Termini (perentori?) per l’esercizio dell’azione penale o per l’archiviazione

Antonella Marandola
07 Luglio 2017

In un'ottica tesa al rafforzamento della durata ragionevole del processo, dopo vari stop and go, è stata approvata la c.d. Riforma Orlando ovvero la Riforma che come indica l'intitolazione stessa della legge 103/2017 apporta la Modifica al codice penale, al codice di procedura penale e all'ordinamento penitenziario. Essa si propone, fra l'altro, il compito d'assicurare l'indicato principio anche garantendo una pronta definizione del procedimento, una volta che il P.M. abbia concluso le investigazioni.
Abstract

In un'ottica tesa al rafforzamento della durata ragionevole del processo, dopo vari stop and go, è stata approvata la c.d. Riforma Orlando ovvero la Riforma che come indica l'intitolazione stessa della legge 103/2017 apporta la Modifica al codice penale, al codice di procedura penale e all'ordinamento penitenziario.

Essa, come è stato già indicato (v. SPANGHER) si propone, fra l'altro, il compito d'assicurare l'indicato principio anche garantendo una pronta definizione del procedimento, una volta che il P.M. abbia concluso le investigazioni.

Incidendo anche su vari aspetti “di contorno” (alleggerimento del carico in entrata, deflazione nel corso delle indagini e nell'ambito dei controlli dei provvedimenti), il Legislatore, dopo aver constatato come quella che si colloca alla conclusione delle indagini è una delle fasi nelle quali si annida una certa staticità del procedimento è intervenuta su di essa al fine di accellerare l'avvio o meno del processo. Nel caso di inerzia si rimette al Procuratore Generale l'obbligo di sostituirsi al P.M. di grado inferiore.

Vecchi problemi ...

Com'è noto, con l'introduzione del nuovo codice di rito penale il Legislatore ha posto particolare attenzione alla tempistica investigativa e alla conseguenti scelte del P.M.

In linea con la “nuova” struttura accusatoria, al fine d'imprimere tempestività alle investigazioni e di contenere in un lasso di tempo predeterminato la condizione di chi a tali indagini è assoggettato (v. art. 6, comma 1, Cedu e – ora – art. 111, comma 2, Cost.) il Legislatore del 1988 ha strutturato agli artt. 335, 405, 406, 407 e 415 c.p.p. una peculiare disciplina: com'è noto prassi devianti, avallate da una granitica giurisprudenza delle Sezioni unite, hanno, nel tempo, vanificato quelle finalità. Anche su questo versante si assiste da tempo ad un “gigantismo investigativo” che ha depauperato il valore delle sanzioni stabilite per le omesse o ritardate iscrizioni; ha dequalificato la concessione delle proroghe, legalmente intese come eccezionali, ma sistematicamente concesse da un Gip che non è sempre capace di sviluppare il suo esatto ruolo di tutore della legalità e controllore della corretta osservanza del meccanismo volto a garantire la contingenza dei tempi processuali posti a disposizione dell'inquirente.

È in quest'ottica che sono state da tempo avanzate delle proposte di modifica della menzionata disciplina, volte ad assicurare un'accellerazione e una delimitazione certa dei tempi investigativi massimi con rafforzamento dei poteri di vigilanza dell'organo giurisdizionale, con conseguente inutilizzabilità degli atti compiuti oltre il termine previsto (anche per il reato commesso da persone ignote), pur prevista dall'art. 407, comma 3 c.p.p. ma ridotta nella pratica a sanzione diversa e distinta da quella prevista all'art. 191 c.p.p. (v., da ultimo, le proposte avanzate nell'ambito della c.d. Commissione Canzio in Canzio, Il processo penale: le riforme “possibili”, in Criminalia, 2014, 505)

Tuttavia, una volta accantonate tali iniziative, anche in ragione della ferma opposizione di una parte della magistratura, che rivendica la ”piena autonomia” del P.M. nella gestione di tale fase procedimentale, con la c.d. riforma Orlando si agisce su un versante del tutto peculiare qual è – come anticipato – quello che divide la chiusura delle indagini dai diversi epiloghi procedimentali.

… e nuove soluzioni

La novella si occupa del frangente temporale successivo alla chiusura delle indagini e allo stesso invio dell'avviso di conclusione delle stesse.

La nuova previsione è collocata in coda alla disposizione che regola i termini massimi delle indagini. Si prevede, innanzitutto che in ogni caso il pubblico ministero «è tenuto a esercitare l'azione penale o a richiedere l'archiviazione entro il termine di tre mesi dalla scadenza del termine massimo di durata delle indagini e comunque dalla scadenza dei termini di cui all'art. 415-bis

»

(art. 407, comma 3-bis, c.p.p.).

La formulazione è stringente, configurando un vero e proprio dovere in capo al pubblico ministero, suscettibile di provvedimento disciplinare in caso di ingiustificato ritardo, al di là dell'intervento – come si dirà – del procuratore generale con un provvedimento di avocazione. Il dato emerge con chiarezza dall'incipit della norma che prevede l'operatività della previsione in ogni caso. La nuova disposizione si colloca, infatti, immediatamente dopo il comma 3 a mente del quale «Salvo quanto previsto dall'articolo 415-bis qualora il pubblico ministero non abbia esercitato l'azione penale o richiesto l'archiviazione nel termine stabilito dalla legge o prorogato dal giudice, gli atti di indagine compiuti dopo la scadenza del termine non possono essere utilizzati». Invero, le due disposizioni paiono suffragare la necessità di una “pronta attivazione” da parte del P.M.

A mente della novella il pubblico ministero deve esercitare l'azione penale ovvero richiedere l'archiviazione entro tre mesi dalla scadenza del termine massimo di durata delle indagini o dalla scadenza dei termini di cui all'art. 415-bis c.p.p. Sempre nella logica del contemperamento della scelta e della finalità sottesa alla previsione, si stabilisce che in relazione ai procedimenti di cui ai nn. 1, 3 e 4 del comma 2 dello stesso art. 407 c.p.p. il termine è fissata in quindici mesi.

Si crea in tal caso un criterio di priorità e un dato che crea sicuramente una forte sperequazione rispetto ai reati che, pur annoverati nella norma appena menzionata, subiscono il regime “ordinario” senza, peraltro, che siano effettivamente comprensibili le ragioni sottese a quella differente scelta.

Sotto tale aspetto si evidenzia come già dalla lettura degli artt. 50 e 405 c.p.p., vale a dire dall'impianto originario del 1988 emergesse, in filigrana, un tale obbligo. Tuttavia, la legge 103 del 2017 rafforza quell'obbligo, prevedendo le due indicate ipotesi – alternative – che si correlano alle situazioni di operatività o meno dell'art. 415-bis c.p.p. In ogni caso, se le indagini si fossero esaurite in termini più brevi rispetto a quelli massimi, si dovrebbe ritenere che dalla loro scadenza decorrerebbe il riferito termine di tre mesi.

Il rigore della previsione, considerata la variabilità delle situazioni prospettabili, è suscettibile, tuttavia, di qualche temperamento, originariamente non previsto nel testo di riforma.

Fermo restando che la mancata attivazione nei segnalati limiti temporali implica la perdita di efficacia degli atti investigativi compiuti dopo la decorrenza dei termini stabiliti dal giudice o dalla legge (massimi), si prevede che per i procedimenti “ordinari” quando ricorrono le situazioni previste all'art. 407, comma 2, lett. b) c.p.p., prima della scadenza del termine di tre mesi il P.M. possa formulare una richiesta (adeguatamente) motivata di proroga al procuratore generale presso la Corte d'appello. Questi – con decreto motivato – può o meno prorogare il termine per non più di tre mesi, dandone notizia al procuratore della repubblica.

Al fine di evitare che alla scadenza dei riferiti termini il procedimento continui a restare in stand-by, la legge impegna il procuratore della repubblica, che non abbia assunto una delle due determinazioni, a darne “immediata” comunicazione al procuratore generale presso la corte d'appello. Il rinvio al concetto d'immediatezza sembra palesare quello di una pronta comunicazione.

Benchè nulla venga detto nel caso in cui la domanda dell'inquirente non sia formulata entro i menzionati termini da ritenersi, tuttavia, in considerazione della ratio della normativa, perentori, è pacifico che quella concessa è una proroga per l'azione e non delle indagini.

Il dato volto a garantire una sollecita definizione del procedimento non è certamente nuovo. Corre, infatti, l'obbligo di sottolineare come esistano, invero, già alcune previsioni che configurano doversi di accelerazione per il pubblico ministero: così, neL comma 2-ter dell'art. 406 c.p.p., infatti, si prevede che la proroga delle indagini non può essere concessa per più di una volta quando si procede per i reati di cui agli artt. 572, 589, comma 2, 589-bis, 590, comma 3, 590 bis e 612-bis c.p. ed al comma 2-bis dell'art. 416 c.p.p. si stabilisce che qualora si proceda per i reati di cui all'art. 589, comma 2, e 589-bis c.p., la richiesta di rinvio a giudizio del p.m. deve essere depositata entro trenta giorni dalla chiusura delle indagini preliminari.

La disposizione si correla a quanto previsto dalla nuova formulazione dell'art. 412, comma 1, c.p.p. ove si prevede che il procuratore generale presso la Corte d'appello, a fronte dell'inerzia del P.M. ovvero se il P.M. non esercita l'archiviazione o l'azione entro il termine previsto dall'art. 407, comma 3-bis, c.p.p. dispone con decreto motivato l'avocazione (delle indagini preliminari).

Ancorché la previsione nel secondo periodo dello stesso primo comma dell'art. 412 c.p.p. preveda che il procuratore generale possa svolgere le indagini indispensabili e formuli le richieste entro trenta giorni dal decreto di avocazione, dovrebbe ritenersi che l'avocazione sia limitata all'alternativa di fronte alla quale si trovava il procuratore della repubblica. Una diversa esegesi vanificherebbe l'effetto della riforma.

Deve, altresì, ritenersi che resti fermo il termine dei trenta giorni per le determinazioni del procuratore generale. Nell'eventualità, invece, in cui il procuratore generale dovesse svolgere attività di indagini, si riaprirebbe il circuito delle attività che conducono alla chiusura delle indagini: art. 415 bis c.p.p. e forse il rispetto dei termini per l'esercizio dell'azione penale o l'archiviazione fissati dalla riforma.

La garanzia della durata ragionevole del procedimento passa, dunque, attraverso lo strumento dell'avocazione. D'altro canata all'individuazione di una diversa sanzione (si pensi alla possibile consumazione del potere d'azione) osta il principio d'obbligatorietà dell'azione penale (art. 112 cost). invero, che se in questi anni l'istituto dell'avocazione non pare sempre aver dato buona prova di sé, con la novella in esame essa viene sicuramente “rivitalizzata”.

Ora se é' chiaro che la ratio e la finalità sottesa alla previsione impegnerà la procura generale, a garantire il rispetto delle nuove disposizioni, non si è mancato di evidenziare l'a-sistematicità della scelta operata rispetto al sistema processuale che, tradizionalmente, identifica nel Gip l'organo di controllo (anche) sui tempi dell'esercizio (o meno) dell'azione penale.

Sotto tale profilo non s'ignora il fatto che lo strumento impiegato potrebbe avere diverse conseguenze critiche: innanzitutto comportare un aggravio di lavoro, sconfessando l'accellerazione, delle procure generali che contano su un numero di personale certamente inferiore a quello delle procure sottostanti, dall'altro vi è il rischio della possibile formulazione di imputazioni latenti, non sempre in linea con le previsioni di legge. Deve dirsi, tuttavia, che il rimedio non è il peggiore dei mali solo se si considera che quello che s'intende assicurare sono il rispetto del vincolo del controllo giudiziale sull'obbligatorietà (o meno) dell'azione penale e il rispetto dell'indagato a poter ottenere o un provvedimento d'archiviazione, senza dover sottostare sine die all'inchiesta penale di cui possa liberamente disporre il P.M. o un'imputazione sulla quale poter esercitare entro un tempo ragionevole, in conformità ai canoni del giusto processo (fondato anche sulla regola della concentrazione) il proprio diritto di difesa, ergo, al contraddittorio.

Critiche ed effetti

La previsione è già oggetto di forti critiche da parte della magistratura associata, soprattutto con riferimento ai poteri di avocazione della procura generale, per il timore di una reintroduzione della struttura verticale degli uffici di procura: non v'è dubbio, infatti,che l'effetto della novella è quella di operare un ulteriore rafforzamento della gerarchizzazione degli uffici del P.M.

Ad ogni buon conto, si ritiene che il termine di tre o sei mesi sia troppo stretto per le attività che sono necessarie per le determinazioni del P.M. e che gli uffici delle procure generali sarebbero inadeguati per mancanza di sostituti a definire la massa di procedimenti non definiti che potrebbe essere devoluti; che non ci sono le condizioni per incanalare tutti i processi alle fasi successive, soprattutto quella davanti al giudice monocratico. Invero, se alcune di queste argomentazioni sono certamente condivisibili, non può negarsi che anche questo passaggio richiede il massimo della trasparenza per il rischio - non giustificato – di differenziare gli imputati; d'altro canto, non si può trascurare il fatto che già nel corso delle indagini il P.M. può effettuare un vaglio sulla qualità e quantità degli elementi raccolti a consentirgli di determinarsi o meno ai sensi degli artt. 408 e ss. c.p.p., tanto più nel caso di avvenuto invio dell'atto previsto dall'art. 415-bis c.p.p.

Invero, anche sotto il profilo organizzativo deve rilevarsi che con il deposito ex art. 415-bis c.p.p. gli atti sono già stati depositati e ordinati completamente e che eventuali arricchimenti probatori o modifiche della descrizione del fatto richiederebbero un altro deposito. D'altro canto, si aggiunge, l'avviso già presuppone la formulazione di una pre-imputazione.

Anche in relazione ai processi di criminalità organizzata si sviluppano considerazioni analoghe, cui si aggiunge la grande mole del materiale. In questo caso, tuttavia, si prospetta anche la considerazione connessa all'esigenza di far pervenire a definizione le situazioni soggettive o oggettive legate ad altre posizioni ed ad altri fatti, pendenti in indagini, così da consentire un processo per tutti gli imputati dei fatti e per tutti i fatti attribuiti a quell'imputato o a tutti gli imputati.

Certamente la velocizzazione e (certezza) dei tempi processuali sottesa alla riforma uscirebbe rafforzata dall'attuazione della c.d. digitalizzazione ma i tempi per la sua attuazione non sembrano, purtroppo, brevi.

Una soluzione non vincolata

Per concludere deve rilevarsi che la soluzione prospettata dalla novella dell'estate del 2017 non appare l'unica ipotizzabile.

S'intende dire, in altri termini, che non dovrebbe essere impossibile, tenendo conto dei menzionati elementi, individuare possibili soluzioni di equilibrio capaci di rispondere alle diverse opinioni ed esigenze prospettate. Così si potrebbe ipotizzare un termine di tre-quattro mesi entro il quale il P.M. potrebbe determinarsi, scaduto il quale l'indagato potrebbe richiedere che la vicenda sia definita entro i successivi tre o quattro mesi. Difettando una determinazione della procura, sanzionata disciplinarmente, scatterebbe il potere avocativo del procuratore generale.

La possibilità di riconoscere in capo all'imputato il diritto alla definizione “celere” del procedimento trova, infatti, radicamento nella garanzia soggettiva sottesa all'intero impianto dei tempi processuali e, più in generale, alla loro durata ragionevole.

Peraltro, in un'ottica generale, quel diritto trova oggi, preciso fondamento nella c.d. legge Pinto, in quanto il riconoscimento del diritto alla riparazione per la durata irragionevole del processo è condizionato dall'iniziativa di parte che deve sollecitare la definizione del processo che lo riguarda.

Entrata in vigore della norma

La nuova disciplina si applica ai procedimenti nei quali le notizie di reato sono iscritte nel registro delle notizie di reato successivamente alla data di entrata in vigore della legge.

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