La responsabilità penale omissiva degli amministratori privi di delega

08 Marzo 2016

Una delle problematiche più discusse del diritto penale societario è quella relativa alla responsabilità concorsuale omissiva degli amministratori deleganti per i reati commessi dagli amministratori delegati. Tale forma di partecipazione al reato presenta, difatti, non poche criticità.
Abstract

Una delle problematiche più discusse del diritto penale societario è quella relativa alla responsabilità concorsuale omissiva degli amministratori deleganti per i reati commessi dagli amministratori delegati. Tale forma di partecipazione al reato presenta, difatti, non poche criticità, sotto diversi profili, quali l'individuazione degli obblighi di controllo del soggetto garante, l'esistenza di poteri impeditivi efficaci, l'accertamento del nesso causale, la prova dell'elemento soggettivo del reato.

Il presente contributo si prefigge, pertanto, l'obiettivo di fornire un sintetico ma esaustivo quadro della materia, ripercorrendo l'evoluzione normativa e giurisprudenziale.

Premessa

Se in relazione all'ipotesi di responsabilità per concorso attivo degli amministratori privi di delega non sorgono particolari questioni, poiché valgono le regole ordinarie della responsabilità dolosa commissiva (nella specie le norme dettate in materia di concorso eventuale di persone nel reato), la diversa figura del concorso omissivo improprio (o commissivo mediante omissione) caratterizzata dall'inerzia dell'amministratore e non da un suo contributo attivo e diretto alla realizzazione del reato, pone il problema di verificare a quali condizioni tale condotta omissiva possa ritenersi penalmente rilevante.

A tal fine, occorre preliminarmente individuare lo statuto della loro posizione di garanzia, chiarendone portata e confini.

Dal momento che l'effetto tipico dell'art. 40 cpv. c.p. – ai sensi del quale l'omissione equivale all'azione soltanto se sia stata condicio sine qua non dell'accadimento non impedito ed in presenza di un obbligo giuridico di impedire l'evento – è quello di creare fattispecie penali non espressamente previste, il primo problema che sorge è quello di individuare gli obblighi giuridici, la cui violazione consente l'affermazione della responsabilità penale.

Per rispondere a tale interrogativo, occorre, anzitutto, tener presente che una prescrizione rilevante in ambito civilistico non trova necessariamente un corrispettivo aggancio normativo sul versante penalistico; mentre, infatti, ai sensi dell'art. 2392, comma 2, c.c. una responsabilità civile dell'amministratore può derivare, una volta assunto l'atto pregiudizievole, anche a seguito di una mancata eliminazione o di un'omessa attenuazione delle sue conseguenze dannose, ciò non varrà a costituire una fonte di responsabilità penale, poiché la citata norma di cui all'art. 40 cpv. c.p. stabilisce che soltanto il mancato impedimento dell'evento potrà fungere da base per l'eventuale ascrizione di responsabilità a titolo di concorso omissivo in un fatto criminoso.

Altro aspetto cruciale è rappresentato dalla verifica in ordine alla corrispondenza tra i doveri e i poteri d'impedimento: si tratta della regola formulata dalla letteratura penalistica (e spesso trascurata dalla giurisprudenza) per consentire una esatta determinazione dello status di garante. Difatti, il solo concreto potere corrispondente al dovere di controllo delineato in astratto e soprattutto la possibilità di esercitarlo nel concreto, saranno in grado di attuare le prescrizioni contenute nelle norme di riferimento. Ciò vale, peraltro, ad evitare possibili commistioni tra il piano della colpa e quello della sussistenza dell'obbligo di impedimento che condurrebbero inevitabilmente ad una dilatazione eccessiva della responsabilità.

A tale passaggio dovrà conseguentemente seguire l'accertamento dell'elemento soggettivo (nella stragrande maggioranza dei casi si tratta del dolo) del relativo reato addebitato al soggetto in questione, in mancanza del quale residuerà solo una responsabilità civile, sempre che gli si possa muovere un rimprovero di negligenza.

Infine, merita fare un cenno ai risvolti penalistici derivanti dalla delega di attribuzioni che, in sede di consiglio di amministrazione, incontra alcuni limiti legislativamente predeterminati.

Va, infatti, precisato che la delega di attribuzioni non rappresenta un trasferimento della titolarità degli obblighi penalmente sanzionati, permanendo pur sempre una posizione di garanzia, seppure a contenuto mutato, in capo agli amministratori che trasferiscono parte delle loro attribuzioni gestorie alla competenza autonoma (ancorché non esclusiva) di taluno dei componenti del collegio. Ciononostante, è innegabile come tale istituto sia in grado di influenzare il comportamento doveroso.

Vedremo, di seguito, come l'eliminazione per gli amministratori dell'obbligo di generale vigilanza presente nella previgente versione dell'art. 2392 c.c. e la sua sostituzione con degli obblighi più stringenti abbia di fatto ridimenzionato i termini del problema, perlomeno sotto il profilo dell'inquadramento del comportamento doveroso.

Nel vigore della previgente normativa civilistica, dottrina e giurisprudenza prevalenti erano soliti rinvenire nel dettato normativo dell'art. 2392 c.c. quell'obbligo giuridico di garanzia, quale presupposto per l'operatività dell'art. 40, comma 2, c.p. Dalla sussistenza di un ampio e indefinito dovere di vigilanza sul generale andamento della gestione in capo a tutti gli amministratori societari scaturiva, dunque, l'ipotesi di una responsabilità concorsuale omissiva dell'amministratore delegante, il quale con la propria colpevole omissione (consistente anche solo nella mancata vigilanza) avesse consentito all'amministratore delegato di compiere reati societari. In particolare, sul presupposto che anche gli interessi tutelati dalle norme penali societarie e fallimentari rientrassero tra quelli affidati alle cure degli amministratori, si riteneva configurabile il concorso ex art. 40 cpv. c.p., doloso o colposo a seconda dell'atteggiamento psicologico in concreto ravvisabile e penalmente rilevante, tutte le volte in cui l'amministratore di una società, violando l'obbligo di vigilanza e quello di attivarsi in presenza di atti pregiudizievoli, avesse di fatto consentito ad altri amministratori o a chiunque avesse compiuto atti di gestione, di perpetrare delitti (cfr. ex multis: Cass. pen., Sez. V, 24 maggio 2006, n. 36764).

Con la riforma del diritto societario attuata con il d.lgs. 6 del 17 gennaio 2003, si assiste ad un cambiamento di rotta, favorito sostanzialmente da una nuova disciplina in tema di obblighi degli amministratori non operativi.

La riforma societaria del 2003 e la “rinnovata” posizione di garanzia degli amministratori non esecutivi

Per quanto più rileva ai fini del nostro discorso, tra le novità apportate dal d.lgs. 6 del 17 gennaio 2003, vanno annoverate, da un lato, le modifiche sulle disposizioni inerenti il ruolo del consiglio di amministrazione e il rapporto dello stesso con gli amministratori, dall'altro, la parziale riscrittura dell'art. 2392 c.c.

Sotto il primo profilo, il nuovo art. 2381 c.c. indica i poteri-doveri sia degli organi delegati, sia di quelli deleganti, con conseguente distinzione sul piano delle rispettive responsabilità.

I primi, oltre ad esaminare la società nei limiti della delega ricevuta, ai fini di un'organizzazione efficiente dell'impresa, devono:

a) curare che l'assetto organizzativo, amministrativo e contabile sia adeguato alla natura e alle dimensioni dell'impresa;

b) riferire al consiglio di amministrazione e al collegio sindacale (…) sul generale andamento della gestione e sulla sua prevedibile evoluzione, nonché sulle operazioni di maggior rilievo, per le loro dimensioni o caratteristiche, effettuate dalla società e dalle sue controllate.

Viceversa, i deleganti – che oltre a conferire la delega stabilendone i limiti e a deliberare sia sulle attribuzioni non delegabili, sia sugli altri soggetti che, seppur rientranti nella delega, siano dallo statuto o dagli organi delegati fatti deliberare dal consiglio, e oltre a poter sempre impartire direttive ai delegati, nonché avocare a sé operazioni rientranti nella delega – devono:

a) valutare l'adeguatezza dell'assetto organizzativo, amministrativo e contabile della società sulla base delle informazioni ricevute dagli organi delegati, con il potere-dovere di chieder informazioni ai delegati;

b) esaminare i piani strategici, industriali e finanziari della società;

c) agire in modo informato e hanno il potere di chiedere agli organi delegati che in consiglio siano fornite informazioni relative alla gestione della società.

Dal quadro appena delineato emergono, rispetto al sistema previgente, due dati importanti: il primo riguarda la dettagliata elencazione dei nuovi obblighi dei consiglieri non esecutivi, il secondo è rappresentato dall'obbligo di agire in modo informato di cui all'art. 2381, comma 3, c.c., a cui peraltro fa rinvio l'art. 2392, comma 2, c.c. in tema di responsabilità verso la società. A ciò ha corrisposto l'eliminazione di ogni riferimento al generico dovere di vigilanza soppiantato dal citato onere di agire in modo informato, da un lato, e la rimodulazione del grado di diligenza richiesto in linea generale agli amministratori, calibrandolo sulla natura dell'incarico e sulle specifiche competenze, dall'altro.

A questo punto, occorre sgombrare il campo da qualsiasi equivoco: la riforma del 2003 ha mantenuto ferma la posizione di garanzia degli amministratori non esecutivi, come dimostra il fatto che la formulazione della norma che fonda l'obbligo giuridico di impedire l'evento ai sensi dell'art. 40 cpv.c.p. è rimasta invariata (secondo il disposto di cui al secondo comma dell'art. 2392 c.c., in ogni caso gli amministratori sono solidalmente responsabili se, essendo a conoscenza di fatti pregiudizievoli, non hanno fatto quanto potevano per impedirne il compimento o eliminarne le conseguenze dannose).

La novella legislativa ha, tuttavia, determinato un effetto attenuativo, laddove una responsabilità per omesso impedimento dei soggetti in parola può essere configurata solo in quei casi in cui il singolo amministratore non si sia attivato, pur conoscendo il carattere pregiudizievole dell'atto a seguito delle relazioni degli organi delegati o di altri evidenti segnali dall'allarme. Con la conseguenza che oggi è diventato più agevole, perlomeno sul versante oggettivo, individuare un'effettiva responsabilità del membro non operativo del C.d.A., atteso che potrà farsi discendere dall'inadempimento di specifiche obbligazioni, ben individuabili all'interno del contesto in cui opera.

L'evoluzione giurisprudenziale sulla prova del dolo e la rilevanza dei c.d. “segnali d'allarme”

L'approccio della giurisprudenza al tema in esame è sempre stato piuttosto rigido.

La prassi adottata dalla giurisprudenza ante riforma, infatti, individua nel semplice binomio costituito dalla violazione del dovere di vigilanza e dalla mancata attivazione dei poteri impeditivi, i sintomi di una consapevole adesione – da parte degli altri membri del C.d.A.– al proposito criminoso degli amministratori esecutivi, (quantomeno in termini di dolo eventuale), dovendo ogni colpevole inerzia essere interpretata quale indice dell'accettazione del rischio, da parte del consigliere delegante, di verificazione di un fatto illecito (in tal senso, cfr. Cass. pen., Sez. V, 27 maggio 1996, in Riv. trim. dir. pen. econ, 1996, p. 1394).

Una soluzione esegetica più matura, inaugurata dapprima dalla giurisprudenza di merito e successivamente mutuata dalla Cassazione, fonda il giudizio di responsabilità degli amministratori non operativi sulla teoria dei c.d. segnali di allarme (cfr. trib. Milano, Sez. II, 24 novembre 1999, in Giur. it., II, p. 2638). Secondo tale orientamento, il coefficiente soggettivo minimo richiesto per ascrivere una responsabilità concorsuale omissiva può essere individuato attraverso la dimostrazione dell'avvenuta rappresentazione, da parte del singolo amministratore, di una serie di indici rivelatori che, secondo le massime di comune esperienza e il grado di diligenza imposto al consigliere nell'adempimento dell'incarico, avrebbero dovuto indurre quest'ultimo ad attivarsi per accertare e impedire, attraverso i poteri che gli sono propri, la realizzazione delle condotte illecite.

Ma la dottrina sottopone a dura critica tale tendenza della magistratura di presumere indiscriminatamente in capo a tutti i componenti dell'organo collegiale la conoscenza di "segnali di allarme” di possibili fatti criminosi, e quindi l'esistenza di un dolo eventuale dei singoli amministratori.

In particolare, viene evidenziato che il ritenere sufficiente, ai fini della prova del dolo dell'amministratore non operativo, la volontarietà dell'inadempimento dei doveri di controllo - considerata tout court come accettazione del rischio di qualsivoglia sviluppo negativo della gestione d'impresa – significa desumere la dimostrazione dell'elemento soggettivo dal semplice inadempimento dell'amministratore, dando origine ad una sorta di dolo di posizione, sussumibile nella formula del non poteva non sapere. Pertanto, non è possibile imputare sotto lo scudo del dolo eventuale tanto il semplice difetto di conoscenza e di informazione, quanto l'inosservanza del dovere di controllo.

Nel solco di tali condivisibili moniti, s'inserisce la sentenza n. 23838 del 4 maggio 2007 sul noto caso Bipop Carire, con la quale la Cassazione interviene per la prima volta sul tema della responsabilità penale degli amministratori deleganti per i fatti dei delegati alla luce della riforma societaria del 2003.

Ai fini della prova del dolo di concorso occorre, osservano i giudici, dimostrare la conoscenza, e non la mera conoscibilità del comportamento illecito in itinere, e tale prova deve essere raggiunta verificando se i segnali d'allarme siano stati effettivamente “percepiti” dal singolo amministratore privo di delega, rimanendo la loro astratta percepibilità confinata nel perimetro della colpa.

Di conseguenza, la rilevanza dei “segnali d'allarme”, quali indici idonei a rivelare l'esistenza di un illecito, va circoscritta solamente a quelli dotati di specifiche caratteristiche, per cui, per affermare la penale responsabilità dell'amministratore non esecutivo, occorre dimostrare che lo stesso abbia effettivamente percepito segnali perspicui e peculiari in relazione all'evento illecito (vale a dire, circostanze chiare ed univoche del fatto di reato), nonché un apprezzabile grado di anomalia dei segnali rispetto al contesto operativo in cui essi si sono manifestati.

Pur ammettendo la possibilità di ricorrere al dolo eventuale anche in ambito omissivo, la giurisprudenza di legittimità precisa che sarà contestabile la partecipazione concorsuale al fatto criminoso degli esecutivi solo a quei deleganti che “consapevolmente” si siano sottratti nell'esercitare i poteri-doveri di controllo attribuiti dalla legge, accettando il rischio, presente nella loro rappresentazione, di eventi illeciti discendenti dall'inerzia.

Pertanto, nemmeno nella dilatazione ammessa da tale forma eventuale di dolo (nella quale è solo il momento volitivo ad essere depotenziato), la rappresentazione può prescindere: a) da una visuale concreta sufficientemente lucida del fatto storico congruente con la fattispecie di reato; b) dalla consapevolezza dell'incombente minaccia per l'interesse affidato al garante; e, infine, c) dalla coscienza di una concreta possibilità di ricorre a poteri di intervento realmente impeditivi.

Tale orientamento, nonostante sia stato disatteso da alcune successive pronunce di legittimità (cfr. Cass. pen., Sez. V, 22 novembre 2010, n. 41136; Cass. pen., Sez, V, 27 gennaio 2011, n. 7088), è diventato pressoché dominante (tra le tante, cfr.: Cass. pen., Sez. V, 9 dicembre 2008, n. 45513; Cass. pen., Sez. V, 28 aprile 2009, n. 21581; Cass. pen., Sez. V, 16 aprile 2009, n. 36595; Cass. pen., Sez, V, 30 gennaio 2012, n. 3708; Cass. pen., Sez. V, 5 ottobre 2012, n. 23000).

Nel segno di un maggior garantismo, la giurisprudenza successiva alla sentenza Bipop Carire ha, peraltro, specificato che se i “segnali d'allarme” possono essere validi strumenti, laddove perspicui e peculiari, per dimostrare la rappresentazione del fatto illecito da parte del concorrente nel reato, gli stessi non sono invece sufficienti per la prova dell'elemento volitivo. Per la dimostrazione di tale componente del dolo occorre, in particolare, tenere in considerazione quel complesso di circostanze, manifestatesi nel corso dell'attività gestoria, che siano in grado di fornire l'indice inequivocabile della scelta di aderire alla condotta lesiva posta in essere da altri (in tal senso, cfr. Cass. pen., Sez. V, 8 giugno 2012, n. 42519).

Di conseguenza, nell'ambito del giudizio di rilevanza penale dell'inerzia del consigliere senza deleghe possono assumere rilievo elementi come:

a) la fiducia riposta dai consiglieri non esecutivi negli amministratori delegati e nel loro operato, fondata su oggettivi indici di affidabilità, esperienza, preparazione e autorevolezza; secondo i giudici di legittimità, infatti, un conto è che l'amministratore privo di delega rimanga indifferente dinanzi ad un segnale d'allarme percepito come tale, in quanto decida di non tenere in considerazione alcuna l'interesse dei creditori o il destino stesso della società, ben altra cosa è che egli continui a riconoscere fiducia, per quanto mal riposta, verso le capacità gestionali altrui;

b) l'esistenza di un eventuale pregiudizio derivante all'amministratore privo di deleghe dalla condotta illecita posta in essere dal delegato;

c) l'esistenza di condotte artificiose o comunque fraudolente poste in essere dagli esecutivi, volte a schermare i segnali di allarme o le informazioni e i fatti anche solo potenzialmente sintomatici di un'attività criminosa in fieri.

Da ultimo, merita segnalare la recente sentenza della Corte di cassazione che ha definito uno dei filoni processuali inerenti il crac Parmalat (cfr. Cass. pen., Sez. V. 22 luglio 2014, n. 32352), la cui parte motiva in tema di responsabilità degli amministratori non esecutivi (e dei sindaci) sembra offrire una sorta di rivisitazione dei principi esaminati sotto il profilo dell'elemento soggettivo del reato.

Dopo aver individuato la posizione di garanzia gravante sui singoli amministratori alla luce dell'evoluzione l'evoluzione normativa della disciplina civilistica e ribadito la necessità di distinguere la conoscenza dalla conoscibilità degli indici rappresentativi, i giudici di legittimità sembrano proporre un'ulteriore elaborazione della teoria dei segnali d'allarme, precisando come quest'ultimi, per come tratteggiati nella citata sentenza n. 23838 del 2007 (vale a dire perspicui e peculiari), debbano letteralmente tradursi in indizi gravi, precisi e concordanti della conoscenza da parte dell'amministratore non esecutivo della probabile realizzazione di eventi pregiudizievoli che impongono sia l'attivazione delle necessarie e non predeterminate fonti conoscitive richieste dall'ordinamento … sia l'adozione di tutte le iniziative, rientranti nelle attribuzioni degli stessi, volte ad impedire gli eventi medesimi, in ciò concretandosi l'obbligo di agire informati.

Ciò premesso, al fine di discernere il concorso doloso dalla semplice inerzia colpevole dell'amministratore non esecutivo, per la suprema Corte (che richiama sul punto: Cass. pen., Sez. V, 3 ottobre 2007, n. 43101) occorre, questa volta, fare riferimento alla distinzione tra quei segnali d'allarme che consentono una rappresentazione della possibilità dell'evento, da quelli che invece prefigurano la probabilità dell'evento stesso.

In particolare, non potendo l'elemento soggettivo che essere desunto da elementi obiettivi rivelatori dell'atteggiamento psicologico dell'agente (ossia, per usare l'espressione di Sez. 5, n. 3708 del 30/11/2011 – dep. 30/01/2012, Ballatori e altri, Rv. 252945, non essendo possibile entrare “nella testa degli amministratori”) è dalla conoscenza dei segnali di allarme (...) che può desumersi la prova della ricorrenza della rappresentazione dell'evento da parte di chi è tenuto (...) ad un particolare devoir d'alerte. Tale dimostrazione – si aggiunge – non può non prescindere dal bagaglio di esperienza e cognizione professionale proprio del singolo amministratore garante, la cui valutazione, in rapporto al sintomo allarmante, deve esplicarsi in concreto, caso per caso.

Orbene, il ragionamento della Corte a noi appare criticabile per due ragioni.

La prima riguarda la criticità del metodo di selezione dei segnali d'allarme, trattandosi di un criterio distintivo (possibilità/probabilità dell'evento dannoso) decisamente più ambiguo rispetto a quelli in precedenza formulati.

La seconda deriva dall'affermazione secondo cui, posto che gli indici di allarme rappresentano i sintomi eloquenti del fatto in itinere, ai fini dell'affermazione della responsabilità penale della loro relativa consapevolezza soltanto (e non dell'accadimento nella sua compiuta fisionomia) deve darsi pieno riscontro in capo all'imputato, preposto alla posizione di garanzia, ma la dimostrata percezione di questi sintomi di pericolo concreta adeguato riscontro alla penale responsabilità, salvo che sia fornita convincente e legittima giustificazione sulle ragioni che hanno indotto il soggetto all'inerzia.

Con ciò la Cassazione disattende la dimostrazione del momento volitivo, ovvero della consapevole partecipazione all'illecito altrui, segnando un passo indietro rispetto al maggior garantismo delle precedenti pronunce.

Il problematico accertamento del nesso causale nella “causalità omissiva”

Un ulteriore dato allarmante è rappresentato dal fatto che la giurisprudenza, di fatto, omette di indagare sui poteri impeditivi effettivamente assegnati dalla riforma ai singoli consiglieri deleganti. Come detto in precedenza, si tratta di un accertamento essenziale rispetto all'affermazione di penale responsabilità, atteso che lo spettro delle facoltà spettanti al garante individua e circoscrive la sfera dell'obbligo giuridico di impedire il fatto di reato.

Viceversa, alcune considerazioni importanti sull'argomento sono state effettuate da diversi esperti della materia nel vigore della precedente disciplina civilistica, che possono riassumersi nel modo seguente:

a) nessuna deroga può ammettersi alla collegialità, per cui, in via generale, solo il collegio ha la possibilità di intervenire con strumenti realmente impeditivi;

b) è innegabile che gli amministratori, uti singuli, abbiano a diposizione alcuni strumenti efficaci (purché vi sia sempre un pregiudizio per la società) come: la segnalazione al pubblico ministero perché, in casi di gravi irregolarità, attivi il procedimento previsto dall'art. 2409 c.c.; l'impugnazione della delibera consiliare (che però rimane inefficace quando il reato si è già perfezionato con l'assunzione della medesima); nel caso di società soggette a forme di vigilanza pubblicistica, la segnalazione all'autorità competente.

A ciò può aggiungersi che la riforma del 2003, pur avendo introdotto l'impugnativa, da parte del consigliere assente o dissenziente, della delibera consiliare che sia contraria alla legge o allo statuto, non ha certamente disciplinato autonomi poteri impeditivi. Inoltre, l'esclusione del pubblico ministero dalla cerchia dei soggetti legittimati ad attivare il procedimento quando si tratti di società che non fanno ricorso al capitale di rischio e la circoscrizione del controllo giudiziario ai soli casi di gravi irregolarità che possono recare un danno alla società o a una o più controllate hanno determinato l'effetto di una significativa limitazione del ricorso al procedimento di cui all'art. 2409 c.c., contraendo ulteriormente i poteri-doveri degli amministratori non esecutivi.

Dunque, la conclusione è che, in linea generale, l'amministratore, non avendo il potere di adottare, individualmente, provvedimenti direttamente impeditivi, non può direttamente impedire il compimento di fatti criminosi.

Da qui discendono le difficoltà probatorie del nesso causale che, nell'ambito del concorso mediante omissione, impone di provare che il reato non sarebbe stato realizzato se fosse stato tenuto il comportamento doveroso: in tal senso, quindi, i poteri devono essere realmente impeditivi.

Difficoltà che hanno spinto, per lungo tempo, la giurisprudenza ad eludere la prova del nesso causale nella materia in esame, affidando rilievo esclusivamente al semplice mancato adempimento del dovere di controllo, e quindi al mero aumento del rischio.

Solo di recente, infatti, si è sottolineato che le difficoltà in ordine alla ricostruzione probatoria del fatto e degli elementi oggettivi che lo compongono non possono mai legittimare un'attenuazione del rigore nell'accertamento del nesso di causalità e una nozione “debole” della stessa che, collocandosi sul terreno della teoria dell'”aumento del rischio”, finirebbe per comportare un'abnorme espansione della responsabilità penale (cfr. Cass. pen., Sez. un. 12 luglio 2005, n. 33748).

In conclusione

Alla luce delle considerazioni che precedono, è possibile affermare che la contrazione dei doveri di garanzia posti in capo ai non esecutivi, la difficile identificazione di poteri realmente impeditivi dell'evento facenti loro capo singolarmente e la difficoltà di provare sia il nesso causale tra la condotta omissiva dei deleganti e gli illeciti societari commessi, sia la colpevole e volontaria partecipazione di tali soggetti all'attività criminosa, dovrebbero indurre la magistratura, in ossequio al principio di colpevolezza di cui all'art. 27, comma 1, Cost., ad evitare indiscriminate pronunce di condanna nei confronti degli amministratori non esecutivi chiamati a rispondere penalmente per omesso impedimento dei reati societari.

Guida all'approfondimento

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CENTONZE, La Suprema Corte di Cassazione e la responsabilità degli amministratori non esecutivi dopo la riforma del diritto societario, in Cass. Pen., 2008, pp. 109 ss;

CRESPI, Reato plurisoggettivo e amministrazione pluripersonale delle società per azioni, in Riv. it. dir. pen., 1957, p. 541;

GRASSO, Il reato omissivo improprio, Milano, 1983, pp. 350 ss;

LANZI, La responsabilità penale degli organi sociali di gestione, in La riforma del diritto societario. Profili civili e penali, Milano, 2004, pp. 245 ss;

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PEDRAZZI, in Reati commessi da persone diverse dal fallito, in C. Pedrazzi- F. Sgubbi, Reati commessi dal fallito. Reati commessi da persone diverse dal fallito. Artt. 216-227, Bologna, 1995, pp. 282 ss;

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