La prova del dolo nel tentativo di omicidio

Andrea Alberico
05 Ottobre 2016

In sede di prova del dolo nel tentativo di omicidio, quali sono i criteri per la distinzione con le lesioni personali? Il problema della prova del dolo nel delitto di omicidio costituisce uno dei luoghi più esplorati e controversi della scienza penale. L'accertamento della volontà omicidiaria, infatti, oltre ad essere decisivo ai fini dell'applicazione delle diverse fattispecie che presidiano la vita, risulta connotato da intrinseca difficoltà per la “forma libera” della fattispecie e per la sconfinata casistica che può porsi innanzi agli operatori. La testimonianza di questa difficoltà emerge anche dalla prudenza semantica cui ricorre la suprema Corte nelle decisioni al riguardo.

In sede di prova del dolo nel tentativo di omicidio, quali sono i criteri per la distinzione con le lesioni personali?

Il problema della prova del dolo nel delitto di omicidio costituisce uno dei luoghi più esplorati e controversi della scienza penale.

L'accertamento della volontà omicidiaria, infatti, oltre ad essere decisivo ai fini dell'applicazione delle diverse fattispecie che presidiano la vita, risulta connotato da intrinseca difficoltà per la “forma libera” della fattispecie e per la sconfinata casistica che può porsi innanzi agli operatori.

La testimonianza di questa difficoltà emerge anche dalla prudenza semantica cui ricorre la suprema Corte nelle decisioni al riguardo. In tema omicidio volontario, in relazione alla valutazione circa la sussistenza o meno dell'animus necandi, la prova del dolo omicidiario è prevalentemente affidata alle peculiarità estrinseche dell'azione criminosa, aventi valore sintomatico in base alle comuni regole di esperienza, quali il comportamento antecedente e susseguente al reato, la natura del mezzo usato, le parti del corpo della vittima attinte, la reiterazione dei colpi, nonché tutti quegli elementi che, secondo l'id quod plerumque accidit, abbiano un valore sintomatico. (Nel caso di specie, la Suprema Corte ha ritenuto corretta la motivazione della decisione di merito nella quale, in riferimento all'omicidio volontario di un rappresentante di oggetti preziosi raggiunto da colpi di arma da fuoco mentre era alla guida dell'auto, erano stati valorizzati il tipo di arma usata, la reiterazione dei colpi, la loro traiettoria, la posizione reciproca tra aggressore e vittima, la distanza dalla quale erano stati esplosi i colpi, le parti del corpo attinte) (Cass. pen., Sez. I, n. 15023/2006). Ancor più chiaramente, talvolta la Corte parla di prova indiretta e della necessità di affidarsi a procedimenti induttivi, secondo le regole dell'inferenza: In tema omicidio volontario, in mancanza di circostanze che evidenzino ictu oculi l'animus necandi, la valutazione dell'esistenza del dolo omicidiario può essere raggiunta attraverso un procedimento logico d'induzione da altri fatti certi, quali i mezzi usati, la direzione e l'intensità dei colpi, la distanza del bersaglio, la parte del corpo attinta, le situazioni di tempo e di luogo che favoriscano l'azione cruenta. (Nel caso di specie, la Suprema Corte ha ritenuto corretta la configurabilità del dolo omicidiario nella forma del dolo alternativo, anziché l'ipotesi dell'omicidio preterintenzionale, con riferimento all'omicidio realizzato con violenti calci alla schiena e al torace ed il pestaggio di parti vitali del corpo della vittima, inerte a terra a causa del suo stato di ubriachezza) (Cass. pen., Sez. I, n. 28175/2007).

Le difficoltà che accompagnano la prova del dolo nell'omicidio consumato si riverberano sulla fattispecie di tentativo, rendendo spesso articolata la distinzione con la meno grave ipotesi di lesioni personali volontarie.

Ancora una volta, la giurisprudenza ammette pacificamente la natura "indiretta" del procedimento probatorio, affermando che Nell'ipotesi di omicidio tentato, la prova del dolo, in assenza di esplicite ammissioni da parte dell'imputato, ha natura indiretta, dovendo essere desunta da elementi esterni e, in particolare, da quei dati della condotta che, per la loro non equivoca potenzialità offensiva, siano i più idonei ad esprimere il fine perseguito dall'agente. Ne consegue che, ai fini dell'accertamento della sussistenza dell'animus necandi, nel delitto tentato assume valore determinante l'idoneità dell'azione che va apprezzata in concreto, senza essere condizionata dagli effetti realmente raggiunti, dovendosi diversamente l'azione ritenersi sempre inidonea, per non aver conseguito l'evento, sicché il giudizio di idoneità è una prognosi, formulata ex post, con riferimento alla situazione così come presentatasi al colpevole al momento dell'azione, in base alle condizioni umanamente prevedibili del caso particolare (Cass. pen., Sez. I, n. 39293/2008; in senso pienamente conforme, da ultimo, Cass. pen., Sez. I, n. 35006/2013).

La giurisprudenza invita dunque ad analizzare i dati della condotta che siano più idonei ad esprimere il fine perseguito dall'agente.

Anche in questo caso, però, il giudizio va operato in concreto e, dunque, tenendo in debita considerazione tutte le caratteristiche dell'azione criminosa.

In questo senso, non avrà alcun pregio il mero riferimento all'arma impiegata, senza aver preliminarmente stabilito le modalità con le quali la stessa è stata utilizzata; ancora, tendenzialmente indifferente risulterà anche la sede corporea attinta, senza aver prima analizzato la tipologia di colpo inferto, la sua incidenza, il mezzo utilizzato.

Ancora la prova della sussistenza – ovvero della mancanza – della volontà omicidiaria deve poi resistere al confronto con le complessive modalità dell'azione ed, in particolar modo, con la possibilità, per il colpevole, di infliggere ulteriori colpi – ovvero il c.d. colpo di grazia – per cagionare l'evento.

Sul piano oggettivo, infatti, è ben possibile osservare una convergenza, ove non addirittura una vera e propria sovrapposizione, tra l'azione omicida e quella diretta alle sole lesioni. Il che talvolta rende l'elemento soggettivo il vero banco di prova nella scelta tra le due fattispecie.

La scarsa pregnanza degli indicatori oggettivi è stata di recente valorizzata dalla giurisprudenza, secondo cui In tema di tentato omicidio, la scarsa entità (o anche l'inesistenza) delle lesioni provocate alla persona offesa non sono circostanze idonee ad escludere di per sé l'intenzione omicida, in quanto possono essere rapportabili anche a fattori indipendenti dalla volontà dell'agente, come un imprevisto movimento della vittima, un errato calcolo della distanza o una mira non precisa (Cass. pen., Sez. I, n. 52043/2014).

Come si nota, l'indagine sull'animus necandi resta imprescindibile e dirimente.

E non è un caso che sia proprio questo il criterio preferito dai giudici per preferire l'una piuttosto che l'altra fattispecie: In tema di delitti contro la persona, per distinguere il reato di lesione personale da quello di tentato omicidio, occorre avere riguardo sia al diverso atteggiamento psicologico dell'agente sia alla differente potenzialità dell'azione lesiva, desumibili dalla sede corporea attinta, dall'idoneità dell'arma impiegata nonché dalle modalità dell'atto lesivo. (Fattispecie in cui è stato ritenuto sussistente il tentato omicidio per essere stata la vittima colpita da cinque coltellate di cui una all'addome) (Cass. pen., Sez. I, n. 51056/2013).

È proprio il finale rinvio alle modalità dell'atto lesivo a confermare che la prova indiretta dell'elemento psicologico impone la complessiva e concreta valutazione di tutte le circostanze del caso concreto conosciute all'agente, unitamente al puntuale disconoscimento degli elementi casuali che, sebbene abbiano avuto impatto sulle conseguenze dell'azione, non possono incidere sull'intenzione criminosa dell'agente.

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