Thyssenkrupp. Ultimo atto
03 Febbraio 2017
Abstract
Con la sentenza n. 52511 (depositata il 12 dicembre 2016) la suprema Corte chiude definitivamente il procedimento relativo all'incendio scoppiato nella notte tra il 5 e il 6 dicembre 2007 nell'acciaieria torinese di proprietà della multinazionale tedesca ThyssenKrupp, nel quale avevano trovato la morte sette operai addetti alla linea di ricottura e decapaggio e del quale erano stati chiamati a rispondere in sede penale l'amministratore delegato e cinque dirigenti della società proprietaria dello stabilimento. Il fatto di contestazione
Gli atti, dopo la pronuncia di annullamento parziale delle Sezioni unite (Cass.24 aprile 2014, n. 38343), erano stati tramessi a diversa sezione della Corte d'assise d'appello di Torino, investita del compito di rideterminare la pena nei confronti degli imputati conformemente alle deliberazioni delle Sezioni unite. A seguito di nuova impugnazione da parte delle difese degli imputati, il fascicolo approdava nuovamente in Cassazione. Quanto ai fatti contestati, va ricordato che nel predetto stabilimento enormi rotoli di acciaio allo stato grezzo venivano dapprima fatti passare tra i cilindri del laminatoio; quindi erano sottoposti alla fase di ricottura, trattamento termico in forno finalizzato a restituire al metallo le caratteristiche originarie; infine, erano avviati alla procedura di decapaggio tramite immersione in vasche contenenti sostanze acide, al fine di conferire lucentezza e perfezione estetica al prodotto. Il sinistro è avvenuto presso la linea dello stabilimento denominata APL5, lunga oltre 200 metri e dedicata alle fasi di ricottura e decapaggio, ove giungevano i rotoli di acciaio provenienti dalla fase di laminazione. Le relative bobine, intrise di olio trattenuto tra le spire e nella apposita carta di separazione (c.d. carta interspira), venivano sistemate su apposite strutture (aspo svolgitore), dalle quali avanzavano srotolandosi lungo l'impianto. Questa la tragica sequenza, sostanzialmente non controversa, delle contingenze che determinarono l'innesco e lo sviluppo dell'incendio: sfregamento per alcuni minuti del nastro di acciaio in lavorazione contro le sponde delle linea posta a 3 metri di altezza; surriscaldamento con scintille; appiccamento delle fiamme su carta ed olio di laminazione che si trovava sul pavimento sotto l'impianto; contatto delle fiamme con un flessibile in gomma contenente olio idraulico ad alta pressione, che cedeva con proiezione dell'olio nell'aria; deflagrazione della miscela nebulizzata; formazione di una nuvola incandescente di olio nebulizzato (c.d. flash fire) che si espandeva improvvisamente per un'ampiezza di 12 metri ed investiva gli operai avvicinatisi all'incendio con estintori a breve gittata, senza lasciare loro possibilità di scampo. In relazione ai suddetti accadimenti, veniva esercitata azione penale nei confronti dell'amministratore delegato della TKAST e di altre 5 persone titolari di posizioni di garanzia nell'ente societario per il reato ex art. 437, commi 1 e 2, del codice penale. Nei riguardi del solo amministratore delegato era formulata imputazione ex artt. 81 e 575 c.p., per aver cagionato volontariamente la morte dei lavoratori, nonché ai sensi dell'art. 423 c.p., per aver volontariamente causato un incendio violento, rapido e di vaste proporzioni presso la linea APL5, da cui sono derivati gli eventi mortali; incendio ed eventi mortali che, invece, la pubblica accusa qualificava colposi nei confronti degli altri imputati. Si aggiungeva, inoltre, la responsabilità da reato della TKAST ai sensi dell'art. 25-septies, d.lgs. 231/2001. Emerse, così, un complessivo degrado dell'impianto, sostanzialmente dovuto alla decisione della società di dismetterlo per trasferire gli impianti a Terni, con conseguente cessazione degli investimenti per la sicurezza nella sede di Torino. In particolare, furono rilevate significative carenze nella manutenzione e molteplici violazioni di misure antinfortunistiche, che contribuirono a determinare il devastante incendio che produsse il c.d. flash fire, vale a dire una nuvola incandescente di olio nebulizzato che si espande immediatamente, non lasciando scampo agli operai che ne vennero investiti. La sentenza di primo grado
In data 15 aprile 2011, la seconda sezione della Corte di assise di Torino (Corte ass. Torino, Sez. II, dep. 11 novembre 2011, Espenhahn, vedi nota di ZIRULIA, Thyssenkrupp: fu omicidio volontario) condannava l'amministratore delegato della società ThyssenKrupp Terni S.p.A. per i delitti di omicidio volontario (art. 575 c.p.) e incendio doloso (art. 423 c.p.) – commessi con dolo eventuale – rimproverando a quest'ultimo di aver preso la decisione di posticipare i necessari investimenti antincendio, omettendo una adeguata e completa valutazione del rischio incendio, una effettiva organizzazione dei percorsi informativi e formativi nei confronti dei lavoratori e l'installazione di un sistema automatico di rivelazione e spegnimento incendi, e così cagionando la morte dei sette lavoratori attinti dalle fiamme. I giudici di primo grado, inoltre, riconoscevano la responsabilità di cinque altri dirigenti della società per i meno gravi delitti di omicidio colposo (art. 589 c.p.) e incendio colposo (artt. 423, 449 c.p.) – entrambi aggravati dalla previsione dell'evento – per avere omesso, nell'esercizio delle rispettive funzioni, di sottolineare l'esigenza di adottare le necessarie misure di prevenzione degli incendi presso lo stabilimento de quo. Veniva, infine, riconosciuta la responsabilità di tutti gli imputati per il delitto di omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro, aggravato dalla verificazione dell'evento di disastro e infortuni (art. 437, comma 2, c.p.), per aver omesso, nell'ambito delle rispettive attribuzioni e competenze [...] di adottare un sistema automatico di rivelazione e spegnimento incendi nella linea di ricottura e decapaggio nella quale era scoppiato l'incendio. Riconosciuta la sussistenza del vincolo della continuazione tra i vari reati (art. 81, comma 2, c.p.), all'amministratore delegato veniva inflitta la pena di 16 anni e sei mesi di reclusione, mentre a cinque altri dirigenti venivano irrogate pene comprese tra 13 anni e 6 mesi di reclusione e 10 anni e 10 mesi di reclusione. Quanto alla importante questione relativa alla distinzione tra dolo eventuale e colpa cosciente, la sentenza di primo grado della Corte di assise di Torino richiama, condividendola, la giurisprudenza della Corte di cassazione che ha ravvisato nel dolo eventuale l'accettazione da parte dell'agente della concreta possibilità, intesa in termini di elevata probabilità, di realizzazione dell'evento accessorio allo scopo conseguito in via primaria. In quella giurisprudenza si afferma che l'agente pur non avendo avuto di mira un determinato accadimento, ha tuttavia agito anche a costo che questo si realizzasse, sicché lo stesso non può non considerarsi riferibile alla determinazione volitiva, mentre si versa invece nell'ambito della colpa cosciente, sempre alla stregua di tale giurisprudenza, quando l'agente abbia posto in essere la condotta nonostante la rappresentazione dell'evento, ma ne abbia escluso la possibilità di realizzazione, non volendo né accettando il rischio che quel risultato si verifichi, nella convinzione o nella ragionevole speranza di poterlo evitare, con la precisazione che, nel dolo eventuale, occorre anche una deliberazione con la quale l'agente subordina consapevolmente un determinato bene ad un altro. Su queste basi, i giudici di primo grado rinvenivano nel comportamento dell'amministratore delegato la sussistenza degli indicati requisiti individuanti il dolo eventuale, in quanto, lo stesso, aveva perfetta consapevolezza del fattori di rischio e dello stato di progressivo degrado dello stabilimento di Torino e dispose altresì deliberatamente l'accantonamento dei fondi antincendio esistenti, di talché, essendo peraltro una persona preparata, competente e scrupolosa, si rappresentò la concreta possibilità, la probabilità del verificarsi un incendio, di un infortunio anche mortale sulla linea APL5 e, tuttavia, in vista degli interessi economici perseguiti dall'azienda, omise qualsiasi intervento di prevenzione antincendio così accettando il rischio dell'evento. Ciò a causa dell'azzeramento degli investimenti e degli interventi Indispensabili, nonché dell'azzeramento delle condizioni minime di sicurezza indispensabili. Si concludeva, pertanto, che l'imputato era ben consapevole delle implicazioni sottese alla scelta aziendale e, decidendo di non effettuare alcun intervento di prevenzione, agì anche a costo che si verificassero eventi drammatici. Infine, si è escluso che avesse una qualsiasi rilevanza l'atteggiamento psicologico dell'imputato, il quale confidava che nulla accadesse, ritenendosi che la speranza, per poter limitare l'elemento soggettivo all'ambito della colpa cosciente, deve essere caratterizzata dalla ragionevolezza, il che, a parere della Corte, non poteva riscontrarsi nella fattispecie. La sentenza di appello
Successivamente, in data 28 febbraio 2013, la Corte di assise di appello di Torino (Corte ass. app. Torino, dep. 23 maggio 2013, n. 6, Espenhahn, vedi nota di ZIRULIA, Thyssenkrupp: confermate …) riqualificava i fatti contestati all'A.D. nei delitti di omicidio colposo e incendio colposo, entrambi aggravati dalla previsione dell'evento, ritenendo assorbito, per tutti gli imputati, il delitto di incendio colposo nel delitto di omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro, aggravato dalla verificazione dell'evento di disastro e infortuni (art. 437, comma 2, c.p.), per l'operare del principio di specialità. Le pene inflitte per i due delitti – secondo i giudici d'appello, in concorso formale tra loro (art. 81, comma 1, c.p.) – venivano così rideterminate in dieci anni di reclusione per l'A.D. e in un range compreso tra i sette e i nove anni di reclusione per gli altri imputati. Avuto riguardo alla distinzione tra dolo eventuale e colpa cosciente, la Corte di assise di appello evidenziava che non è la previsione dell'evento bensì la volizione a differenziare il dolo eventuale dalla colpa cosciente e che l'accettazione del rischio non può avvenire per pura disattenzione, noncuranza o mero disinteresse, ma a seguito di un'opzione, di una deliberazione con la quale l'agente consapevolmente sceglie fra l'agire accettando l'eventualità di commettere l'azione vietata e il non agire e che in ogni caso l'accettazione e la volizione hanno come oggetto non il rischio di evento ma esattamente l'evento di reato. Censurando il giudizio di ritenuta irragionevolezza da parte dei primi giudici circa le giustificazioni offerte dall'amministratore imputato sulla speranza che non si verificassero gli eventi di reato, si afferma invece che la ricostruzione della discussa fattispecie dolosa richiede di mettere a confronto l'obiettivo perseguito dall'agente con l'evento di danno non voluto ma previsto come possibile quale conseguenza della condotta. Ed è proprio questo tipo di comparazione tra obiettivo perseguito ed eventi dannosi a risolvere in maniera nettamente negativa la verifica ipotetica. Scopo delle condotte era un obiettivo di risparmio o meglio l'accantonamento di fondi in vista del trasferimento degli impianti in Terni, dove sarebbero stati riutilizzati. A tali obiettivi vanno giustapposti gli eventi di reato: essi sono tecnicamente disastrosi. I danni prevedibili in caso di verificazione dei reati per l'azienda sarebbero stati molteplici. Anche a voler accantonare le valutazioni di carattere morale connesse alla morte di dipendenti, rimangono danni di rilevantissima entità: la distruzione degli impianti, il blocco della produzione, il risarcimento dei danni per le morti, i danni all'immagine della società. Secondo la Corte di assise di appello, dunque, doveva concludersi che il disastroso evento verificatosi non poteva in alcun modo ricondursi ad una previsione accettata dall'amministratore, ma andava collocato nell'ambito di una responsabilità colposa. La sentenza delle Sezioni unite
In data 24 aprile 2014, la sentenza d'appello veniva a sua volta parzialmente annullata dalla Corte di cassazione a Sezioni unite (dep. 18 settembre 2014, n. 38343). In particolare, pur condividendo nella sostanza le conclusioni della sentenza d'appello con riferimento alla qualificazione dei fatti contestati all'amministratore delegato come omicidio e incendio colposi, i giudici di legittimità negavano innanzitutto che potesse dirsi integrata l'ipotesi aggravata del delitto di omissione dolosa contro infortuni sul lavoro. Secondo le Sezioni unite, infatti, non poteva dirsi provato che l'adozione della singola misura cautelare posta a fondamento dell'imputazione ex art. 437 c.p. – ossia, la realizzazione di un impianto antincendio automatico nella linea di ricottura e decapaggio – avrebbe evitato il verificarsi dell'incendio realizzatosi nella tragica notte del 5 dicembre 2007. Secondo le Sezioni unite, infatti, ove pure a Torino si fosse proceduto con [...] celerità [...] l'impianto non sarebbe stato certamente ultimato nel dicembre 2007, ma, al più presto, a metà del 2009, cioè oltre un anno dopo i drammatici eventi oggetto del procedimento. Da tale conclusione, ad opinione della suprema Corte, derivava in primo luogo la riacquisizione di autonomia del delitto di incendio colposo di cui agli artt. 423, 449 c.p. in luogo del suo assorbimento del reato di incendio nella originaria fattispecie aggravata di cui al secondo comma dell'art. 437 c.p. In secondo luogo, a differenza di quando ritenuto dai giudici d'appello, il delitto di omissione dolosa di cautele non doveva più considerarsi in rapporto di concorso formale con quello di omicidio colposo (art. 589 c.p.), posto che mentre il reato di cui all'art. 437 è caratterizzato dalla dolosa omissione di una specifica cautela doverosa, quello di omicidio colposo [...] discende da una fitta serie di condotte colpose, nonché a maggior ragione proprio per l'effetto dell'esclusione dell'aggravante di cui al già richiamato capoverso dell'art. 437 c.p. Dovevano invece considerarsi, certamente tra loro in concorso formale, poiché espressione dei medesimi fatti i reati di incendio colposo e omicidio colposo. È pertanto condivisa l'affermazione dei giudici d'appello secondo cui plurimi significativi indicatori di allarme segnalavano il rischio di flash fire ed imponevano, in conseguenza, di installare l'impianto di rivelazione e spegnimento oggetto della contestazione del reato di cui all'art. 437 cod. pen. Al riguardo sussiste il dolo: v'era piena consapevolezza da parte di ciascun imputato del dovere di installare l'impianto di protezione ed altrettanto piena intenzionalità di farlo slittare dopo il previsto trasferimento della linea presso lo stabilimento di Terni. La sentenza impugnata, tuttavia, risultava vulnerabile per ciò che attiene alla dimostrazione della sicura, esclusiva relazione causale condizionalistica tra l'omessa installazione dell'impianto di rilevazione e gli eventi lesivi. È un dato di fatto, si legge più avanti, che in Terni l'impianto in questione fu ultimato e collaudato a metà del 2009, cioè oltre un anno dopo i drammatici eventi di Torino. Sulla base di tali concreti, effettuali, altamente significativi elementi comparativi, reali e non astrattamente ipotetici, è agevole agire il controfattuale in chiave puramente logica: ove pure a Torino si fosse proceduto con la documentata celerità riscontrata nello stabilimento di Terni, l'impianto non sarebbe stato certamente ultimato nel dicembre 2007. Mancando la connessione causale tra la specifica omissione dolosa e gli eventi lesivi (disastro/infortunio), non è ritenuta sussistente l'aggravante al comma 2 dell'art. 437 c.p. e cadevano le plurime e controverse questioni in ordine all'assorbimento nel predetto capoverso dei delitti di incendio ed omicidio colposo. La sentenza d'appello risultava senz'altro corretta, invece, quanto alla individuazione delle posizioni di garanzia in capo agli imputati ed all'analisi degli innumerevoli profili di colpa. Le Sezioni unite hanno al riguardo offerto una sintesi delle principali carenze cautelari riscontrate: aver proceduto nelle lavorazioni senza aver ancora ottenuto il certificato di prevenzione incendi. Non aver correttamente valutato i rischi e provveduto alla loro eliminazione o riduzione. Non avere il datore di lavoro, in collaborazione con il RSPP, valutato adeguatamente i rischi per la sicurezza dei lavoratori ed adottato un documento di valutazione dei rischi con l'indicazione delle misure di tutela appropriate, fra cui il sistema di rivelazione e spegnimento automatico delle fiamme. Non aver dato istruzioni ai lavoratori di mettersi immediatamente al sicuro in caso di pericolo grave. Non averli allertati attraverso una adeguata informazione sui rischi specifici cui erano esposti. Non averli adeguatamente formati in materia di sicurezza ed in particolare non aver curato che quelli incaricati della prevenzione e lotta antincendio fossero adeguatamente formati attraverso corsi durante l'orario di lavoro. Non aver fornito attrezzature idonee ai fini della sicurezza, sottoposte a verifiche periodiche. Non aver definito la linea APL5 a rischio elevato di incendio. Non aver valutato il rischio di incendio alla luce del D.M. 10 marzo 1998. Tali violazioni della disciplina antinfortunistica sono state, da un lato, effetto di scelte strategiche – differire gli interventi di prevenzione antincendio ad epoca successiva al trasferimento della linea a Terni – e, dall'altro, cause del disastro: non v'è dubbio per le Sezioni unite che l'adozione di tutte le cautele doverose, primarie e secondarie, avrebbe certamente evitato il drammatico sinistro. La Cassazione ha condiviso, pertanto, l'affermazione di responsabilità nei confronti di tutti gli imputati in ordine agli illeciti colposi ex artt. 589 e 423 del codice penale. A fronte delle divergenti prese di posizione dei giudici di primo e secondo grado e delle serrate critiche mosse in proposito dalla pubblica accusa alla sentenza di appello, le Sezioni Unite si sono adoperare per far luce sull'incerto confine tra dolo eventuale e colpa cosciente. L'analisi della letteratura in proposito – sovente riflessa nell'elaborazione giurisprudenziale – lasciava intravedere due orientamenti di fondo. Uno mostra attenzione per l'aspetto di scelta personale, il profilo intellettuale, razionale che sorregge la decisione per l'azione, da tenere distinto dagli aspetti per così dire emozionali dell'atteggiamento interiore. Trattasi di un avviso implicante il grave rischio che il dolo, fondandosi interamente su analisi a sfondo probabilistico, perda gran parte del suo connotato di concreto atteggiamento interiore ed assuma un volto astratto, oggettivato, presuntivo, così vulnerando il principio di colpevolezza. Diverso è l'indirizzo che, invece, tenta in vario modo d'introdurre un temperamento considerando anche il concreto atteggiamento soggettivo di fronte al verificarsi del risultato, cioè tentando di cogliere se vi fu realmente, nella contingente irripetibile particolarità del caso, quell'atteggiamento concreto di accettazione del risultato che contrassegna il dolo eventuale. Pure in tale approccio si scorge un pericolo dal quale occorre guardarsi: quello, cioè, di far dipendere l'essere o non essere del reato dalla sfera emotiva dell'agente, dalla sua maggiore o minore sensibilità, dal livello del senso della realtà. Al di là delle disquisizioni teoretiche, le Sezioni unite affermano che la giurisprudenza, quando il contesto è davvero controverso, predilige l'approccio volontaristico e si dedica con grande attenzione alla lettura dei dettagli fattuali che possono orientare alla lettura del moto interiore che sorregge la condotta. È il dato testuale dell'art. 43 c.p., del resto, a far emergere l'elemento cardine per discernere tra dolo e colpa: l'essere o non essere della volontà. Dolo e colpa sono forme di colpevolezza radicalmente diverse, per certi versi antitetiche. Nel dolo si è in presenza dell'agire umano ordinato, organizzato, finalistico. Un processo intellettuale che, lungamente elaborato o subitaneamente elaborato e concluso, sfocia pur sempre in una consapevole decisione che determina la condotta antigiuridica. Qui il rimprovero giuridico coglie la scelta d'azione, o d'omissione, che si dirige nel senso della offesa del bene giuridico protetto. Non può mancare la puntuale, chiara conoscenza di tutti gli elementi del fatto storico propri del modello legale descritto dalla norma incriminatrice, venendo meno, altrimenti, il presupposto cognitivo della relazione di adesione interiore. Anche nella colpa cosciente la verificazione dell'illecito da prospettiva teorica diviene evenienza concretamente presente nella mente dell'agente; e mostra per così dire in azione l'istanza cautelare. L'agente è consapevole di essere entro una situazione rischiosa e per trascuratezza, imperizia, insipienza, irragionevolezza o altra biasimevole ragione ci si astiene dall'agire doverosamente. Ma tale situazione è tutt'affatto diversa da quella prima delineata a proposito della puntuale conoscenza del fatto quale fondamento del rimprovero doloso; nella colpa la rappresentazione dell'evento può ben essere vaga ed alquanto sfumata, pur preservando i tratti essenziali che connettono causalmente la violazione cautelare con l'evento medesimo. Sono radicali le critiche che la Corte muove verso l'orientamento che individua nella colpa cosciente una previsione seguita da una controprevisione, cioè da una previsione negativa circa la verificazione dell'evento; e nel dolo eventuale, per conseguenza, un dubbio irrisolto; detta soluzione ermeneutica svuota il dolo di ogni reale contenuto volitivo che coinvolga la relazione tra condotta ed evento. Con altrettanta nettezza, viene respinta l'opinione che identifica il dolo eventuale con l'accettazione del rischio, finendo così col trasformare gli illeciti di evento in reati di pericolo. Colgono nel segno, invece, la dottrina e la giurisprudenza che valorizzano la rilevanza della volontà e della sua ricerca anche nell'ambito della figura di cui si discute. Per il supremo Collegio è decisivo che si faccia riferimento ad un reale atteggiamento psichico che, sulla base di una chiara visione delle cose e delle prospettive della propria condotta, esprima una scelta razionale; e, soprattutto, che esso sia rapportato allo specifico evento lesivo ed implichi ponderata, consapevole adesione ad esso, per il caso che abbia a realizzarsi. Nella scelta di condotta dev'essere ravvisabile una consapevole presa di posizione di adesione all'evento, che consenta di scorgervi un atteggiamento ragionevolmente assimilabile alla volontà, sebbene da essa distinto: una volontà indiretta o per analogia, si potrebbe dire. Dovendosi indagare nella sfera interiore dell'individuo, entra in gioco il paradigma indiziario. Vanno cercati sulla scena i segni dai quali inferire la sicura accettazione degli effetti collaterali della propria condotta e, dunque, si tratterà, nei limiti del possibile, di tentare di spiegare l'accaduto, di ricostruire l'iter decisionale, di intendere i motivi che vi hanno agito, di cogliere, insomma, perché ci si è determinati in una direzione. Occorrerà comprendere se l'agente si sia lucidamente raffigurata la realistica prospettiva della possibile verificazione dell'evento concreto costituente effetto collaterale della sua condotta, si sia per così dire confrontato con esso e infine, dopo aver tutto soppesato, dopo aver considerato il fine perseguito e l'eventuale prezzo da pagare, si sia consapevolmente determinato ad agire comunque, ad accettare l'eventualità della causazione dell'offesa. Le Sezioni unite offrono una rassegna di indizi o indicatori adeguati per la ricostruzione del processo decisionale. A parte il noto rilievo della condotta negli illeciti di sangue (le caratteristiche dell'arma, la ripetizione dei colpi, le parti prese di mira e quelle colpite), negli ambiti governati da discipline cautelari rileva la lontananza della condotta standard, nel senso che quanto più grave ed estrema è la colpa tanto più si apre la strada ad una cauta considerazione della prospettiva dolosa. La personalità, la storia e le precedenti esperienze dell'imputato talvolta indiziano la piena, vissuta consapevolezza delle conseguenze lesive che possono derivare dalla condotta; e la conseguente accettazione dell'evento. Fermo restando che l'esperienza può assumere significato in senso contrario, come nell'ipotesi del pilota d'auto temprato da molte gare che affronta fiducioso rischi maggiori di un conducente ordinario, confidando che l'abilità acquisita lo aiuterà in eventuali contingenze critiche. Rileva anche la durata e la ripetizione della condotta, giacché un comportamento repentino, impulsivo, accredita l'ipotesi di un'insufficiente ponderazione di certe conseguenze illecite. Utili indicatori sono pure la condotta successiva al fatto; le finalità dell'agente e la relativa compatibilità delle conseguenze collaterali non direttamente volute; la probabilità di verificazione dell'evento (da considerare non in astratto ma dal punto di vista dell'agente, della percezione che questi ne ha avuta); le conseguenze negative o lesive anche per l'agente in caso di verificazione dell'evento; il contesto lecito od illecito (una situazione illecita di base indizia più gravemente il dolo). Senz'altro valida è per le Sezioni unite la prima formula di Frank, secondo cui il dolo eventuale va escluso quando, alla stregua delle concrete acquisizioni probatorie, è possibile ritenere che l'agente non si sarebbe trattenuto dalla condotta illecita neppure se avesse avuto contezza della sicura verificazione dell'evento. È essenziale, tuttavia, che si sia in possesso di informazioni altamente affidabili che consentano di esperire il controfattuale e di rispondere con sicurezza alla domanda su ciò che l'agente avrebbe fatto se avesse conseguito la previsione della sicura verificazione dell'evento illecito collaterale. Resta fermo, avverte la Corte, che il catalogo degli indicatori è aperto e ciascuna fattispecie concreta, analizzata profondamente, può mostrare plurimi segni peculiari in grado di orientare la delicata indagine giudiziaria sul dolo eventuale. In ogni modo, nei casi incerti il principio del favor rei dovrebbe sempre orientare a configurare la colpa cosciente, affinché non si disperda il tratto fondante del dolo, costituito dalla connessione tra l'atteggiamento interiore e l'evento. Tornando al caso sub judice, la sentenza della Corte di assise di Torino, al di là degli enunciati, secondo la Cassazione ha erroneamente letto i fatti alla luce della teoria dell'accettazione del rischio che, come si è esposto, soprattutto nelle sue forme più radicali, obliterando l'intreccio tra condotta, rappresentazione ed evento, costituisce il più insidioso ostacolo al riconoscimento della tipica colpevolezza dolosa che proprio su tale intreccio si fonda alla stregua dell'art. 43 cod. pen. È pure artificiosa la distinzione che la prima sentenza prospetta tra l'atteggiamento psichico dei diversi imputati visto che essi […] erano i protagonisti attivi del medesimo processo decisionale e vi contribuirono, ciascuno secondo il proprio ruolo e le proprie prerogative. Ma il più radicale ostacolo all'accoglimento della tesi accusatoria, rileva il supremo Collegio, è la considerazione della personalità dell'amministratore delegato della TKAST. È pacifico che la holding aveva avviato una decisa campagna di lotta senza quartiere al fuoco e che l'imputato era un importante dirigente, cui era stato affidato un ruolo di grande rilievo: nulla induce a ritenere che egli abbia scientemente disatteso tale forte indicazione di politica aziendale accedendo alla prospettiva di generare eventi simili a quello disastroso avvenuto nello stabilimento di Krefeld nel 2006. Si aggiunge, infine, il riferimento alle visite dell'amministratore delegato, prima delle quali lo stabilimento veniva "tirato a lucido": orbene, non vi è dubbio che tale accorgimento inducesse l'amministratore ad una percezione inesatta della reale situazione. Condivisa la negazione del dolo eventuale già motivata dal giudice di appello, la Cassazione dichiara irrevocabili le parti della sentenza impugnata che attestano la responsabilità di tutti gli imputati per i delitti di cui agli artt. 437 comma 1, 589 commi 1, 2 e 3, 61 n. 3, e 449 c.p. in relazione agli artt. 423 e 61 n. 3. Negata la sussistenza dell'aggravante di cui al capoverso dell'art. 437 c.p., si dispone rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Torino per il nuovo computo delle sanzioni. S'imponeva, in definitiva, la trasmissione degli atti ad altra sezione della Corte d'Assise di Appello di Torino per la rideterminazione della pena in ordine a ciascuno dei tre reati – omicidio colposo plurimo, omissione dolosa di cautele (esclusa l'aggravante di cui al secondo comma) e incendio colposo – dei quali gli imputati erano ormai dichiarati definitivamente responsabili. La pronuncia dei giudici del rinvio
Gli atti del procedimento venivano così trasmessi a diversa sezione della Corte d'assise d'appello di Torino, investita, questa volta, del compito di rideterminare la pena nei confronti degli imputati conformemente alle deliberazioni dei giudici di legittimità. Chiamati ad occuparsi del procedimento, i giudici del rinvio confermavano le pene originariamente inflitte dalla prima sezione della Corte d'assise di appello di Torino con riferimento al delitto di omicidio colposo (plurimo), assumendo che la stessa non fosse stata oggetto di intervento censorio da parte della Corte di cassazione e, in subordine, ritenendola comunque condivisibile; infine, operati gli aumenti e le addizioni rispettivamente dovuti in ragione del concorso formale con il reato di incendio colposo e del concorso materiale con quello di omissione dolosa di cautele contro infortuni sul lavoro, condannavano gli imputati a pene comprese tra nove anni e otto mesi e sei anni e otto mesi di reclusione. La sentenza pronunciata dal giudice del rinvio veniva, però, nuovamente impugnata dagli imputati che lamentavano, tra l'altro, la mancata riduzione della pena inflitta per il delitto di omicidio colposo. In particolare, ad avviso dei ricorrenti, l'esclusione dell'aggravante della verificazione del disastro prevista dall'art. 437, comma 2, c.p., in ragione dell'irrilevanza, sul piano causale, dell'omessa predisposizione di un sistema automatico di rivelazione e spegnimento incendi ai fini dell'impedimento dell'evento, avrebbe dovuto necessariamente comportare anche una correlativa diminuzione di pena inflitta per il delitto di omicidio colposo. Invero, la conclusione delle Sezioni unite, secondo le quali una delle numerose negligenze di cui gli imputati si erano resi responsabili – l'omessa installazione di un impianto antincendio automatico – non aveva assunto alcuna rilevanza sul piano causale ai sensi dell'art. 437, comma 2, c.p., avrebbe in buona sostanza “eliso” un addebito di colpa che, assieme ad altri, era stato posto alla base della valutazione relativa al gravità del reato (art. 133 c.p.) nella commisurazione della pena per il delitto di omicidio colposo in grado d'appello. In conclusione
Con la sentenza in esame, la Corte di cassazione ha rigettato tutte le doglianze degli imputati, in particolare soffermandosi sul rapporto tra dosimetria sanzionatoria per il delitto di omicidio colposo ed esclusione, da parte delle Sezioni unite, della rilevanza causale dell'omessa predisposizione di un impianto automatico antincendio con riferimento alla verificazione del tragico incendio nella linea di ricottura e decapaggio. La suprema Corte ha precisato che il massimo responsabile delle scelte strategiche sulla gestione dello stabilimento di Torino, che nel 2007 era in via di dismissione e non venne fatto alcun investimento in sicurezza nonostante i numerosi motivi di allarme e, dunque, il massimo autore delle violazioni antinfortunistiche che hanno causato gli eventi di incendio e morte sia E.H., amministratore delegato della ThyssenKrupp. Gli altri manager, coimputati, sono ritenuti informati e adesivi di tali scelte e, per tali ragioni, ritenuti colpevoli di omicidio colposo plurimo. La Corte afferma la ricorrenza di una colpa imponente, tanto per la consapevolezza che gli imputati avevano maturato del tragico evento che poi ebbe a realizzarsi, sia per la pluralità e per la reiterazione delle condotte antidoverose riferite a ciascuno di essi che, sinergicamente, avevano confluito nel determinare all'interno dell'opificio di Torino una situazione di attuale e latente pericolo per la vita e per la integrità fisica dei lavoratori, sia infine per la imponente serie di inosservanze a specifiche disposizioni infortunistiche di carattere primario e secondario, non ultima la disposizione del piano di sicurezza che impegnava gli stessi lavoratori in prima battuta a fronteggiare gli inneschi di incendio, dotati di mezzi di spegnimento a breve gittata, ritenuti inadeguati e a evitare di rivolgersi a presidi esterni di pubblico intervento. Nel rigettare le tesi difensive, la suprema Corte sottolinea innanzitutto le differenze strutturali tra il delitto di omissione dolosa di cautele (art. 437 c.p.) e omicidio colposo, negando la sussistenza di qualunque rapporto interferenziale tra la sussistenza dell'aggravante di cui all'art. 437 c.p. e il diverso delitto di cui all'art. 589 c.p., sottolineando come nella sentenza delle Sezioni unite fosse stato escluso soltanto il nesso tra la condotta ipotizzata come doverosa con l'evento aggravante di cui all'art. 437 secondo comma c.p. e non tra questa e l'evento rilevante ai sensi dell'art. 589 c.p., che costituirebbe invece un esito eziologico del tutto estraneo, il cui evento naturalistico rimarrebbe comunque legato ad una serie di inosservanze in ordine alla predisposizione di misure precauzionali anche preventive (tra cui una dolosa omissione di cautela obbligatoria). Infine – aggiunge il giudice di legittimità – anche qualora una delle condotte ascritte come causalmente efficienti rispetto all'evento di cui all'art. 589 c.p. fosse risultata esclusa [...], residuerebbero una serie di violazioni di regole cautelari nel settore antinfortunistico [...] tali da escludere qualsiasi rilievo [...] di minore gravità del fatto reato ascritto. In conclusione, insomma, l'accertamento riguardo alla assenza di relazione eziologica tra la dolosa omissione della cautela e l'evento disastroso [...] non influisce in alcuna maniera [...] sul trattamento sanzionatorio che deve essere determinato per il delitto di cui all'art. 589 c.p. a seguito dell'annullamento parziale. Ora, è evidente che le Sezioni unite hanno escluso espressamente la sussistenza del nesso eziologico tra omessa predisposizione di un impianto antincendio e gli eventi di infortuni o di disastro di cui all'art. 437, comma 2, c.p. Tale esclusione avrebbe dovuto tuttavia valere anche rispetto all'evento ‘morte di più persone' di cui all'art. 589, comma 3, c.p. In questa prospettiva si spiega perché le Sezioni unite abbiano escluso il concorso formale tra omissione dolosa di cautele e omicidio colposo, optando così implicitamente per un concorso materiale tra i due reati. Se, infatti, le Sezioni unite avessero realmente considerato la mancata predisposizione dell'impianto antincendio causale rispetto all'evento di cui all'art. 589 c.p., avrebbero dovuto riconoscere un concorso formale (e non già materiale) tra questo reato e quello di omissione di cautele, perché la medesima condotta – la mancata installazione dell'impianto antincendio – sarebbe stata tipica sia ai sensi dell'art. 589 c.p., sia ai sensi dell'art. 437, comma 1, c.p. AIMI, Il dolo eventuale alla luce del caso Thyssen, in AA.VV., Il libro dell'anno del diritto 2015, Roma 2015, 127 ss.; BARTOLI, Luci ed ombre della sentenza delle Sezioni unite sul caso "Thyssenkrupp", in Giur. It., 2014, 11, 2566 ss.; DE FRANCESCO, Dolo eventuale e dintorni: tra riflessioni teoriche e problematiche applicative, in Cass. pen., 2015, 12, 4624 ss.; DE VERO, Dolo eventuale e colpa cosciente: un confine tuttora incerto. Considerazioni a margine della sentenza delle Sezioni Unite sul caso ThyssenKrupp, in Riv. it. dir. proc. pen., 2015, 1, 77 ss.; EUSEBI, Formula di Frank e dolo eventuale in Cass. S.U., 24 aprile 2014 (ThyssenKrupp), in Riv. it. dir. proc. pen., 2015, 2, 623 ss.; FIANDACA, Le Sezioni unite tentano di diradare il "mistero" del dolo eventuale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2014, 4, 1938 ss.; ROMANO, Dolo eventuale e Corte di cassazione a sezioni unite: per una rivisitazione della c.d. accettazione del rischio, in Riv. it. dir. proc. pen., 2015, 2, 559 ss.; RONCO, La riscoperta della volontà nel dolo, in Riv. it. dir. proc. pen., 2014, 4, 1953 ss. ZIRULIA, Thyssenkrupp, fu omicidio volontario: le motivazioni della Corte d'Assise, in Dir. pen. cont., 18 novembre 2011; ZIRULIA, ThyssenKrupp: confermate in appello le condanne, ma il dolo eventuale non regge, in Dir. pen. cont., 3 giugno 2013. |