Rimedio compensativo e sovraffollamento carcerario

Maria Raffaella Falcone
05 Settembre 2016

Il rimedio compensativo offre tutela per tutti i casi di condizioni detentive non rispettose dell'art. 3 Cedu. Non si tratta, dunque, di uno strumento processuale limitato alle sole ipotesi di violazione dei diritti umani dovute al sovraffollamento carcerario. Di fatto, però, è quest'ultima grave disfunzione del sistema carcerario a costituire la motivazione della quasi totalità dei reclami.
Abstract

Il rimedio compensativo offre tutela per tutti i casi di condizioni detentive non rispettose dell'art. 3 Cedu. Non si tratta, dunque, di uno strumento processuale limitato alle sole ipotesi di violazione dei diritti umani dovute al sovraffollamento carcerario. Di fatto, però, è quest'ultima grave disfunzione del sistema carcerario a costituire la motivazione – unica o principale – della quasi totalità dei reclami sinora presentati ai giudici civili o ai magistrati di sorveglianza.

Riepilogare il tema del sovraffollamento carcerario quale elemento lesivo dei diritti umani sembra indispensabile per la trattazione dell'art. 35-ter l. 354/1975 dal punto di vista del diritto sostanziale.

La surpopulation carcérale sévère nella giurisprudenza convenzionale e la sua difficile “traduzione” nell'ordinamento nazionale

Negli ultimi anni, la Corte Edu, pur evitando di stabilire precisamente quale debba essere la superficie detentiva da garantire a ciascuna persona ristretta, ha cominciato a statuire che la mancanza di spazio dovuta al grave sovraffollamento carcerario (surpopulation carcérale sévère), integra di per sé un trattamento vietato dalla Convenzione.

In diverse pronunce ha chiarito che costituiscono casi emblematici di violazione dei diritti umani quelli nei quali il detenuto ha avuto a disposizione nella cella una superficie pro capite inferiore a 3 mq. Diversamente, ove lo spazio detentivo sia stato fra i 3 e i 4 mq, la sua limitatezza può dare luogo ad un trattamento disumano o degradante solo se si accompagna ad altre gravi carenze come, ad esempio, l'insufficiente aerazione o illuminazione della camera detentiva, l'eccessiva limitatezza dei tempi di permanenza fuori dalla camera, la grave mancanza d'intimità (cfr. sent. 22 aprile 2014, G.C. c. Italia, § 77 ).

Le condanne pronunciate nei confronti dell'Italia con le sentenze Sulejmanovic, 6 novembre 2009 e Torreggiani e a. 8 gennaio 2013, hanno fatto applicazione di tale ratio decidendi riconoscendo all'elemento della mancanza di una superficie superiore a 3 mq un rilievo determinante nella valutazione del caso concreto.

È stata questa una significativa novità per il nostro ordinamento giuridico; infatti, nella legislazione penitenziaria italiana non è rinvenibile alcuna precisa indicazione dello spazio vitale minimo ma vi è soltanto la generica previsione – contenuta nell'art. 6, comma 1, l. 354/1975 – che i locali nei quali si svolge la vita dei detenuti e degli internati devono essere di ampiezza sufficiente (Cass. pen. 19 dicembre 2013 - dep. 5 febbraio 2014, n. 5728).

In particolare, dopo la nota sentenza-pilota Torreggiani e altri, i primi commenti dottrinali italiani erano precipitosamente giunti alla conclusione che la giurisprudenza della Corte di Strasburgo si fosse “consolidata” nel senso di considerare automaticamente integrato un trattamento inumano e degradante allorché il ricorrente avesse avuto a disposizione nella cella uno spazio pro capite pari o inferiore a 3 mq (a fronte degli almeno 4 mq raccomandati dal Comitato per la Prevenzione della Tortura del Consiglio d'Europa); con ciò ritenendo tale doglianza assorbente di ogni possibile elemento a difesa dello Stato convenuto. Si era così ingenerata l'idea che la trasposizione nell'ordinamento interno della giurisprudenza convenzionale potesse risolversi in maniera quasi automatica.

Così non è stato sotto almeno due fondamentali profili.

Come si calcola la superficie detentiva?

Un primo elemento di incertezza ha riguardato i criteri di calcolo della superficie detentiva. In particolare, la giurisprudenza è tuttora divisa riguardo alla necessità di comprendere, o meno, nel computo della superficie utile lo spazio occupato dagli elementi di arredo e quello del bagno di pertinenza della camera di pernottamento.

L'incertezza dei giudici interni sul punto sembra dipendere dal fatto che le sentenze della stessa Corte Edu forniscono indicazioni non univoche.

Invero, anche solo limitandosi alle pronunce europee riguardanti il nostro Paese, non emerge un indirizzo uniforme. Nella decisione 5 marzo 2013 Tellissi c. Italia, la Corte, per stabilire di quale superficie disponesse il ricorrente, ha diviso la superficie della cella, sommata a quella del bagno, per il numero dei detenuti ivi assegnati. Su tale base ha stabilito che il ricorrente disponesse di una superficie pari a 3,6 mq e, dunque, ha escluso la verificazione di condizioni disumane o degradanti. Nella sentenza Sulejmanovic, invece, i giudici di Strasburgo, pur calcolando lo spazio al lordo della mobilia, hanno esplicitamente sottratto dalla superficie utile quella della toilette. Da ultimo, poi, nella sentenza Torreggiani, pur non operandosi una precisa sottrazione, la Corte – con riferimento ai 3 mq di cui disponevano i ricorrenti – ha però affermato che cet espace était par ailleurs encore restreint par la présence de mobilier dans les cellules, così mostrando di considerare di un qualche rilievo, seppure non ben definito, la presenza degli arredi nella cella.

Non stupisce, dunque, che la giurisprudenza interna sia contrastante sul punto.

In particolare, con riferimento al bagno, può dirsi ormai nettamente minoritario l'orientamento favorevole a ricomprenderlo nel computo (Trib. Palermo, decr. rg. n. 4946/2014 del 1 giugno 2015, che ha anche computato la superficie del vano adibito a cucina, mag. sorv. Macerata, ord. n. 654/15 del 17 novembre 2015; Trib. Torino, Sez. IV civile, decr. rg n. 10323/2014, del 15 giugno 2015). Infatti, per la quasi unanime giurisprudenza di merito è dirimente l'art. 7, comma 1, l. 354/1975, a mente del quale i servizi igienici sono collocati in un vano annesso alla camera, dunque non costituiscono superficie della cella propriamente detta e non possono essere ricompresi nel calcolo della superficie detentiva disponibile.

Quanto al mobilio, invece, i contrasti giurisprudenziali sono attualmente più evidenti.

Una prima corrente ermeneutica considera soltanto lo spazio effettivamente utilizzabile, o “calpestabile”, da parte del detenuto, ritenendo dunque che il calcolo debba essere operato al netto di tutte le parti della cella sulle quali insistono elementi di arredamento, come armadi, letti, tavoli, sedie, ecc. (tra i primi, mag. sorv. Venezia, ord. 6 febbraio 2014, n. 301). La presenza di tali oggetti, infatti, non renderebbe fruibile la superficie della cella da parte del detenuto.

Secondo altra ed opposta impostazione, il mobilio non deve essere detratto in nessuna sua parte. L'arredamento, infatti, ha la funzione di migliorare la vivibilità della cella, consentendo alla persona ristretta di sedersi, studiare o riporre in maniera ordinata i propri oggetti. Inoltre, il Governo italiano calcola le superfici al lordo del mobilio e proprio sulla base di tali calcoli il Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa ha ritenuto che il nostro Paese abbia adempiuto alla prescrizioni della sentenza-pilota Torreggiani (trib. sorv. Ancona, ord. 28 ottobre 2015, n. 1289; mag. sorv. Roma, ord. 13 aprile 2015 n. 2015/2051).

Su posizioni intermedie si schiera la prevalente giurisprudenza, affermando un criterio di scomputo solo parziale. In questa ottica si ritiene che non tutti i mobili sottraggano spazio utile ai fini del calcolo in discorso. Infatti, sono ritenuti fruibili gli arredi come il letto, in quanto può essere direttamente utilizzato dalla persona detenuta per riposare o per leggere, ovvero i mobili facilmente amovibili, come sedie, sgabelli o comodini, poiché non sono ritenuti idonei a sottrarre stabilmente spazio ai reclusi. Al contrario, lo spazio occupato dagli arredi fissi come gli armadi non viene ritenuto superficie fruibile dal detenuto e quindi non viene calcolato come spazio vitale disponibile per il medesimo.(Cass. pen., Sez. VII, ord. 17 novembre 2015, n. 3202, Borrelli, inedita, nonché mag. sorv. Padova, ord. 13 novembre 2014).

In conclusione

Altro profilo ancora controverso in giurisprudenza concerne l'inderogabilità della soglia minima dei 3 mq. Invero, un più approfondito esame delle pronunce della Corte Edu, anche successive alla sentenza Torreggiani, pone in dubbio il fatto che la ratio decidendi fondata sull'automatismo fra disponibilità di una superficie inferiore a 3 mq nella cella e configurazione di un trattamento inumano o degradante sia davvero consolidato nella giurisprudenza convenzionale e, dunque, vincolante ai sensi dell'insegnamento della Corte costituzionale (sent. n. 49/2015).

Nella sua più recente giurisprudenza la Corte Edu ha affermato la necessità di una valutazione globale delle condizioni detentive che prenda in esame tutti i fondamentali aspetti della vita intramuraria e che, dunque, non si esaurisca in una mera questione geometrica.

In almeno un caso, infatti, la Corte di Strasburgo ha ritenuto che la disponibilità di una superficie inferiore ai 3 mq costituisca soltanto una forte presunzione (strong presumption) della lesione (sent. 10 marzo 2015, Varga e altri c. Ungheria). In un successivo caso (sent. 12 marzo 2015, Muršić c. Croazia) la Corte si è spinta oltre, riconoscendo che pure laddove si realizzi tale grave limitazione di spazio, si può comunque escludere la violazione dei diritti umani se vi sono elementi in qualche modo compensativi (nel caso di specie, la situazione igienico-sanitaria dell'istituto era non spaventosa e il detenuto aveva la possibilità di trascorrere una parte della giornata fuori dalla cella e di poter svolgere, in determinati orari, attività sportive).

Per contro, in una recentissima pronuncia, (Corte Edu, 28 gennaio 2016, Patrikis e altri c. Grecia) la Corte ha ribadito la regola per cui l'assenza di almeno 3 mq comporta, di per sé sola, violazione della Cedu.

Molto chiara nell'evidenziare la presenza di diversi criteri di giudizio è un'opinione dissenziente allegata alla sentenza Muršić ove si precisa che dalla giurisprudenza europea si possono ricavare quattro diversi orientamenti: 1) al di sotto della soglia dei 3 mq vi è una forte presunzione di violazione dell'art. 3 Cedu; 2) al di sotto dei 3 mq vi è di per sé una violazione; 3) meno di 4 mq pro capite integrano automaticamente la violazione dell'art. 3 Cedu; 4) meno di 4 mq danno luogo ad una forte presunzione di trattamento lesivo.

Tale frastagliato panorama non poteva non avere effetti nella giurisprudenza interna, la quale si è divisa circa il valore da attribuire alla mancanza di 3 mq pro capite all'interno della cella. Da una parte, vi è chi ha ritenuto che tale soglia sia inderogabile e che, pertanto, il giudizio si possa esaurire in senso favorevole al detenuto anche solo con l'avvenuto accertamento di tale situazione (cfr. mag. sorv. Padova 13 novembre 2014 n. Sius 2013/9378). Dall'altra parte, vi è chi ha seguito la ratio decidendi espressa dalla sentenza Muršić c. Crozia, considerando che condizioni di vita complessivamente buone possano compensare una transitoria mancanza di spazio (mag. sorv. Cuneo ord. 21 marzo 2016, n. 2016/313).

Portando a conclusioni ulteriori questo secondo orientamento,parte della giurisprudenza, pur ritenendo in linea di massima inderogabile la soglia dei 3 mq, valorizza l'elemento del tempo trascorso fuori dalla cella e, pertanto, ritiene che un modello di vita detentiva incentrato sulla permanenza nella cella nelle sole ore notturne consente di non conferire centralità all'eventuale carenza di spazio (mag. sorv. Verona, ord. 17 febbraio 2016, n. 317/2016).

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