Profili patrimoniali della corruzione: dinamica della fattispecie tra prezzo e profitto

04 Marzo 2016

La diffusione della corruzione come fenomeno endemico alle Pubbliche Amministrazioni induce ad attribuire rilevanza al contesto di maturazione delle condotte, con conseguente perdita di centralità del contratto illecito. Ciò esige un'analisi dinamica – e non più statico-strutturale – della fattispecie, incentrata sulle obbligazioni in sé del corrotto e del corruttore.
Abstract

La diffusione della corruzione come fenomeno endemico alle Pubbliche Amministrazioni induce ad attribuire rilevanza al contesto di maturazione delle condotte, con conseguente perdita di centralità del contratto illecito. Ciò esige un'analisi dinamica – e non più statico-strutturale – della fattispecie, incentrata sulle obbligazioni in sé del corrotto e del corruttore, con particolare riferimento alle utilità economiche che entrambi si prefiggono di ottenere dal reato.

Significato della patrimonialità della corruzione

L'ennesima novella inerente i delitti contro la P.A., sopravvenuta con la legge 27 maggio 2015, n. 69 (in Gazz. uff., 30 maggio 2015, n. 124), si spinge ad individuare un movente economico comune all'intera “classe” dei delitti ex artt. 314, 317, 318, 319, 319-ter, 319-quater, 320 e 322-bis c.p. per contrastarli (anche) sul piano dell'ingiusta locupletazione che gli autori normalmente ne ritraggono. Effettivamente, da questo punto di vista, il recupero coattivo del lucro illecito ottenuto dai funzionari pubblici diviene una meta essenziale, tale da condizionare anche l'operatività di diversi istituti di favore per il reo (MONGILLO, Le riforme in materia di contrasto alla corruzione introdotte dalla legge n. 69 del 2015, in Dir. pen. cont., 2015, 8).

Tra i delitti di cui si tratta, la corruzione ai sensi sia dell'art. 318 c.p. sia dell'art. 319 c.p. rappresenta forse la forma più intrisa di patrimonialità, risolvendosi nella remunerazione dell'infedeltà del pubblico ufficiale o dell'incaricato di pubblico servizio. In effetti di solito si ritiene che si tratti di un reato-contratto, sul presupposto che il contratto, quale incontro delle volontà tra corrotto e corruttore, fornisca di causa lo scambio tra la prestazione del primo, deducente ad oggetto l'infedeltà, e la controprestazione del secondo, deducente ad oggetto la dazione o anche la semplice promessa di denaro od altra utilità. Poiché la causa è illecita, il contratto è nullo e perciò improduttivo di obbligazioni azionabili (artt. 1325 e 1418 c.c.).

La realtà, tuttavia, è assai più instabile dello schema contrattuale tipico, ancorché nullo. Invero, mentre in passato la corruzione, allora non ancora sistemica, era confinata in un contratto illecito tra la pubblica amministrazione di stampo classico e il privato: un contratto previsto dal codice penale in varie (troppe) forme, per la compravendita di un atto – il più delle volte illecito, talora invece dovuto – del pubblico ufficiale (o dell'incaricato di pubblico servizio) a favore del privato, a cavallo tra il vecchio ed il nuovo secolo, il grado di complicazione del fenomeno è oltremodo cresciuto lungo due direttrici, inerenti, da un lato, i cambiamenti drastici (per lo più in peggio) della pubblica amministrazione: come le privatizzazioni per motivi apparenti di efficienza, in realtà per motivi sostanziali di elusione dei pochi controlli pubblici rimasti; o come il dilagare della prassi dell'emergenza, e, dall'altro, quelli altrettanto drastici (in meglio, per così dire) della corruzione: dalla mazzetta alle triangolazioni, alle consulenze e alle compensazioni; dalla compravendita dell'atto a quella della funzione (FLICK, Governance e prevenzione della corruzione: dal pubblico al privato o viceversa?, in Cass. pen., 2015, 2015, 2981).

Volendo dunque tenere conto della realtà com'è oggi, pare preferibile spostare il fuoco dell'indagine sul momento dinamico della fattispecie corruttiva, ragionando più semplicemente di un vincolo o fors'anche di una mera relazione che, a prescindere da schemi sinallagmatici, rende la dazione o la promessa del corruttore – a cagione delle quali è pur'egli penalmente responsabile ai sensi dell'art. 321 c.p.collettore energetico in funzione della spinta verso l'infedeltà del pubblico funzionario.

La spinta non si identifica con l'iniziativa, la quale, in concreto, può essere del corrotto, che sollecita siffatte dazione o promessa, ovvero del corruttore, che le propone; essa individua piuttosto il motore della manifestazione criminosa, nel senso che l'interesse del corrotto a compiere l'infedeltà risiede nel denaro o nell'altra utilità che il corruttore gli mette a disposizione ed anzi – in un clima di corruttela diffusa – è pronto a mettergli a disposizione. Si noti, in un'iperbole tuttavia utile a segnalare la pervasività sistemica della corruttela, con regole che cifrano il sistema stesso, riempiendo di contenuti obbligazioni altrimenti apparentemente inconsistenti, l'analogia con il partecipe in associazione mafiosa, che, alla stregua ad es. di Cass. pen., Sez. V, 14 maggio 2014, n. 48676, è tale per il sol fatto di essere disponibile al sodalizio.

La specificazione, che a prima vista potrebbe parere capziosa, in realtà non lo è sol che si consideri la tendenza del commercio giuridico lecito – registrata con maggiore evidenza dalla contrattualistica internazionale o comunque globale – ad astrarre sempre più, non solo dalla formalizzazione dei vincoli ma anche dalla causa dei contratti, con il risultato che è l'obbligazione ad ascendere in primo piano, inglobando un segmento di causa tipicamente pertinente al contratto (sia sufficiente richiamare per tutti il caso del contratto di swap, a proposito del quale, pur individuata la causa in concreto come scambio di pagamenti destinato alla gestione del rischio finanziario che si attua attraverso i parametri di riferimento, l'obbligazione pecuniaria va considerata come una grandezza finanziaria, diversa in relazione ai parametri di riferimento, alla struttura dei pagamenti e al metro monetario nel quale sono espresse le somme oggetto delle prestazioni, con la conseguenza che la dematerializzazione del denaro richiede una costruzione giuridico-sistematica nuova del fenomeno non essendo più adeguata a spiegare il debito pecuniario l'obbligazione di dare cose generiche. Così CAPUTO NASSETTI, Fair value e fair price nei contratti derivati, in Giur. comm., 2015, 352 s.).

Ricadute dell'astrattezza sul diritto penale

Trasposte le superiori considerazioni nell'ambito dell'illegalità, anche la singola obbligazione, concernente l'infedeltà ovvero, simmetricamente, la dazione o promessa di denaro od altra utilità, può essere rilevante, in quanto ex se illecita.

Occorre tuttavia una precisazione. A ben guardare, l'illiceità è intrinseca, giacché, pur ove in concreto debba escludersi la ricorrenza di una corruzione, resterebbe il fatto che il pubblico funzionario compie un'infedeltà di per sé punibile, ricorrendone gli ulteriori presupposti, ex artt. 323 o 328 c.p. A tal proposito, vale la pena di ricordare che detta infedeltà, pur riguardata atomisticamente, ridonda altresì a sfavore del corruttore in applicazione dell'art. 110 c.p., giacché la regola dell'equiparazione della responsabilità penale che governa l'istituto del concorso di persone nel reato pone sullo stesso piano l'extraneus e l'intraneus, a condizione che quest'ultimo partecipi alla dinamica criminosa. Ciò detto, la riflessione che si va esponendo consente di acquisire consapevolezza della possibile residualità delle fattispecie di cui agli artt. 323 e 328 c.p. rispetto alla corruzione. Il punto è colto in un precedente ormai lontano, il quale, ragionando sulle disposizioni ratione temporis vigenti, afferma che l'abuso d'ufficio e la corruzione per atti contrari ai doveri d'ufficio non possono formalmente concorrere fra loro giacché, quando il vantaggio economico del pubblico ufficiale sia da questi conseguito in dipendenza di un'erogazione altrui e di un proprio comportamento, attivo od omissivo, contrario ai doveri d'ufficio, trova applicazione, per il principio di specialità, la più grave delle due figure criminose in questione, che ancora oggi si identifica nella corruzione, caratterizzata, rispetto all'altra, dalla presenza del soggetto erogatore di un'utilità collegata da nesso teleologico al suindicato comportamento del pubblico ufficiale (Cass. pen., Sez. I, 1 ottobre 1998, n. 4663).

Poco tempo dopo la suprema Corte avrebbe deciso che integra gli estremi del reato di corruzione continuata per atti di ufficio (artt. 81 cpv. e 318 c.p.), e non quello di abuso di ufficio, il comportamento del funzionario dell'UTE – il quale sia incaricato del compito, per dovere di ufficio, di assistere i richiedenti nella formulazione delle domande di voltura catastale, di prendere in carico le relative pratiche e di portarle a compimento – che, in esecuzione di un preventivo accordo, percepisca compensi da notai per svolgere le pratiche di voltura catastale cui questi ultimi siano interessati in relazione all'esercizio della loro professione, ricevute al di fuori di canali ordinari, dando precedenza a queste pratiche rispetto a quelle di sportello, utilizzando i terminali dell'ufficio, stampando, senza pagare i diritti, le visure necessarie per impostare le pratiche stesse e usando i timbri dell'ufficio (Cass. pen., Sez. VI, 16 novembre 1999, n. 13939).

L'importanza della decisione da ultimo richiamata sta in ciò che l'infedeltà concernente un atto di ufficio tendenzialmente indirizza verso la corruzione nella forma, ora come allora, dell'art. 318 c.p. Tuttavia l'affermazione non vale in termini assoluti. Invero,

  • sul versante dell'abuso d'ufficio, quantunque l'art. 323, comma 1, c.p. specifichi che il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio deve agire in violazione di norme di legge o di regolamento, ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, ben può darsi il caso di un atto di per se stesso dovuto e viepiù conforme alla schema legale di esercizio del potere ma violativo di norme primarie o regolamentari in specie sotto il profilo procedimentale (del resto, alla stregua di Cass. pen., Sez. VI, 14 giugno 2012, n. 41215, intervenuta a proposito di un primario ospedaliero che aveva posto in essere comportamenti di vessazione ed emarginazione di medici del suo reparto, in un contesto di gestione autoritaria e baronale, il requisito della violazione di legge rilevante agli effetti dell'abuso d'ufficio può essere integrato anche dalla inosservanza del dovere di collaborazione del pubblico dipendente con tutti coloro che operano nella medesima struttura amministrativa, che trae fondamento dall'art. 13 del d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3);
  • sul versante della corruzione, si registrano scivolamenti dalla fattispecie della corruzione impropria p. e p. dall'art. 318 c.p. a quella della corruzione propria p. e p. dall'art. 319 c.p. pur ove la contrarietà degli atti ai doveri d'ufficio emerga solo (nuovamente) dal “sistema” che li contempla e non dall'analisi particolare degli stessi [atteso che – secondo l'indirizzo espresso da ultimo da Cass. pen., Sez. VI, 23 settembre 2014, n. 6056lo stabile asservimento del pubblico ufficiale ad interessi personali di terzi, attraverso il sistematico ricorso ad atti contrari ai doveri di ufficio, ancorché non predefiniti, né specificamente individuabili ex post, ovvero mediante l'omissione o il ritardo di atti dovuti, integra il reato di cui all'art. 319 c.p. e non il più lieve reato di corruzione per l'esercizio della funzione di cui all'art. 318 c.p., il quale ricorre, invece, quando l'oggetto del mercimonio sia costituito dal compimento di atti dell'ufficio; tuttavia, isolatamente, in senso contrario, Cass. pen., Sez. VI, 25 settembre 2014, n. 49226, afferma che detto stabile asservimento del pubblico ufficiale realizzato attraverso l'impegno permanente a compiere od omettere una serie indeterminata di atti ricollegabili alla funzione esercitata integra il reato di cui all'art. 318 c.p. (nel testo introdotto dalla legge 6 novembre 2012, n. 190), e non il più grave reato di corruzione propria di cui all'art. 319 c.p., salvo che la messa a disposizione della funzione abbia prodotto il compimento di un atto contrario ai doveri di ufficio, poiché, in tal caso, si determina una progressione criminosa nel cui ambito le singole dazioni eventualmente effettuate si atteggiano a momenti esecutivi di un unico reato di corruzione propria a consumazione permanente.
La specificità della corruzione come mercimonio dei doveri pubblici

Riprendendo le fila del discorso, il quid pluris che differenzia l'infedeltà ex se illegittima dall'infedeltà connotata agli effetti degli artt. 318 e 319 c.p. è la caratterizzazione di rispondenza al vincolo, comunque configurato, tra corrotto e corruttore, di guisa che possa affermarsi che il primo, avendo di mira il denaro o l'altra utilità proveniente dal secondo, fa mercimonio dei doveri inerenti alla funzione o all'incarico di cui è investito e di cui dovrebbe curare l'osservanza per il sol fatto di esserne investito.

Ferma la centralità del vincolo, l'illegalità in sé – che carsicamente riemerge – della trama dei rapporti tra corrotto e corruttore quest'ultima permeabile a contributi esterni. Per l'effetto la struttura bilaterale a concorsualità necessaria della corruzione, ben lungi dall'escludere il concorso eventuale, lo ammette persino avuto riguardo alla figura dell'intermediario. La suprema Corte se ne è occupata ancora di recente confermando l'ordinanza applicativa di misura cautelare che aveva ritenuto sussistere il concorso eventuale in relazione all'attività di intermediazione di un estraneo alla P.A. consistita nell'avere assunto stabilmente una funzione di collegamento tra il pubblico ufficiale, suo diretto referente, ed il privato, dal quale percepiva una remunerazione mensile quale corrispettivo della sua messa a disposizione e delle condotte contrarie ai doveri d'ufficio commesse dal pubblico ufficiale medesimo. Il principio di diritto – a termini del quale ricorre il concorso eventuale sia nel caso in cui il contributo del terzo si realizza nella forma della determinazione o del suggerimento fornito all'uno o all'altro dei concorrenti necessari, sia nell'ipotesi in cui si risolve in un'attività di intermediazione finalizzata a realizzare il collegamento tra gli autori necessari (Cass. pen., Sez. VI, 10 aprile 2015, n. 24535, che riprende la storica Cass. pen., Sez. VI, 4 maggio 2006, n. 33435) – pone al centro della riflessione il vincolo tra corrotto e corruttore alla stregua di un collegamento che ben può essere indiretto e, dunque, alla stregua di quanto anticipato in apertura, concettualmente prescinde dalla stipula di alcun accordo tra i concorrenti necessari.

Proprio qui sta il punto.

Sostituito l'accordo, quale espressione di per se stessa attenuata di un sinallagma illecito, fino a che punto può affermarsi che rileva, ai fini dell'integrazione del reato sul piano basilare della materialità del fatto, l'illiceità di un semplice collegamento di obbligazioni pur rispondente ad una logica sistemica”di corruttela?

In tempi antichi, si diceva che ogni qual volta vi sia un intermediario, l'azione corruttrice non deve arrestarsi a quest'ultimo, ma deve, quanto meno, essere nota al pubblico ufficiale competente ad emettere l'atto di mercimonio; deve, cioè, potersi ricavare univocamente dai fatti il consenso del pubblico ufficiale (o dell'incaricato di pubblico servizio) alla pattuizione illecita (Cass. pen., Sez. VI, 1 febbraio 1993, n. 277, confermativa di un titolo coercitivo motivato sulla esistenza, ritenuta gravemente indiziante, di un nesso causale inscindibile tra le prestazioni in danaro e l'aggiudicazione di appalti pubblici in un caso in cui non era stato ancora identificato il pubblico ufficiale, ma erano accertate la corresponsione di danaro al partito politico cui il pubblico ufficiale era legato e l'aggiudicazione degli appalti agli indagati erogatori delle somme).

Oltre un decennio dopo, s'è teorizzata l'equipollenza tra l'individuazione del pubblico funzionario e quella del rapporto in cui l'episodio di corruzione si inserisce. Secondo Cass. pen., Sez. IV, 13 agosto 1996, n. 2006, infatti, non è necessario, quando sia individuato il rapporto nel quale si inserisce l'episodio di corruzione, l'individuazione del pubblico ufficiale corrotto come non è necessario, quando sia accertato il mercimonio attuato sistematicamente da un pubblico ufficiale dei doveri dell'ufficio nei rapporti tra l'amministrazione di appartenenza ed un estraneo, l'individuazione degli atti oggetto della condotta corrotta; la suprema Corte, tuttavia, si preoccupa di enunciare altresì il correttivo di una latitudine applicativa altrimenti incontrollabile, statuendo che in ogni caso è indispensabile che non sussistano dubbi circa l'effettivo concorso di un pubblico ufficiale nel fatto di corruzione, giacché la semplice consegna sine titulo di ingenti somme di denaro ad un intermediario non è sufficiente ad affermare con certezza, in mancanza di ulteriori elementi, che si sia consumato un episodio di corruzione ed ad addebitarne la responsabilità al pubblico ufficiale, ben potendo tale condotta integrare alternativamente i reati di millantato credito o di truffa a carico del percettore accertato delle somme.

Detto insegnamento – che permane intatto ancora oggi (Cass. pen., Sez. VI, 2 dicembre 2014, n. 1)– segna il limite massimo di significatività penale della dazione o promessa di denaro od altra utilità sine titulo o sine causa che dir si voglia. Quel che preme di sottolineare è che la corresponsione al pubblico funzionario del prezzo dell'infedeltà, strutturalmente innecessaria per la consumazione, poiché basta che lo stesso accetti la nuda promessa proveniente dal corruttore, tuttavia, in uno spazio di rilevanza penale non indefinito ma pur sempre ampio, è sufficiente a fornire la prova del fatto di reato, alla condizione che sia delineato nei tratti essenziali o il rapporto nel quale si inserisce l'episodio di corruzione ovvero, su un piano ancor più generale, anche solo il mercimonio attuato sistematicamente da un pubblico ufficiale: talché par di poter concludere che la causa illicita, digradante nell'illiceità dell'intreccio delle obbligazioni e, quindi, in ultima analisi, nell'illiceità di queste ultime, ammette la surroga del carattere corruttivo del contesto, che, se non investe il singolo rapporto, può finanche investire il sistematico agire del pubblico funzionario.

Parrebbero configurarsi rischi di sovrapposizione con la figura della mediazione onerosa in seno al neo-introdotto delitto di traffico di influenze ex art. 346-bis c.p., che vuole anticipare l'area della punibilità rispetto al coinvolgimento in sé del pubblico funzionario. A ben guardare, però, detti rischi non sussistono, sol che si consideri la mediazione onerosa consiste, a differenza dalla mediazione gratuita, in un rapporto non già triangolare ma bipolare, essendo esso consumato già per il semplice fatto di vendere (e acquistare) la propria influenza sul pubblico agente, mentre rimane del tutto irrilevante non solo il compimento dell'atto vantaggioso per l'‘acquirente' ma addirittura l'effettivo esercizio dell'influenza da parte del ‘venditore', influenza che invero potrebbe anche non venire esercitata in concreto. Così configurato, il nuovo reato di mediazione onerosa non costituisce tanto un'anticipazione della tutela del buon andamento e imparzialità, troppo lontano dal fatto essendo l'eventuale e del tutto ipotetico atto di esercizio della funzione, quanto piuttosto l'estensione della tutela ad aree che si caratterizzano per un malcostume rivelatore di una sensibilità debole verso la legalità dell'azione amministrativa e che sono proprie di quel mondo in cui alligna la corruzione politico-affaristica (PALAZZO, Le norme penali contro la corruzione tra presupposti criminologici e finalità etico-sociali, in Cass. pen., 2015, 2015, 3398, il quale, peraltro, subito in appresso, evidenzia l'insussistenza di un proprio contenuto offensivo nella nuova figura criminosa, con riferimento alla quale, poiché il disvalore costituente la radice dell'illiceità non può che risiedere o nello ‘scopo finale' per cui si compra l'influenza, cioè nell'atto contrario ai doveri di ufficio al cui compimento l'influenza del terzo dovrà sospingere il pubblico agente (fermo restando che un patto corruttivo comunque non c'è), ovvero nel ‘mezzo' che viene prescelto per esercitare l'influenza sul pubblico agente, il forte scrupolo per la garanzia dell'offensività che ha spinto il riformatore ad esigere “entrambe le qualificazioni di illiceità, sia in termini di scopo che di mezzi, ha forse segnato con ciò le sorti della fattispecie).

Prezzo e profitto nella corruzione

Irrilevante il prezzo, dovrebbe esserlo ancor più il profitto nella dinamica della corruzione, profitto che tecnicamente non viene in linea di conto dal punto di vista del corrotto attesa la natura di reato-contratto della fattispecie. Non è proprio così, perché a fronte di un corrotto sta un corruttore. Ed è proprio il profitto, nel limite minimo del prezzo (ovvero della tangente), a venire in linea di conto dal punto di vista del corruttore. Tale è l'ottica del comma 2 dell'art. 322-ter c.p., a termini del quale, nel caso di condanna, o di applicazione della pena a norma dell'articolo 444 del codice di procedura penale, per il delitto previsto dall'articolo 321, anche se commesso ai sensi dell'articolo 322 bis, secondo comma, è sempre ordinata la confisca dei beni che ne costituiscono il profitto salvo che appartengano a persona estranea al reato, ovvero, quando essa non è possibile, la confisca di beni, di cui il reo ha la disponibilità, per un valore corrispondente a quello di detto profitto e, comunque, non inferiore a quello del denaro o delle altre utilità date o promesse al pubblico ufficiale o all'incaricato di pubblico servizio o agli altri soggetti indicati nell'articolo 322 bis, secondo comma. A tal proposito acutamente si osserva che la specificazione secondo cui il valore assoggettabile a confisca non può essere inferiore a quello della ‘tangente' data o promessa rappresenta un canone di semplificazione sul terreno dell'accertamento del profitto del corruttore, nel senso che laddove non si riesce a verificare l'entità di tale profitto si presume che comunque non sarà inferiore a quanto dato o promesso (si paga una tangente perché si progetta di ottenere un lucro maggiore dal mercimonio dell'attività amministrativa). Tale disposizione può essere ritenuta accettabile nella misura in cui si è accertato che un profitto sia stato conseguito e sia difficile verificarne l'entità, consentendo comunque al reo di difendersi (dimostrando che non è stato ottenuto il profitto sperato o sia stato inferiore al previsto); laddove, invece, la presunzione opera in termini assoluti, finirebbe per far assumere alla confisca per equivalente un carattere punitivo e non più compensativo, perché si può verificare in concreto l'ipotesi in cui il profitto non venga realizzato (MAUGERI, La confisca per equivalente – ex art. 322 ter – tra obblighi di interpretazione conforme ed esigenze di razionalizzazione, in Riv. it. dir. proc. pen., 2011, 806).

Se, in astratto, al corrotto sta il prezzo come al corruttore sta il profitto nel limite minimo del prezzo, alla stregua della fondamentale Cass. pen., Sez. un., 26 giugno 2015, n. 31617, la distinzione tra prezzo e profitto pare, almeno concettualmente, avviata sulla strada del tramonto. In tale arresto, relativo ad un caso di derubricazione del reato da concussione a corruzione, la suprema Corte., identificato il profitto con il vantaggio economico derivante in via diretta ed immediata dalla commissione dell'illecito, sostiene infatti che il giudice, nel dichiarare la estinzione del reato per intervenuta prescrizione, può disporre, a norma dell'art. 240, comma secondo, n. 1 c.p., la confisca del prezzo e, ai sensi dell'art. 322 ter c.p., la confisca diretta del prezzo o del profitto del reato a condizione che vi sia stata una precedente pronuncia di condanna e che l'accertamento relativo alla sussistenza del reato, alla penale responsabilità dell'imputato e alla qualificazione del bene da confiscare come prezzo o profitto rimanga inalterato nel merito nei successivi gradi di giudizio.

Detta affermazione segna parzialmente il passo rispetto ad un lontano precedente della S.C. sempre nella massima composizione, avendo Cass. pen., Sez. un., 10 luglio 2008, n. 38834, in una fattispecie relativa a dissequestro disposto in sede esecutiva in favore di imputato di corruzione commessa prima della legge 29 settembre 2000, n. 300, e dichiarata prescritta, statuito di contro che l'estinzione del reato preclude la confisca delle cose che ne costituiscono il prezzo, prevista come obbligatoria dall'art. 240, comma secondo, n. 1, c.p.(prima ancora, da un punto di vista più generale, Cass. pen., Sez. un., 25 marzo 1993, n. 5, nell'escludere, in caso di prescrizione, la confisca del denaro esposto nel giuoco perché l'art. 722 c.p. presuppone la condanna dell'imputato, aveva enunciato la regola per cui anche nel caso di estinzione del reato, astrattamente non incompatibile con la confisca in forza del combinato disposto degli artt. 210 e 236, comma secondo, c.p., per stabilire se debba farsi luogo a confisca deve aversi riguardo alle previsioni di cui all'art. 240 c.p. e alle varie disposizioni speciali che prevedono i casi di confisca, potendo conseguentemente questa esser ordinata solo quando alla stregua di tali disposizioni la sua applicazione non presupponga la condanna e possa aver luogo anche in seguito al proscioglimento).

La carica innovativa di Cass. pen., Sez. un., n. 31617 del 2015, cit., emerge in tutta la sua portata ove si rifletta che l'equiparazione del profitto al prezzo agli effetti della confisca diretta (e, di contro, dell'esclusione della confisca per equivalente nell'ipotesi di maturata prescrizione) poggia sull'intendimento di un'unica finalità di ristabilimento dell'ordine economico violato mettente capo, pur nella loro ontologica diversità, all'ablazione di entrambi. Più precisamente, la logica che coinvolge e giustifica la obbligatoria confisca del prezzo del reato in base alla generale previsione dettata dall'art. 240, secondo comma, c.p. non risulta diversa da quella che ha indotto il legislatore ad introdurre previsioni speciali di confisca obbligatoria anche del profitto del reato, sul rilievo che la evocabilità del prezzo, inteso come retribuzione promessa o corrisposta per la commissione del reato, rappresentasse una evenienza riconducibile soltanto ad alcune fattispecie, ma non pertinente – secondo l'id quod plerumque acciditrispetto ad altre, ove, appunto, viene più frequentemente in discorso il profilo del lucro desunto dal reato, inteso come vantaggio economico ottenuto in via diretta ed immediata dalla commissione del reato, e quindi legato da un rapporto di pertinenzialità diretta con l'illecito penale; necessitate, per l'effetto, le conclusioni in direzione dell'attrazione, accanto al prezzo, anche del profitto del reato, all'interno di un nucleo per così dire unitario di finalità rispristinatoria dello status quo ante, secondo la medesima prospettiva volta a sterilizzare, in funzione essenzialmente preventiva, tutte le utilità che il reato, a prescindere dalle relative forme e dal relativo titolo, può aver prodotto in capo al suo autore, e con specifico riferimento a figure di reato per le quali il legislatore ha ritenuto necessario optare per una simile scelta”(punto 10 delle motivazioni in diritto).

Il punctum pruriens sta in ciò che il profitto condivide con il prezzo l'assoggettamento a confisca direttai.e., non per equivalente – nel caso di accreditamento di denaro in conto corrente: infatti, qualora il prezzo o il profitto c.d. accrescitivo derivante dal reato sia costituito da denaro, la confisca delle somme depositate su conto corrente bancario, di cui il soggetto abbia la disponibilità, deve essere qualificata come confisca diretta e, in considerazione della natura del bene, non necessita della prova del nesso di derivazione diretta tra la somma materialmente oggetto della ablazione e il reato. Due riflessioni brevemente si impongono:

  • la prima riguarda l'evoluzione della giurisprudenza – pur in un'ottica di formale continuità – in punto di confisca del surplus dell'attivo in conto corrente. Già Cass. pen., Sez. un., 24 maggio 2004, n. 29951, a proposito della questione dei limiti del sequestro preventivo finalizzato alla confisca di somme di denaro costituenti profitto del reato, aveva affermato – richiamando Cass.pen., Sez. VI, 25 marzo 2003, n. 23773 – che tale sequestro deve ritenersi sicuramente ammissibile sia allorquando la somma si identifichi proprio in quella che è stata acquisita attraverso l'attività criminosa sia ogni qual volta sussistano indizi per i quali il denaro di provenienza illecita sia stato depositato in banca ovvero investito in titoli, trattandosi di assicurare ciò che proviene dal reato e che si è cercato di occultare: ciò sul presupposto che la fungibilità del denaro e la sua funzione di mezzo di pagamento non impone che il sequestro debba necessariamente colpire le medesime specie monetarie illegalmente percepite, bensì la somma corrispondente al loro valore nominale, ovunque sia stata rinvenuta, purché sia attribuibile all'indagato. Essa si era però affrettata a soggiungere, nello sviluppo del ragionamento, che deve pur sempre sussistere, comunque, il rapporto pertinenziale, quale relazione diretta, attuale e strumentale, tra il danaro sequestrato ed il reato del quale costituisce il profitto illecito (utilità creata, trasformata od acquisita proprio mediante la realizzazione della condotta criminosa). In particolare, in relazione agli illeciti fiscali, devono escludersi collegamenti esclusivamente congetturali, che potrebbero condurre all'aberrante conclusione di ritenere in ogni caso e comunque legittimo il sequestro del patrimonio di qualsiasi soggetto venga indiziato di illeciti tributari (punto 9 delle motivazioni in diritto). Invece, con Cass. pen., Sez. un., n. 31617 del 2015, cit., il rapporto pertinenziale, quale relazione diretta, attuale e strumentale, tra il danaro sequestrato ed il reato del quale costituisce il profitto illecito parrebbe – il condizionale è d'obbligo, in attesa di ulteriori sviluppi – perdersi, giacché, come visto, proprio a cagione della natura (ossia delle caratteristiche) del bene-denaro, non è necessaria la prova del nesso di derivazione diretta tra la somma materialmente oggetto della ablazione e il reato;
  • la seconda riguarda l'affinità con la conclusione percorsa nel diritto sanzionatorio degli enti dalla celeberrima Sez. un., 30 gennaio 2014, n. 10561, intesa ad affermare la legittimità del sequestro preventivo finalizzato alla confisca diretta del profitto in disponibilità di un ente (derivante – nella specie – da reati tributari commessi dal suo legale rappresentante), siccome per definizione non estraneo al reato commesso nel suo interesse o a suo vantaggio, nonostante che (come nel caso di detti reati) la fattispecie non sia contemplata dagli artt. 24 ss. del decreto legislativo 8 giugno 2011, n. 231. Ben note sono le critiche della dottrina, che ragiona di un inedito marchingegno escogitato dalla S.C. consistente nel qualificare come ‘diretta' e non ‘per equivalente' l'ablazione di somme corrispondenti all'imposta indebitamente evasa, muovendo dal duplice assunto che il denaro di cui consta siffatto profitto è un bene fungibile non suscettibile di identificazione storica nel patrimonio dell'ente, e che quest'ultimo non può reputarsi persona estranea al reato (non operando, dunque, la preclusione stabilita dall'art. 322ter, comma 1, c.p.) …[; ma], così opinando, da un lato si è capovolta d'emblée la consolidata visione che discerneva nella confisca di valore il naturale strumento di ablazione di qualsiasi vantaggio immateriale (e quindi anche di un mero risparmio di spese) …; e dall'altro si è giunti de facto ad ammettere una generalizzata confiscabilità dei benefici economici che una società può ritrarre da illeciti penal-tributari [MONGILLO, Confisca (per equivalente) e risparmi di spesa: dall'incerto statuto alla violazione dei principi, in Riv. it. dir. proc. pen., 2, 2015, 739 s.].
In conclusione

Vero è che, nella corruzione, l'anticipazione della punibilità all'accettazione della promessa rende ininfluente il flusso remunerativo dell'infedeltà; tuttavia l'art. 322-quater c.p., introdotto dall'art. 4, comma 1, lettera a), della l. 69 del 2015, deduce il valore della tangente come riparazione pecuniaria minima dovuta dal pubblico funzionario all'amministrazione di appartenenza. Invero, con la sentenza di condanna – ma non anche di applicazione della pena e men che meno di proscioglimento nonostante il positivo giudizio di attribuzione della responsabilità penale del fatto (come nell'ipotesi classica di prescrizione) – per i reati previsti dagli articoli 314, 317, 318, 319, 319 ter, 319 quater, 320 e 322 bis, è sempre ordinato il pagamento di una somma pari all'ammontare di quanto indebitamente ricevuto dal pubblico ufficiale o dall'incaricato di un pubblico servizio a titolo di riparazione pecuniaria in favore dell'amministrazione cui il pubblico ufficiale o l'incaricato di un pubblico servizio appartiene …, restando impregiudicato il diritto al risarcimento del danno”. A tal proposito, si potrebbe opinare che, a fronte di un pagamento sempre ordinato, sempre ricorra un danno all'amministrazione di appartenenza del pubblico funzionario quantomeno sub specie del danno all'immagine, danno a sua volta ristorabile – a prescindere dalla gravità minima – con una somma quantomeno pari alla tangente: la qual cosa, però, finirebbe per configurare una specie di super-danno-evento sebbene quasi sempre le amministrazioni siano passibili di un rimprovero di colpa da disorganizzazione per non aver adottato procedure prevenzionistiche o addirittura tollerato violazioni amministrative spia di più gravi infedeltà. In alternativa, si potrebbe ipotizzare che la condanna al ridetto pagamento rappresenti un'inedita forma di pena civile: non si tratta, invero, di pena pecuniaria tout court, dacché il pagamento è dovuto all'amministrazione di appartenenza, con la conseguenza che si configura un'obbligazione, tutelata sul piano civilistico, tra il pubblico funzionario e detta amministrazione. Non è questa la sede per addentrarsi in speculazioni; quel che preme di sottolineare è che, dal punto di vista del pubblico funzionario, al di là della confisca obbligatoria anche per equivalente (nel caso di condanna ma anche di applicazione della pena ex artt. 444 ss. c.p.p.) del prezzo e a fortiori del profitto del reato ex comma 1 dell'art. 322-ter c.p., la riparazione pecuniaria assume le sembianze di una sanzione aggiuntiva, non comminata però simmetricamente altresì al corruttore, con riferimento al quale, come visto, il comma 2 dello stesso art. 322-ter c.p. dispone sì un'ablazione non inferiore al denaro o alle altre utilità date o promesse al pubblico ufficiale o all'incaricato di pubblico servizio, tuttavia sul binario tradizionale della confisca (che consegue, di nuovo, sia alla condanna che all'applicazione della pena ex artt. 444 ss. c.p.p.).

L'effetto totalizzante – a mo' di tabula rasa – dell'ablazione è garantito,

  • quanto alle persone fisiche, dall'art. 335-bis c.p., il quale, statuendo che, salvo quanto previsto dall'articolo 322 ter, nel caso di condanna per delitti previsti dal presente capo è comunque ordinata la confisca anche nelle ipotesi previste dall'articolo 240, primo comma, rende obbligatoria anche la confisca ordinariamente facoltativa;
  • quanto agli enti, che rispondono di corruzione ai sensi dell'art. 25del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231, ogni qualvolta essa è perpetrato nel loro interesse o a loro vantaggio ai sensi del comma 1 dell'art. 5, dall'art. 19, che replicando l'art. 322-ter c.p., sancisce la confiscabilità obbligatoria anche per equivalente di prezzo e profitto.

Ciò nondimeno, l'ablazione di per sé non garantisce il ristabilimento dell'ordine violato.

Sul terreno dei contratti pubblici, rimane fermo il provvedimento di aggiudicazione con il contratto. Infatti, nonostante che l'art. 8 della Convenzione civile sulla corruzione, fatta a Strasburgo il 4 novembre 1999 e ratificata con la legge 28 giugno 2012, n. 112 (in Gazz. uff., 27 luglio 2012, n. 174), prescriva a chiare lettere, al comma 1, che chaque Partie prévoit dan son droit interne que tout contrat ou toute clause d'un contrat dont l'objet est un acte de corruption son entachés de nullité e, al comma 2, che chaque Partie prévoit dan son droit interne que tout contractant dont le consentement a été vicié par un acte de corruption peut demander au tribunal l'annulation de ce contrat, sans préjudice de son droit de demander des dommages-interêts, nessuna disposizione interna introduce una norma corrispondente. Quand'anche si opinasse che il contratto sia comunque nullo perché pregiudicato a priori da una convergenza illecita qual è la corruzione, il dato di fatto che è gli annali di giurisprudenza in specie amministrativa non contemplano casi di affermazione in tal senso né, più in generale, casi di impugnazione dell'aggiudicazione e del contratto sotto il profilo del vizio di scelta del contraente. Amaramente si osserva che persino la scarsa – anzi inesistente – casistica sul risarcimento del danno cui la vittima della corruzione ha diritto (artt. 4 e 5 Conv.) costituisce probabile sintomo di un'ampia diffusione di pratiche corruttive tra le imprese private (MANGANARO, La corruzione in Italia, in F. amm., II, 2014, 1872).

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