La responsabilità del componente dell'equipe medica

10 Febbraio 2017

La individuazione della responsabilità dei singoli componenti una equipe non può prescindere dalla soluzione all'interrogativo relativo alla sussistenza o meno di un obbligo di verifica e sorveglianza dell'operato altrui gravante sui singoli membri dell'equipe. Un ampio filone dottrinale ritiene che, qualora la condotta colposa posta in essere dal singolo medico, si sovrapponga a quella di altri sanitari, il precetto concreto di diligenza a cui attenersi dovrà fare riferimento al c.d. principio di affidamento, in base al quale ...

La individuazione della responsabilità dei singoli componenti una equipe non può prescindere dalla soluzione all'interrogativo relativo alla sussistenza o meno di un obbligo di verifica e sorveglianza dell'operato altrui gravante sui singoli membri dell'equipe.

Un ampio filone dottrinale ritiene che, qualora la condotta colposa posta in essere dal singolo medico, si sovrapponga a quella di altri sanitari, il precetto concreto di diligenza a cui attenersi dovrà fare riferimento al c.d. principio di affidamento, in base al quale ogni soggetto non dovrà ritenersi obbligato a delineare il proprio comportamento in funzione del rischio di condotta colposa altrui, atteso che potrà sempre fare affidamento sul fatto che gli altri soggetti agiscano nell'osservanza delle leges artis (MANTOVANI, Il principio di affidamento nella teoria del reato colposo, Milano, 1997).

La giurisprudenza, tuttavia, si è perlopiù espressa in maniera difforme dal predetto orientamento dottrinale: recentemente la suprema Corte, chiamata a pronunciarsi su di una complessa vicenda di responsabilità medica relativa all'attività svolta da figure professionali diverse che agivano in equipe, con sentenza Sez. IV, 30 marzo 2015 n. 18780, ha affermato che il sanitario non può esimersi dal conoscere e valutare l'attività precedente o contestuale svolta da altro collega, sia pur specialista di altra disciplina, e dal controllare la correttezza, se del caso ponendo rimedio ad errori altrui che siano evidenti e non settoriali, rilevabili ed emendabili con l'ausilio delle comuni conoscenze scientifiche del professionista medio.

Se da un canto, quindi, il singolo operatore è tenuto ad un controllo rigoroso sulle attività del collega, seppur specialista di altra branca, che lo ha preceduto, dall'altra si intravede la totale rimessione alla valutazione del giudice di merito che dovrà valutare, con giudizio ex ante, la evidenza dell'errore dello specialista precedente, nonché la rilevabilità ed emendabilità con la diligenza e competenza del professionista medio; si richiede, pertanto, una verifica critica del singolo componente la equipe sull'attività presupposto posto in essere dallo specialista precedente. È certo, tuttavia, che non possa parlarsi di affidamento quando colui che si affida sia in colpa per aver violato determinate norme precauzionali o per aver omesso determinate condotte.

Se da un canto appare scontato il controllo del ginecologo sull'attività dell'ostetrico, attesa la contiguità e complementarietà delle discipline, dubbi e problemi sorgono ad esempio, per quanto attiene la posizione del sanitario, sia esso chirurgo che patologo, sulla interpretazione della radiografia. Al di là della richiesta e doverosa diligenza, la interpretazione della lastra, in contrasto con il referto del radiologo, spesso rischia di creare conflitti interpretativi, non sempre ovviabili, che possono tramutarsi in un danno per il paziente e, in sede giudiziaria, in un giudizio sulla responsabilità dei singoli professionisti non sempre agevolmente districabile.

Altro discorso, invece, è quello relativo all'attività di equipe svolta in contemporanea da specialisti della stessa branca; sul punto la citata sentenza si esprime: […] vertendosi in tema di causalità commissiva, chi ha materialmente cagionato il danno ne risponderà in presenza di tutti gli elementi della fattispecie; il partecipe dell'equipe, titolare di autonoma posizione di garanzia, e in posizione di subordinazione gerarchica rispetto al medico, potrà fare affidamento nell'operato di questi, sempre che non siano da lui riconoscibili le eventuali violazioni delle regole dell'arte medica.

Orbene, non sempre, è possibile al medico in posizione di subordinazione riconoscere nell'immediato le eventuali violazioni delle regole dell'arte medica poste in essere dal componente dell'equipe in posizione apicale (primo operatore) così come, non sempre è possibile discostarsene; ovvero prospettare il dissenso in tempi reali, abbandonando la sala operatoria.

Analogamente, non sempre è possibile individuare l'autore materiale della condotta lesiva (il primo operatore o l'aiuto?).

Il timore è che, in questi casi, la responsabilità ricada indiscriminatamente sull'equipe operatoria (responsabilità di gruppo, ritenuta aberrante Cfr. Cass. pen., Sez. IV, 9 aprile 2009,n. 19755) ovvero sul primario in quanto titolare di una qualificata posizione di garanzia nei confronti del paziente, in ragione della quale è tenuto a dirigere e coordinare l'attività svolta dagli altri medici (non scelti da lui) componenti d'equipe specialisti nella stessa o in altre discipline.

Al riguardo appare utile il richiamo alla sentenza Cass. pen. Sez. III, 29 settembre 2015, n. 43828, secondo la quale l'obbligo alla manifestazione del dissenso, seppur richiesto con riferimento al contesto operatorio va manifestato in qualunque modo dovendosi evitare che la sala operatoria diventi luogo di un acceso confronto proprio a scapito del paziente.

Ed ancora Cass.pen., Sez. IV, 8 luglio 2014, n. 7346: il capo dell'equipe assume su di sé la responsabilità dell'intervento […].

La c.d. colpa d'equipe trova il suo fondamento normativo nell'art. 113 c.p., che nel disciplinare i casi di cooperazione colposa, non ne differenzia il trattamento sanzionatorio rispetto a quello previsto per le ipotesi di concorso di cause colpose indipendenti, limitandosi a prevedere l'applicazione delle aggravanti tipiche del concorso di persone nel reato doloso.

La distinzione fra l'art. 113 c.p. ed il concorso di cause di cui all'art. 41 c.p. deve essere rinvenuta non già sul piano normativo ma su quello dell'elemento psicologico: la responsabilità d'equipe in capo al medico, presuppone la consapevolezza di cooperare che è propria di chi prende parte ad una attività svolta plurisoggettivamente; ciò che non è richiesto, secondo la giurisprudenza prevalente, è la consapevolezza del carattere colposo della condotta altrui.

Al fine di addivenire ad un'affermazione della responsabilità penale in capo ai singoli membri dell'equipe medica, che rispetti il principio di colpevolezza di cui all'art. 27,comma 1, Cost., dovrebbe costituire oggetto di approfondita indagine da parte del giudice penale, la concreta sussistenza del nesso causale tra le singole condotte poste in essere da ciascun sanitario.

Il supremo Collegio ha ritenuto che le statuizioni in ordine alla responsabilità dei componenti dell'equipe, vanno rapportate ai principi valevoli in materia di responsabilità: di tal che deve essere verificato per un verso, il concreto comportamento omissivo o commissivo che, provvisto di valenza concausale rappresenta il contributo reso da ciascun imputato al verificarsi dell'illecito e, se quel contributo gli sia concretamente rimproverabile sul piano soggettivo secondo i noti criteri elaborati dalla giurisprudenza e dalla dottrina in tema di colpa.

Quanto sopra, ineccepibile come principio ermeneutico in molti casi è difficilmente applicabile in concreto stante la obiettiva difficoltà di individuare le eventuali omissioni o condotte commissive errate poste in essere nel corso di un intervento operatorio.

È auspicabile, pertanto, in prospettiva della riforma dei reati per responsabilità medica un intervento sul punto.

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