L’“errore” sulla legge c’è: l’inaccettabile rapporto fra condotte riparatorie e stalking tenue
03 Luglio 2017
A pochi giorni dall'approvazione del D.D.L. 4368, c.d. Riforma Orlando e in attesa della sua imminente pubblicazione nella Gazzetta ufficiale, si è già sviluppata una questione giuridica-politica che investe l'effetto conseguente all'applicazione del “nuovo” istituto previsto all'art. 162-ter c.p., cd. estinzione per condotte riparatorie, nel caso di stalking lieve. Com'è noto, per tale ipotesi criminosa il Legislatore, dopo il 2009, anno della sua introduzione, ha previsto varie ipotesi di procedibilità calibrate alla gravità della condotta. Detto reato è, di norma, procedibile a querela della persona offesa e, come tale, rimettibile. Preso atto che spesso la persona offesa potrebbe subire delle minacce, percosse e ulteriori violenze affinchè la ritiri, si è previsto, con la riforma del 2013, che la remissione della querela possa essere solo processuale e, ancora, che essa, invece, diventi irrevocabile se il fatto è commesso mediante minacce reiterate nei modi di cui all'art. 612, comma 2, c.p. (il testo originario del d.l. 93 conv. con modif. in l. 119 del 2013 stabiliva la totale irrevocabilità). Con riferimento alla sua forma più grave, cioè quando il fatto è commesso nei confronti di un minore o di una persona con disabilità di cui all'art. 3 della l. 104/1992, si procede d'ufficio e, allo stesso modo, si procede quando il fatto è connesso con altro delitto procedibile d'ufficio. Ora, il testo approvato definitivamente alla Camera qualche giorno fa contiene una specifica disposizione, l'art. 162-ter c.p., appunto, la quale prevede che «nei casi di procedibilità a querela soggetta a remissione, il giudice dichiara estinto il reato, sentite le parti e la persona offesa, quando l'imputato ha riparato interamente, entro il termine massimo della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, il danno cagionato dal reato, mediante le restituzioni o il risarcimento, e ha eliminato le conseguenze dannose o pericolose del reato». La norma è di immediata applicazione. Trattasi di una nuova forma di definizione volta alla deflazione, anche processuale, che si colloca nel trend già sviluppato dal riformatore con la l. 67 del 2014 (sospensione del procediemnto con messa alla prova), prima, e il d.lgs. 28 del 2015 (non punibilità per particolare tenuità del fatto), poi. Essa si applica ad alcuni reati ritenuti di minore offesa e perseguibili a querela suscettibile di remissione, per i quali il giudice potrà dichiarare estinto il reato se l'imputato ha riparato interamente il danno, con le restituzioni o il risarcimento, eliminando, altresì, le eventuali conseguenze dannose o pericolose del reato. Ebbene, v'è innanzitutto, la difficoltà di comprendere se l'intero risarcimento investa il danno criminale e/o anche quello civile, atteso che la rubrica tratta delle condotte riparatorie mentre dalla lettura formale e restrittiva della nuova previsione e dalla sua ratio sembrerebbe che il giudice debba valutare solo il soddisfacimento del primo danno (v. MURRO, La nuova causa di estinzione del reato conseguente a riparazione). Una tale soluzione trova conforto nel fatto che il risarcimento del danno può essere riconosciuto anche in seguito ad offerta reale ai sensi degli artt. 1208 e ss c.c. formulata dall'imputato e non accettata dalla persona offesa, ove il giudice riconosca la congruità della somma offerta a tale titolo, non v'è dubbio alcuno che l'istituto si adatta certamente ai reati minori e di scarso allarme sociale e mira ad un effetto deflattivo tutelando al contempo le persone offese, che dovranno essere obbligatoriamente sentite dal giudice prima dell'eventuale pronuncia ma alle quali – in verità –non è assegnato alcun potere di opposizione o di veto. Di qui il convincimento che il giudice non possa sindacare tale aspetto e negare l'estinzione a fronte dell'intero adempimento. D'altro canto, una tale conclusione pare ricavabile dal raffronto con quanto diversamente previsto dall'omologo meccanismo previsto all'art. 35 d.lgs. 274/2000 per il rito che si svolge innanzi al giudice di pace. Si è detto, ad ogni modo, che le stesse potranno ottenere “soddisfazione” senza dover attendere i tempi lunghi del processo: in verità, salva una personale ottemperanza agli obblighi di natura civilistica, nulla esclude che il giudice possa emettere la sentenza ex art. 129 c.p.p. al di là di tale adempimento. La conclusione trova sostegno nel fatto che il testo dell'art. 162-ter c.p. indica che quando l'imputato dimostra di non aver potuto adempiere, per fatto a lui non addebitabile, entro l'inizio del dibattimento può chiedere al giudice la fissazione di un ulteriore termine, non superiore a sei mesi, per provvedere al pagamento, anche in forma rateale, di quanto dovuto a titolo di risarcimento. Nulla viene ulteriormente detto quanto alla persona offesa. È palese, allora, che innanzi a forme lievi di atti persecutori il risarcimento potrebbe soddisfare la persona offesa e questa potrebbe, così, rimettere la querela già presentata, nel quale caso opererà l'estinzione ex art. 152 c.p. Tuttavia, proprio al fine di scoraggiare delle (potenziali) attività lesive a carico della persona offesa, l'art. 612-bis c.p., dopo la novella del 2013, prevede il solo rilievo della remissione processuale; ne discende che, la nuova disposizione, si colloca, così al di là di quella sfera. Come lasciano agevolmente intendere i primi commenti, essa – in altri termini – andrebbe a coprire le situazioni nelle quali, invero, non vi è stato, nonostante l'adempimento dell'autore del reato, un accordo con la persona offesa o un suo soddisfacimento, ma al contrario, anche a fronte di una condotta meritevole di considerazione sul piano dell'emenda e del ravvedimento, il soggetto ex art. 90 c.p.p. perseveri nell'accertamento penale. Sotto tale aspetto, la previsione non prevede alcun limite di applicabilità, né per limiti edittali di pena, né per espresse fattispecie ma stabilisce solo delle scansioni temporali entro le quali dovrà realizzarsi la riparazione. Non v'è dubbio alcuno, dunque, che essa, allo stato, possa applicarsi anche alle ipotesi più tenue prefigurate all'art. 612-bis, comma 1, c.p., ferma restando la valutazione discrezionale spettante, di volta in volta, in capo al giudice che dovrà tener conto delle modalità ed altre circostanze dei fatti e della capacità del risarcimento operato a soddisfare le sue conseguenze. Opportunamente, in questi giorni si è affermato che tale possibilità desti grande sconcerto: essa contrasterebbe con la volontà da sempre manifestata dal Legislatore di reprimere i fenomeni di stalking, di violenza alla donna e di genere, da un lato, e dall'altro potrebbe introdurre una inaccettabile “negoziazione” dell'autore del fatto con la persona offesa, gravemente lesiva dei beni oggetti di tutela penale e dell'intero sistema strutturato per la loro salvaguardia, in generale. V'è da riscontrare, tuttavia, come quella prospettata non è certamente una questione nuova. Al contrario, essa aveva lambito lo stesso reato all'atto del varo della disciplina della messa alla prova per l'adulto, tanto che si era osservato come la previsione della pena massima non superiore a 4 anni, escludeva l'applicabilità allo stalking, che, dopo l'intervento operato dalla l. 94 del 2013, prevede una pena massima di 5 anni. Ora, il dubbio si ripropone: se certamente fuoriescono dall'ambito di operatività della nuova causa estintiva i casi più gravi soggetti all'irrevocabilità della querela e quelli circostanziati (reato commesso nei confronti di un minore, donne in stato di gravidanza, o di persona con disabilità, se è commesso da un soggetto ammonito dal questore per condotte persecutorie in danno della stessa vittima, o se è connesso con altro delitto per il quale si procede d'ufficio), lo stesso non si può dire per le altre condotte certamente insidiose ma di minore offesa. Indubbiamente le querele irrevocabili rappresentano solo un segmento di quelle che vengono sporte, tanto che, il Ministro della Giustizia in una nota del 29 giugno scorso ha affermato che trattasi di preoccupazioni non fondate. Ad ogni modo, per evitare qualunque possibilità di equivoco interpretativo – ha annunciato – si deve agire riconsiderando la punibilità a querela prevista nella legge del 2009. Indubbiamente un tale intervento, come si comprende, finisce per arginare il problema “alla radice” ma mal si giustifica sotto più versanti: da un lato nulla esclude che vi possano essere altre fattispecie analoghe per le quali continuerebbe ad operare l'art. 162-ter c.p. ma che non essendo oggetto di attenzione, anche mediatica, potrebbero fuoriuscire dalla limitazione che s'intende introdurre; dall'altro lato, l'intenzione appena indicata appare espressione di una giustizia che sembra muoversi “a vista” o dall'effetto yo yo, ben lontana dai canoni della certezza, della stabilità, generalità ed astrattezza da cui dovrebbe essere governata la materia penale. Peraltro, deve evidenziarsi come il provvedimento, appena approvato con il voto di fiducia, contiene – in senso opposto a quello appena prospettato – una delega volta ad aumentare le ipotesi di procedibilità a querela per taluni reati dotati di modesto carico offensivo. Ne discende che più che operare un'immediata emenda, sarebbe, allora, forse opportuno melius re perpensa, che si operi con attenzione una selezione dei reati che investendo beni, fra loro omogenei, possano uniformemente essere esclusi dall'ambito di operatività della nuova norma che, paradossalmente, già nei primi commenti si indicava di residuale applicazione. Ancora, proprio l'accenno al modello del 2009, vale a dire il ritorno al passato quanto al regime della procedibilità, lascia ulteriormente perplessi, considerato che proprio il testo di cui si attende la pubblicazione contiene al suo interno istituti già applicati e poi aboliti e di cui si auspica la ricomparsa (appellabilità della sentenza di non luogo; concordato sui motivi in appello): è chiaro, però, che non può destare sconcerto nell'interprete e nell'operatore assistere a questo fenomeno “sussultorio” dell'impiego degli istituti penali e processuali. Infine, si è detto che la questione potrebbe in futuro semplificarsi se nel disegno di legge di riforma del codice antimafiaattualmente all'esame del Senato, il delitto di atti persecutori fosse inserito (come è nella bozza attuale) fra i delitti che consentiranno, anche solo in presenza di indizi, di applicare una misura di prevenzione personale. È palese che una tale costruzione giuridica non semplice e nemmeno immune da profili problematici in termini di garanzie, incrementa il dissenso verso la normativa che ancora attendiamo. Innanzitutto, su un piano generale, alle gravose lacune già segnalate in altre occasioni, si unisce – nell'ambito della materia in esame – il chiaro segnale della carenza di un quadro organico della disciplina volta alla tutela della violenza alla donna e di genere e di una sua visione che operi nel lungo periodo; su un versante più specifico, il rimedio appena prospettato manifesta una inaccettabile degradazione (e violazione) dei diritti dell'individuo e dei principi che regolano il giusto processo e che non possono fondarsi su presunzioni di (ritenuta) pericolosità, come più volte affermato dal giudice delle leggi. Un discorso diverso pare, invece, coltivabile quando il provvedimento di prevenzione venga assunto nei confronti di un soggetto sotto processo (senza ancora una condanna) e motivato dal suo essere «socialmente pericoloso per la sicurezza in relazione al rischio concreto sofferto dalla parte lesa del delitto di atti persecutori». Appare, per concludere, oltremodo inaccettabile e inappagante un sistema che anticipa una sanzione (seppur preventiva) a carico di un soggetto di cui deve ancora essere dimostrata la responsabilità, per poi mandarlo esente da pena a fronte del suo corretto adempimento sul versante del ristoro o risarcimento: così facendo si invertono i termini del problema, le categorie dogmatiche e le regole che devono presidiare il sistema punitivo italiano (arg. ex artt. 3, 13, 24, 27 e 111 Cost.). |