Breve vademecum sulle impugnazioni

Antonella Marandola
07 Novembre 2016

Le questioni legate alla disciplina delle impugnazioni si innestano su due premesse: teoricamente la sentenza pronunciata è una sentenza “giusta”; il processo – o meglio il suo svolgimento – con i gravami viene messo (per la prima volta) nella disponibilità delle parti. In altri termini, il procedimento dopo la prima sentenza (o decreto penale) di un giudice si può arrestare; tocca alle parti – variamente interessate – farlo o meno progredire. È evidente che il consentire alle parti di dar seguito al processo deve essere circondato da condizioni formali, sostanziali e temporali, considerando anche i contrapposti interessi delle parti tesi a conservare la decisione, per alcune di esse, ovvero a modificarla, per le altre.
Abstract

Le questioni legate alla disciplina delle impugnazioni si innestano su due premesse: teoricamente la sentenza pronunciata è una sentenza “giusta”; il processo – o meglio il suo svolgimento – con i gravami viene messo (per la prima volta) nella disponibilità delle parti. In altri termini, il procedimento dopo la prima sentenza (o decreto penale) di un giudice si può arrestare; tocca alle parti – variamente interessate – farlo o meno progredire.

È evidente che il consentire alle parti di dar seguito al processo deve essere circondato da condizioni formali, sostanziali e temporali, considerando anche i contrapposti interessi delle parti tesi a conservare la decisione, per alcune di esse, ovvero a modificarla, per le altre.

Di tutto ciò si occupa la disciplina generale delle impugnazioni (artt. 568-592 c.p.p.), salvo poi rimandare, per profili specifici, alle norme relative ai singoli mezzi: artt. 593c.p.p. (appello); artt. 606 c.p.p. (cassazione); artt. 629 c.p.p. (revisione), solo per parlare dei mezzi più significativi e rilevanti.

Così nella disciplina generale, sono affrontati il tema della legittimazione soggettiva e oggettiva, il tema degli effetti (si pensi alla devoluzione e alla cognizione), il tema dei tempi, il tema dei modi di presentazione, nonché la forma dell'atto (art. 581 c.p.p.). A tutti questi elementi si associa la disciplina della conseguenza del mancato rispetto delle prescrizioni (artt. 591-592 c.p.p.).

Il “nucleo” formale dell'atto

Sotto il profilo formale l'atto di impugnazione va proposto con atto scritto e in lingua italiana.

Correlandosi alla decisione strutturata in dispositivo e motivazione, esso si articola in una dichiarazione, che esprime la volontà di impugnare, e nei motivi e richieste, che evidenziano le ragioni dell'atto. Mentre nel codice del 1930 i due atti erano anche temporalmente distinti, nel nuovo codice il termine per il loro compimento è unico. Il dato non esclude – sul piano applicativo – una trasmissione anche divisa, purché effettuata in termini. Con la riforma del 1988, è stata collegata, poi, l'attribuzione al solo giudice ad quem del potere di dichiarare l'inammissibilità dell'impugnazione, prima consentito anche al giudice che aveva emesso il provvedimento, con esclusione della mancanza di interesse all'impugnazione.

L'atto oltre all'indicazione del giudice che ha emesso il provvedimento (rilevante per la competenza), la data (ai fini anche del computo temporale), il tipo di provvedimento impugnato (legittimazione), comunque necessari ai fini d'una sua precisa individuazione e per gli adempimenti burocratici legati al passaggio da un ufficio giudiziario ad un altro, deve contenere alcuni elementi più strettamente contenutistici idonei ad esprimere le ragioni dell'iniziativa e la finalità che si intende perseguire.

La sanzione per la violazione o la mancanza di questi requisiti dell'atto è contenuta, assieme alle altre previsioni, ad alcune delle quali si è già fatto cenno, nell'art. 591 c.p.p., in particolare al comma 1 lett. c) c.p.p. si stabilisce che il gravame è inammissibile in caso di mancato rispetto di quanto previsto dagli artt. 581, 582, 583, 585 e 586 c.p.p.

Va sottolineato come tale declaratoria abbia significativi risvolti processuali: impedirà l'applicazione dell'art. 129 c.p.p. e più in generale dei poteri esercitabili d'ufficio; se l'ordinanza di inammissibilità non è impugnata (o è rigettato il ricorso contro di essa) la sentenza diventa esecutiva; interdirà la possibilità di proporre, anche a fini di sanatoria, motivi nuovi; non consentirà la conversione del ricorso ex art. 580 c.p.p. in caso di ricorso proposto da altro soggetto o nei confronti di un altro capo della sentenza; non precluderà, invece, al soggetto il diritto di essere citato nel giudizio ricorrendone le condizioni (arg. ex art. 601 c.p.p.) e di avvalersi dell'effetto estensivo (art. 587 c.p.p.).

Il primo elemento che deve essere indicato, deducendolo dal dispositivo, riguarda il "capo" oggetto del gravame. Si ritiene, peraltro, con orientamento risalente che la mancata indicazione del capo non sia motivo di inammissibilità se dall'atto di impugnazione è possibile dedurre a quale di essi l'impugnante abbia inteso fare riferimento.

Anche se della nozione di capo – come, peraltro, di quella di punto – manca una definizione normativa, è opinione largamente condivisa che per capo debba intendersi un atto giuridico completo, tale da poter costituire da solo, o anche separatamente, il contenuto di una sentenza: è la decisione che conclude una fase o un grado del processo può, dunque, assumere struttura monolitìca o composita, a seconda che l'imputato sia stato chiamato a rispondere di un solo reato o di più reati; così, nel primo caso, nel processo è dedotta un'unica regiudicanda mentre, nel secondo, la regiudìcanda è scomponibile in tante autonome parti quanti sono i reati per i quali è stata esercitata l'azione penale (per tutte, Cass. pen., Sez. unite, 17 ottobre 2006, n., 10251, Michaeler).

Nell'eventualità di una sentenza contenente più capi, la mancata impugnazione di uno di essi determinerà l'irrevocabilità della decisione che lo riguardi. Per capo deve intendersi, altresì, non potendosi considerare un punto di un capo, anche la statuizione sulle questioni civili, stante il loro stretto legame con il reato.

L'elemento successivo da indicare riguarda il "punto", che ha una portata più ristretta, in quanto riguarda tutte le statuizioni suscettibili di autonoma considerazione necessarie per ottenere una decisione completa su un capo, tenendo presente, però, che non costituiscono punti del provvedimento impugnato le argomentazioni svolte a sostegno di ciascuna statuizione: se ciascun capo è concretato da ogni singolo reato oggetto di imputazione, i punti della decisione, ai quali fa espresso riferimento l'art. 597, comma 1, c.p.p. coincidono con le parti della sentenza relative alle statuizioni indispensabili per il giudizio su ciascun reato; in primo luogo, l'accertamento della responsabilità e la determinazione della pena, che rappresentano, in tal senso, due distinti punti della sentenza.

Al riguardo, in dottrina, si confrontano varie opinioni relativamente a quali e quanti possano essere i punti di una sentenza.

Evitando eccessive frammentazioni, seguendo l'orientamento della più accreditata dottrina, si può ritenere che si tratti dei temi della singola decisione: ad esempio, fatto, nomen delicti, elemento psichico, scriminanti, circostanze; ogni punto include varie possibili questioni (CORDERO).

Il punto, nell'appello è individuato dal motivo, come emerge dal comma 1 dell'art. 597 c.p.p.

Questo dato evidenzia la differenza tra il giudizio di appello e quello di cassazione ove il giudizio è definito dai motivi (art. 606 c.p.p.)

Questo elemento, tuttavia, pur innestato dalla differenza tra la tassatività dei motivi di cassazione (art. 606 c.p.p.) e la indeterminatezza di quelli d'appello – secondo una parte minoritaria della giurisprudenza – a differenziare i due mezzi di gravame in relazione alla specificità dei motivi ed alla sanzione di inammissibilità. Invero, la specificità è riferita alle ragioni in fatto e in diritto che sorreggono le richieste dell'impugnante. Deve, invece, riconoscersi, come anticipato, il diverso atteggiarsi dei motivi nell'appello e nel ricorso per cassazione.

I motivi costituiscono gli elementi che per un verso permettono di riconoscere l'interesse ad impugnare, per un altro, permettono al giudice di comprendere l'oggetto (secondo la diversità del rito) devoluto al suo controllo.

Sotto il primo aspetto, confrontando la decisione impugnata e quella che il soggetto si ripromette di ottenere dal gravame, il giudice è in grado di valutare se il mezzo è stato attivato utilmente, cioè per un interesse giuridicamente apprezzabile riconosciuto dall'ordinamento.

Sotto il secondo profilo, motivi e richieste definiscono l'ambito entro il quale il giudice potrà esercitare i suoi poteri di cognizione e di decisione, secondo le indicazioni fissate dal Legislatore per ogni mezzo di gravame.

Naturalmente, una espressa previsione legislativa, come nei casi di cui agli artt. 34, 129, 191 c.p.p., consentirà al giudice di superare – ricorrendone le condizioni – il vincolo dei punti, toccata dai motivi. In taluni casi il riconoscimento di alcuni specifici poteri d'ufficio è condizionato dalla devoluzione del punto della decisione ovvero dagli sviluppi di una questione collegata.

La “specificità” delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto.

Quanto alla specificità richiesta dalla legge (art. 581, lett. c) c.p.p.), con riferimento ai dati fattuali, si afferma che l'indicazione specifica implica ontologicamente un confronto critico con il tenore delle considerazioni svolte nel provvedimento impugnato. Per quanto attiene alle questioni di diritto, è necessario che si prospetti un diverso inquadramento giuridico degli elementi sostanziali o processuali rappresentati nel provvedimento impugnato rispetto a quanto fatto dal giudice a quo.

In termini generali, il concetto di "specificità" costituisce sicuramente un dato di cui è facile individuare la soglia elevata sempre arricchibile, dettagliabile, puntualizzabile; più difficile è, invece, determinare quella sufficiente a superare il vaglio di ammissibilità. Il giudizio di ammissibilità dovrebbe ritenersi superato ogniqualvolta, ancorché in termini sintetici o ancorché essenziali, si sia messo il giudice nelle condizioni di comprendere il significato delle critiche e delle richieste, il che non si verifica a fronte di argomentazioni astratte, generiche, suscettibili di prospettare alternative o questioni valevoli per una pluralità di situazioni processuali.

Al di là della valorizzazione operata ultimamente dalla giurisprudenza della "qualità" che deve possedere, a pena d'inammissibilità, l'atto d'impugnazione, si evidenzia che, in ragione degli antitetici indirizzi assunti dalla Cassazione, il primo Presidente della Cassazione, segnalando la necessità di porre termine alla situazione di incertezza interpretativa e di grave disorientamento delle corti di merito e degli operatori del settore penale, ha rimesso alle Sezioni unite la questione di diritto su quali siano, ai fini dell'ammissibilità dell'atto d'appello, i requisiti di specificità dei relativi motivi. Il Collegio si è di recente (27 ottobre 2016) pronunciato affermando che l'appello (al pari del ricorso per cassazione) è inammissibile per difetto di specificità dei motivi quando non risultano esplicitamente enunciati e argomentati i rilievi critici rispetto alle ragioni di fatto o di diritto poste a fondamento della sentenza impugnata.

I menzionati dati, tuttavia, non possono valere per escludere la riproponibilità negli stessi termini della questione già sollevata. Dovrebbe, anzi, dirsi che prospettata una questione nel grado precedente e non accolta, questa deve essere riproposta se si vuole che su di essa si pronunci il giudice di seconda istanza.

Quanto premesso non vale ad escludere, quanto meno per l'appello – in cassazione opera una regola diversa (arg. ex art. 606, comma 3, c.p.p.) – la possibilità di proporre questioni nuove indotte dal contenuto della decisione.

Altra questione connessa alla "specificità" del motivo è legata alla possibilità che la devoluzione di una questione possa implicare anche – come potere del giudice – quella di definire la questione in essa ricompresa, nel caso del mancato accoglimento di quella assorbente. Al riguardo la giurisprudenza si esprime negativamente, suscitando tuttavia non poche perplessità. Innanzitutto, non solo nel giudizio d'appello l'effetto devolutivo devolve la competenza sui punti cui si riferiscono i motivi, con la conseguenza che il giudizio sulla responsabilità assume l'effetto pienamente devolutivo. Significativi elementi indizianti si possono ricavare, sul punto, da una lettura "in filigrana" della disciplina del divieto della reformatio in peius. Inoltre, andrebbe considerato che nel giudizio di cassazione una eventuale derubricazione del fatto impone al supremo Collegio, a prescindere da una richiesta, di rimettere il procedimento in sede di rinvio per la quantificazione della pena.

Nell'eventualità in cui si deducano nullità o inutilizzabilità, dovranno essere indicati gli atti invalidi e le ragioni che ne costituiscono i presupposti, mentre è dubitabile che sia necessario indicare anche al giudice competente un caso di dedotta incompetenza territoriale (che dovrà essere motivata)

Il mancato rispetto di queste indicazioni (art. 581 c.p.p.) al pari delle altre di cui all'art. 591 c.p.p., determina l'inammissibilità dell'impugnazione che potrà essere dichiarata anche d'ufficio dal giudice dell'impugnazione, con esecuzione del provvedimento.

Il provvedimento è notificato a chi ha proposto l'impugnazione ed è suscettibile di ricorso per cassazione. Se l'imputato ha proposto personalmente il gravame l'ordinanza sarà notificata anche al difensore. Il ricorso – per regola generale (art. 588 c.p.p.) – ha effetto sospensivo. Ciò non consente, nonostante qualche opinione contraria impostata nell'art. 648 c.p.p., di ritenere applicabile, in pendenza della decisione della Cassazione, l'art. 129 c.p.p. : trattasi, infatti, di una decisione ricognitiva e non costitutiva dell'irrevocabilità della sentenza.

Il vizio connesso alla mancanza dei requisiti dell'atto, non rilevato, può essere riconosciuto in ogni stato e grado del procedimento. Tra le conseguenze della declaratoria di inammissibilità va ricompresa anche quella della condanna alle spese del procedimento (art. 592, comma 1, c.p.p.) e nel caso del ricorso per cassazione anche al pagamento a favore della cassa delle ammende (art. 616 c.p.p.).

In conclusione

La materia qui considerata appare destinata ad alcune significative modifiche in caso di approvazione del d.d.l. presentato dal Ministro della Giustizia ed attualmente in corso di discussione nelle Aule parlamentari.

Ristrutturata la sentenza attraverso una sua articolazione maggiormente scandita, con l'individuazione dei punti relativi alle varie questioni decise (imputazione, qualificazione giuridica, prove, pena, situazioni processuali) (art. 546 c.p.p.) ad essa – con previsione espressa di inammissibilità – si ricollega l'onere per le parti di individuare i capi e punti delle sentenze, di produrre motivi con le ragioni in fatto e in diritto a sostegno delle richieste, di avanzare – appunto – le richieste, e di formulare istanze anche istruttorie (art. 581 c.p.p.).

La sanzione di inammissibilità trova ulteriore conferma nella già citata lett. a) del 1 comma dell'art. 591 c.p.p.

La relativa declaratoria, in relazione al ricorso in Cassazione, qualora attenga soltanto al mancato rispetto di profili meramente formali (difetto di legittimazione, soggettiva e oggettiva, rinuncia, modalità di presentazione, termine) sarà dichiarata de plano dal Supremo Collegio, con possibilità – per le parti – di avanzare un ricorso straordinario ex art. 625-bis c.p.p.

La prospettata riforma della (eliminazione) legittimazione dell'imputato a ricorrere in cassazione, renderà inutile quanto previsto al secondo periodo del comma 3 dell'art. 591 c.p.p.

Sempre in caso di varo della riforma, in caso di inammissibilità del ricorso è previsto l'aumento dell'attuale entità della condanna al pagamento a favore della Cassa delle ammende (art. 616 c.p.p.) (si veda SPANGHER)

Guida all'approfondimento

CORDERO, Procedura penale, 8° ed., Milano, 2006, 1119;
SPANGHER, Le impugnazioni nel disegno di legge Orlando.

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