quest'ultimo non sarebbe tanto la sensibilità delle informazioni desumibili, quanto il combaciare con il principio della non stigmatizzazione o della presunzione d'innocenza.

L'acquisizione delle impronte digitali è una partica di polizia già consolidata nel tempo della cui estrema utilizzabilità investigativa e processuale sarebbe addirittura inutile discuterne.

Quello che invece fa d'uopo sottolineare in questa sede è che le impronte digitali, a differenza del profilo biologico, vengono prelevate al sospettato anche in caso di misura precautelare o cautelare; il cosiddetto foto segnalamento. Il cartellino segnaletico così generato, rimane agli atti della Polizia Giudiziaria operante e spedito in copia al casellario centrale d'identità. Tale conservazione però non è eterna in rispetto dei principi fondamentali di cui sopra, ma proporzionata a quelle che sono le esigenze investigative potendo essere cancellate anche a richiesta dell'interessato. Si rammenti inoltre che la Legge autorizza le Forze di Polizia al prelievo di impronte digitali anche per fini di Pubblica Sicurezza e non solo di Polizia Giudiziaria, come per esempio allo scopo dell'identificazione di persone cosiddette “pericolose o sospette” nei confronti delle quali non si abbia certezza della loro identità.

La comparazione con le impronte all'uopo repertate avviene proprio con le informazioni dattiloscopiche gestite dal casellario centrale d'identità e per quanto di competenza dai Gabinetti di polizia scientifica e dal reparto dattiloscopia preventiva dei carabinieri in sede di investigazioni scientifiche.

Volendo quindi proiettare l'interpretazione della Corte europea dei diritto dell'uomo dell'aprile 2013 all'interno del nostro ordinamento giuridico per quanto attiene invece non al dato biologico ma al prelievo, utilizzo e conservazione del dato dattiloscopico, si può affermare che nonostante le due aree di investigazioni scientifiche siano sovrapponibili in relazione ai suddetti principi fondamentali, la sentenza di cui alla presente nota non incide, se non in linea di principio, con la legislazione italiana inerente la materia della dattiloscopia preventiva e giudiziaria che sia.

Negli ultimi anni poi, sempre per finalità di sicurezza e repressione dei reati, si sono sviluppati anche altri settori all'interno delle cosiddette tecniche biometriche. Quest'ultime altro non sono che quelle tecniche finalizzate al riconoscimento dell'identità dell'individuo su parametri sia biologici che antropologici. Fanno parte di tali tecniche oltre alle già citate scienze biologico-forensi e dattiloscopiche, quelle che si occupano del riconoscimento dell'iride, dell'andatura del soggetto, della conformazione del volto o di altre parti del corpo, della voce ed addirittura del comportamento.

Sebbene già da alcuni anni (soprattutto nei paesi anglosassoni) il campo d'applicazione di tali tecniche si sia sviluppato enormemente, ancora l'Italia predilige la cautela nei loro confronti. Questo non significa che un volto, una voce od una parte del corpo non possa essere elemento portante all'interno di un riconoscimento o di una ricognizione personali o fotografiche che siano, ma che ancora ai fini investigativi non si hanno a disposizione delle banche dati nel vero senso della parola.

Anche per questo aspetto, come si raccorderebbero con la legislazione sulla privacy e con i principi fondamentali della non stigmatizzazione e della presunzione d'innocenza? A parere dello scrivente i suddetti dati, tranne per quelli biologici, non essendo particolarmente sensibili se non per la loro utilizzazione processuale, sarebbero accostabili alla modalità di gestione del dato dattiloscopico.

In conclusione

Giusto processo, uguaglianza di fronte alla legge, diritto di difesa, presunzione d'innocenza, principio di legalità e diritto alla riservatezza; tutti principi costituzionalmente garantiti dalla nostra Carta Fondamentale che hanno trovato e trovano continua applicazione all'interno delle leggi dello Stato e nelle norme di diritto internazionale e comunitario.

Ma le norme, si sa, descrivono una fattispecie astratta, svuotata dalla sua concretezza; tale vuoto è necessario, altrimenti una norma non potrebbe godere della caratteristica della generalità. Ma è proprio su questo delicatissimo equilibrio, tra astratto e concreto, che spesso si creano i più aspri attriti e contrasti. Prevedere già un comportamento in linea di principio e poi sperare che nella sostanza sia perfetto è praticamente impossibile.

Non solo; le norme assolvono poi ad una funzione fondamentale che quella di cercare di far cessare un' allarme sociale rispetto al quale lo Stato deve intervenire. Ed allora il suddetto equilibrio è ancora più precario: proteggere i consociati dai pericoli derivanti anche dai più semplici reati, quando poi gli stessi consociati lamentano delle perdite di libertà, sembra essere un gioco perverso come quello del cane che si morde la coda.

Allora come può un ordinamento giuridico porre in essere un apparato normativo che sia in grado di dare una risposta forte, certa e sicura alla domanda di protezione dei cittadini quando poi dall'altra parte deve fare i conti con le più disparate garanzie di trattamento? La risposta può provvedere con adeguate norme ma con i fisiologici errori. E questo lo si vede costantemente e non se la prendano i forti sostenitori dell'europeismo se si afferma che questi problemi non sono solamente italiani ma, come abbiamo finora visto, di tutta l'Europa (e non solo).

Questo vuol dire solamente una cosa; che effettivamente il già citato punto d'equilibrio tra sicurezza e garanzia dipende dal momento storico di riferimento; ciò significa che quello che una volta era giudicato come eccessivamente repressivo, oggi potrebbe essere la risposta giusta al massiccio incremento della criminalità o viceversa.

Negli ultimi decenni si è assistito ad una forte esigenza di garanzie, riservatezza, vita privata, uguaglianza, presunzione di innocenza e non stigmatizzazione; tutti principi fondamentali dell'uomo, appunto, che non dovrebbero mai essere dimenticati, ma che, anche nella lungimiranza della Corte europea dei diritti dell'Uomo vengono trattati con una certa elasticità.

Infatti si è potuto notare che la stessa Corte Edu non entra nei dettagli circa, per esempio, i periodi di conservazione dei campioni biologici/dattiloscopici, rimettendo alle leggi interne di uno Stato una giusta ed equilibrata valutazione degli stessi. Questo vuol dire che anche la orte Edu parte dal già citato presupposto: tutto è relativo al caso concreto ed al momento storico ed in più, trattandosi di diritto, è sicuramente e largamente interpretabile.

In conclusione, il vero sforzo da parte di un ordinamento giuridico non è il capire o l'interpretare questo o quel principio ma tramutare quest'ultimo in una norma giuridica che per antonomasia non sarà eterna e che quindi, già dall'inizio, deve lasciare spazio alla sua modificabilità ed adattabilità alle continue trasformazioni sociali.

In quest'ottica si è potuto notare che spesso, non solo in Italia, i singoli apparati normativi non combaciano perfettamente con quelli internazionali. Questo non è frutto di negligenza od incapacità da parte del singolo Stato di farvi fronte ma è frutto del normale periodo di assestamento ed adattamento socio-normativo.

Guida all'approfondimento

V. MARCHESE, D. RODRIGUEZ, L. CAENAZZO, Banche dati forensi. Riflessioni etico-giuridiche alla luce della legge 85/2009 in Biblioteca contemporanea, libreriauniversitaria.it;

A. M. CAPITTA, Conservazione dei DNA profiles e tutela europea dei diritti dell'uomo, in archiviopenale.it;

MEZZANOTTE, Il diritto all'oblio, Napoli, 2009.

F. CASASOLE La conservazione di campioni biologici e di profili del D.N.A nella legge Italiana, alla luce del dibattito europeo” in unipv-lawtech.eu;

G. GENNARI Genetica forense e codice della privacy: riflessioni su vecchie e nuove banche dati, in unipv-lawtech.eu.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.

Sommario