Esercizio abusivo della professione di psicoterapeuta per lo psicoanalista non abilitato. Ma è davvero così?

Gianluca Bergamaschi
06 Novembre 2015

La questione verte sul fatto se commetta il reato ex art. 348 c.p. (Abusivo esercizio di una professione) chi pratichi la psicoanalisi senza essere iscritto all'albo ed abilitato ai sensi della l. 56/1989 (Ordinamento della professione di psicologo), passando per l'analisi delle fattuali differenze tra le discipline, della volontà storica del legislatore del 1989 e delle posizioni giurisprudenziali, con particolare riferimento all'indirizzo che esclude la natura di “norma penale in bianco” dell'art. 348 c.p.
Abstract

La questione verte sul fatto se commetta il reato ex art. 348 c.p. (Abusivo esercizio di una professione) chi pratichi la psicoanalisi senza essere iscritto all'albo ed abilitato ai sensi della l. 56/1989 (Ordinamento della professione di psicologo), passando per l'analisi delle fattuali differenze tra le discipline, della volontà storica del legislatore del 1989 e delle posizioni giurisprudenziali, con particolare riferimento all'indirizzo che esclude la natura di “norma penale in bianco” dell'art. 348 c.p.

Applicabilità alla psicoanalisi della legge 56/1989 (.d. legge Ossicini)

Distinzione “fattuale” tra psicoanalisi, psicologia e psicoterapia. La prima questione è capire se uno psicoanalista sia cosa diversa da uno psicologo e da uno psicoterapeuta, circa la preparazione professionale, la filosofia di fondo e l'attività esercitata.

Quanto alla preparazione e all'impostazione filosofica, mentre la psicologia e la psicoterapia richiedono una formazione clinica, medica o psicologica, giacché si basano sul concetto di malattia, la psicoanalisi, prescindendo da tale concetto, si fonda sulla conoscenza e sull'autoconoscenza, quindi, non esige una formazione universitaria, ma si basa su un percorso personale di pratica analitica passiva, all'esito del quale si comincia a praticare l'analisi su altri.

Dal punto di vista dell'attività esercitata, mentre la psicologia si fonda sull'utilizzo dei test psicologici al fine di trarne dei profili e la psicoterapia, partendo dal concetto di malattia, punta a “guarire” utilizzando dei veri e propri protocolli terapeutici d'intervento sui sintomi, attraverso precisi input comportamentali ed eventualmente la somministrazione di farmaci; la psicoanalisi, prescindendo dal concetto di patologia, consiste essenzialmente in un metodo cognitivo che non prevede nessun intervento diretto sui sintomi, né farmacolgico né comportamentale ma è una tecnica di ascolto finalizzata a rimandare all'analizzando quello che lui stesso sta dicendo, affinché ne prenda piena coscienza e vinca le resistenze interiori e recuperi se stesso, poiché, sentendosi ascoltato ed accettato per quello che è, giunga col tempo ad ascoltarsi e ad accettarsi.

Quindi, la psicoanalisi non è psicologia, perché non mira a tracciare dei profili psicologici, non è psicoterapia, giacché non cerca d'intervenire sui disturbi psicopatologici e gli analizzandi non sono dei malati ma solo persone portatrici di problemi di ordine esistenziale legati a nodi irrisolti dell'inconscio, verso le quali la psicoanalisi rappresenta una semplice attività di stimolo all'autocoscienza che cerca di portali a capire i termini del proprio conflitto.

A maggior chiarezza del distinguo, occorre operare una subdistinzione tra la psicoanalisi pura, ossia quella testé descritta, e la psicoterapia psicoanalitica, laddove solo quest'ultima ha connotati veramente terapeutici, secondo una distinzione accademicamente accettata (V. E. SANAVIO e C. CORNOLDI, Psicologia clinica, Bologna, 159 ss.).

Volontà “storica” del legislatore del 1989. Partendo dal comune assunto che il d.d.l. iniziale della legge 56/1989, all'art. 3, tra gli psicoterapeuti menzionava anche gli psicoanalisti e poi tale riferimento fu tolto dal testo definitivo, esistono due indirizzi: uno afferma che ciò avvenne per evitare un pleonasmo, giacché la psicoanalisi doveva considerarsi una forma di psicoterapia; l'altro sostiene che la modifica del d.d.l. avvenne proprio su richiesta dell'Associazione Psicoanalitica Italiana, la quale spiegò ai Parlamentari la differenza tra le due discipline, con la conseguente deliberata volontà del legislatore di sottrarre l'attività psicoanalitica dalla disciplina della legge.

D'altro canto, all'epoca dell'approvazione della legge il dibattito sulla natura della psicoanalisi era ben conosciuto, per cui appare poco plausibile che il legislatore abbia voluto includere la psicoanalisi nella psicoterapia, modificando lo status quo ante, semplicemente col silenzio e dopo aver espressamente considerato l'ipotesi di sussumere la psicoanalisi sotto la disciplina della legge Ossicini.

Le conseguenze giuridiche. Se, quindi, la legge Ossicini non fosse applicabile alla psicoanalisi, allora si tratterebbe di una libera professione non protetta, regolata dal codice civile (artt. 2229 - 2238 c.c.) e dalla l. 14 gennaio 2013, n. 4 (Disposizioni in materia di professioni non organizzate) ed esercitabile da chiunque se ne ritenga capace, con esclusione solo dei comportamenti propri delle attività “protette”, aspetto questo che è il vero snodo del problema.

In tal caso, inoltre, detta legge non potrebbe fungere da contenuto normativo dell'art. 348 c.p., intesa come una norma penale in bianco, il cui precetto, cioè, si compone non solo di quanto in essa contenuto ma pure di altra norme ricavabili da altre branche giuridiche, di solito norme amministrative che prevedono l'abilitazione ed i relativi requisiti.

Né tale lacuna sarebbe colmabile con l'interpretazione analogica, giacché, in generale, una normativa abilitativa deve essere interpretata ed applicata nei suoi rigorosi limiti logico-giuridici, ossia in via di stretta tipicità e tassatività, anche perché costituisce una deroga al principio di libertà dell'attività lavorativa ex art. 4 Cost. (Cass. pen., Sez. VI, 23 aprile 1996); inoltre, in sede penale, ciò sarebbe una vietatissima analogia in malam partem, perché tesa a recuperare un elemento costitutivo del reato altrimenti inesistente (circa il divieto di interpretazioni analogiche degli atti tipizzati come riservati ad una professione soggetta ad abilitazione statale, si vedano, ad esempio, Cass., pen., Sez. VI, 3 aprile 1995, n. 9089; Cass. pen., Sez. VI, 29 maggio 1996, n. 2076 e Cass. pen., Sez. V, 17 ottobre 2001, n. 41142).

Le posizioni giurisprudenziali

La giurisprudenza di merito. Su questa linea è anche parecchia giurisprudenza di merito, ad esempio, la sentenza n. 148 del 19 gennaio 2001 del tribunale di Brescia, in cui, seppur a livello di obiter dictum, si afferma la non assoggettabilità della psicoanalisi alla legge 18 febbraio 1989, n. 56; così conclude anche il decreto di archiviazione del GIP di Pordenone del 14 luglio 2003; nonché, infine, la sentenza n. 86 del 2005 del tribunale di Parma, Sezione distaccata di Fidenza, che, proprio per tale motivo, ebbe ad assolvere l'imputato con la formula perché il fatto non costituisce reato.

La giurisprudenza superiore. Le cose, però, non stanno così quanto alla Corte costituzionale, giacché, in punto di fatto, non accetta l'idea che la psicoanalisi non sia una psicoterapia e, in linea di principio, ritiene che ad essa sia applicabile la c.d. legge Ossicini; inoltre, sulla scorta della giurisprudenza costituzionale, tende a considerare l'art. 348 c.p. una norma autosufficiente e non più una norma penale in bianco, con l'evidente pericolo di “aggiramento” di fatto del divieto di analogia.

Tutto parte dalla sentenza n. 199 del 27 aprile 1993 della Corte cost., che negò all'art. 348 c.p. la natura di norma penale in bianco.

La Corte considerò la norma autosufficiente circa gli elementi costitutivi, cosicché declassò la normativa abilitativa a mero presupposto, alla stregua del quale il giudice potrebbe trarre la nozione di atto professionale abusivo senza pescarlo direttamente tra quelli tipicamente protetti e riservati ma ricavandolo dalla sostanziale convergenza del contenuto finalistico, più che dalla natura intrinseca, ossia dalle caratteristiche giuridiche, tecnico-scientifiche e morfologiche di ciascuno, senza con ciò violare il principio di legalità o il divieto di analogia in malam partem.

Ora, non vi è chi non veda la vischiosità di detta impostazione, giacché, guardando al fine pratico più che alla natura tecnico-giuridica dell'attività, si rischia di estendere la protezione ad attività molto diverse ed in modo sostanzialmente arbitrario.

In ogni caso s'impone un'esigenza definitoria, che, partendo dal fine concreto dell'atto anziché dalla sua natura tecnico-giuridica, individui un contenuto essenziale e giunga ad una definizione paradigmatica da declinare ogni volta per operare il confronto, soprattutto, tra le c.d. attività di confine e quelle pacificamente protette, per cui, in definitiva, il raffronto con la normativa di settore non è eludibile e si perviene, nella più parte dei casi, alle medesime conclusioni che avremmo considerando l'art. 348 c.p. una norma penale in bianco.

In pratica, nello specifico che ci occupa, non si tratta più di stabilire se l'attività psicoanalitica sia o meno compresa nella riserva della c.d. legge Ossicini ma se tale attività posta concretamente in essere, abbia un contenuto riconducibile alla nozione di terapia, così come ricavabile non tanto dalla predetta legge, considerata troppo generica sul punto, ma dal d.P.R. 5 aprile 1950, n. 221 (Regolamento di esecuzione del d.lgs. C.p.S. 13 settembre 1946, n. 233, recante: Ricostituzione degli Ordini delle professioni sanitarie e per la disciplina dell'esercizio delle professioni stesse), e che, in quanto tale, sia riservata alla professione medica, per poi stabilire se, rivolgendosi alla mente e non al corpo, possa essere considerata psicoterapia.

Segue. Le posizioni della giurisprudenza di legittimità

Tale impostazione della Corte cost. è tendenzialmente seguita dalla giurisprudenza di legittimità, che, pur essendo abbondante sul tema dell'abusivo esercizio della professione medica, è piuttosto scarsa circa lo specifico della psicoanalisi.

Nelle poche sentenze reperite, tuttavia, la suprema Corte è perentoria nel ritenere la psicoanalisi, genericamente intesa, una forma di psicoterapia, quindi, soggetta alla c.d. legge Ossicini (ad es. Cass. pen., Sez. II, 9 febbraio 1995, 5838; Cass. pen., Sez. VI, 3 marzo 2004, n. 17702; Cass. pen., Sez. III, 24 aprile 2008, n. 22268; Cass. pen., Sez. VI, 23 marzo 2011, n. 14408).

Non solo, una delle sentenze più recenti (Cass. pen., Sez. VI, 23 marzo 2011, n. 14408), arriva ad affermare che pure il dialogo è una forma di terapia, con il che ogni questione sarebbe chiusa, perché se il solo dialogare fosse un psicoterapia, spazio di azione non ne residuerebbe più, se non quello di un dilagare repressivo indiscriminato di ogni “chiacchierata” con una persona in difficoltà psico-esistenziale, al fine di farlo stare meglio.

Tuttavia, tale arresto colma le proprie aporie motivazionali con un secco rinvio ad altra e più approfondita sentenza (Cass. pen., Sez. VI, 3 marzo 2004, n. 17702), la quale non dice propriamente questo.

Infatti, tale sentenza – pur non prendendo neppure in esame la distinzione tra psicoanalisi pura e psicoterapia psicoanalitica – fa un ragionamento che può ricalcare o, comunque, sottendere questa distinzione.

La sentenza, sostanzialmente, dice che solo gli atti riservati possono condurre al reato, se commessi da chi non sia abilitato a compierli, ma spesso non è agevole ricavare dalla normativa di riferimento l'esatta individuazione di tali atti, cosicché spetta al giudice ricavare dalla ratio della stessa un paradigma che gli consenta di valutare se l'atto sia comunque espressione di quella competenza e di quel patrimonio di conoscenze che il legislatore ha inteso tutelare attraverso l'individuazione della professione protetta, verificando in particolare, con rigore, se le modalità di esercizio rivelino all'esterno i caratteri tipici di quell'ordinamento professionale.

Quindi, intanto, non solo la finalità ma pure le modalità di esercizio vengono prese in considerazione.

Inoltre, si ricollega il paradigma curativo ad uno specifico comportamento, ossia al dialogo con i clienti, per arrivare ad affermare che, in effetti, esso, nel caso trattato, integrava l'esercizio di attività terapeutica, giacché – concretizzandosi in una sostanziale ricerca diagnostica e risolvendosi in consigli comportamentali e posturali per risolvere i disturbi di natura psicologica – rientrava nel paradigma diagnosi, prognosi e cura, pertanto era attività riservata a soggetti abilitati alla stessa.

Siccome, però, ogni concetto richiama il suo contrario, si deve concludere che, laddove ciò non sia – vale adire ove il dialogo non si concretizzi in una sostanziale ricerca diagnostica e ometta qualsiasi consiglio comportamentale o posturale, nonché eviti lo scopo di contrastare i sintomi e i disturbi di natura psicologica – esso non rientrerà nel paradigma diagnosi, prognosi e cura.

Tale essendo, per quanto detto supra, il dialogo nella psicoanalisi pura – il quale, attraverso il racconto dei sogni e le libere associazioni, si limita a far emergere l'inconscio –, esso in linea teorica, dovrebbe sfuggire alla nozione di psicoterapia e, dunque, alla commissione del reato in questione.

In effetti, è questa la logica a cui accedono, ad esempio, anche le sentenze del tribunale di Trieste, 1 dicembre 2006, n. 1612e della Corte d'appello di Bologna, Sez. III, n. 1413 del 7 maggio 2009, la quale – pur rifiutando l'idea dell'inapplicabilità della legge Ossicini, accolta in primo grado dalla sentenza n. 86 del 23 marzo 2005 del tribunale di Parma, Sezione distaccata di Fidenza – conferma l'assoluzione perché la concreta condotta dello psicoanalista, per incorrere nei rigori di legge penale, deve effettivamente rientrare nel paradigma diagnosi-prognosi-cura, mentre nel caso di specie ciò non poteva dirsi avvenuto, essendo provato solo che l'agente si era, sostanzialmente, limitato all'ascolto mai risultando dallo stesso indicate prescrizioni comportamentali o farmacologiche e tantomeno effettuate diagnosi.

In conclusione

Si potrebbe, dunque, arguire che, a ben vedere, l'orientamento della giurisprudenza non è ostativo alla pratica della psicoanalisi pura ma solo di quella che sconfini in pratiche concretamente ed effettivamente psicoterapeutiche, pur partendo da una base psicoanalitica.

Tale affermazione, però, va presa con cautela, perché, nelle sentenze citate, viene introdotto un elemento distorsivo della logica di fondo propugnata, ossia la questione della malattia psicologica in capo al soggetto trattato, intesa come uno degli elementi discriminatori tra le condotte lecite e quelle illecite.

Questa distinzione tra il praticare un intervento su di un soggetto malato piuttosto che su un soggetto sano, rende il terreno assai friabile e opacizza la prospettiva, giacché, intanto, il concetto di malattia della mente o della psiche è altamente discutibile e discusso nella stessa comunità scientifica; inoltre, fare riferimento ad un dato esterno, quale l'eventuale psicopatologia del cliente, comporta l'estraniazione dal problema centrale, ossia le modalità della condotta dell'agente, quasi che praticare cure mediche ad una persona sana non fosse esercizio abusivo della professione medica.

Tolta questa variabile, potenzialmente eversiva della costruzione, lo schema paradigmatico di cui sopra appare in via di consolidamento; si veda, ad esempio, anche la sentenza della Cassazione, Sez. VI, 20 giugno 2007, n. 34200, che sostanzialmente aderisce all'impostazione che sostiene l'autosufficienza dell'art. 348 c.p. ed in cui si opera un'ampia sintesi degli arresti giurisprudenziali sul punto, per arrivare ad affermare in massima che Integra il reato di esercizio abusivo della professione medica ex art. 348 c.p., la condotta di chi effettua diagnosi e rilascia prescrizioni e ricette sanitarie per prodotti omeopatici svolta in assenza della prescritta abilitazione dello Stato, perché tali attività coincidono con un'attività sanitaria che presuppone, per il legittimo espletamento, il possesso di un valido ed idoneo titolo, a nulla rilevando l'esclusione dell'omeopatia dalle professioni mediche.

In sede di motivazione la Corte ricorda che Sulla stessa linea si è affermato, in relazione alla professione medica che si estrinseca nella capacità di individuare e diagnosticare le malattie, nel prescriverne la cura, nel somministrare i rimedi anche se diversi da quelli ordinariamente praticati, che commette il reato di esercizio abusivo della professione medica chiunque esprima giudizi diagnostici e consigli, ed appresti le cure al malato; precisandosi che da tale condotta non è esclusa la psicoterapia, giacché la professione in parola è caratterizzata dal fine di guarire e non già dai mezzi scientifici adoperati ».

Infine la Corte dice che La giurisprudenza di legittimità ha, dunque, recepito la costruzione ermeneutica inaugurata dalla sentenza costituzionale n. 1999 del 1993, che ha ravvisato nella previsione dell'art. 348 c.p. una fattispecie caratterizzata da autonomia precettiva che la rende autosufficiente rispetto alla disciplina dei contenuti e dei limiti imposti dai titoli abilitativi … . Con decisivi riverberi quanto alle professioni cd. di "confine" con l'attività medica, perché ciò che designa l'opera dell'interprete è la necessità di pervenire ad una corretta individuazione della condotta, in modo di verificare se essa abbia il contenuto di atti tipici della professione medica che, a norma del d.P.R. 5 aprile 1950, n. 221, può essere esercitata da coloro che, oltre ad avere conseguito la laurea e superato i prescritti esami di abilitazione, risultino iscritti negli appositi albi (così, ancora Sez. 6^, 27 marzo 2003, Carrabba; nonché, Sez. 6^, 9 febbraio 1995, Avanzino Sez. 6^, 11 maggio 1990, Mancariello, nel senso che, in relazione alla professione medica che si estrinseca nell'individuare e diagnosticate malattie, nel prescriverne la cura, nel somministrare i rimedi anche se diversi da quelli ordinariamente praticati, commette il reato di esercizio abusivo di tale professione chiunque esprima giudizi diagnostici e consigli ed appresti cure al malato)».

Stando così le cose, perché si possa dire che un soggetto non abilitato ed iscritto, abbia posto in essere una terapia e, quindi esercitato abusivamente una professione sanitaria, anche psicoterapeutica, occorre necessariamente riscontrare nella sua condotta i profili supra menzionati, che si sintetizzano e sostanziano nella attività di diagnosi, prognosi e cura, intesa essenzialmente come l'individuazione del problema, la prescrizione dei rimedi e delle modalità della loro assunzione, come in effetti fa, ad esempio, la «psicoterapia psicoanalitica» e come invece non fa la "psicoanalisi pura".

La questione, dunque, non può dirsi chiusa ed è auspicabile che, de iure condito, la giurisprudenza abbia modo di approfondire i contenuti delle varie discipline in fatto, prendendo anche in seria considerazione la distinzione tra psicoanalisi pura e psicoterapia psicoanalitica, prima di statuire in diritto una frettolosa sentenza di morte per la c.d. libera psicoanalisi; quanto poi al de iure condendo, sarebbe certo auspicabile un intervento legislativo chiarificatore, giacché tale non può dirsi la l. 14 gennaio 2013, n. 4 (Disposizioni in materia di professioni non organizzate).

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