Legittima la confisca dell'intero patrimonio aziendale all'appartenente ad associazione mafiosa

Redazione Scientifica
10 Febbraio 2017

La Corte di cassazione, Sezione I, con sentenza n. 5514 depositata il 6 febbraio 2017, ha deciso sul ricorso avverso l'ordinanza che aveva colpito un imprenditore siciliano operante nel settore dei giochi da intrattenimento confiscando tutto il patrimonio familiare in virtù della sua appartenenza alla associazione mafiosa.

La Corte di cassazione, Sezione I, con sentenza n. 5514 depositata il 6 febbraio 2017, ha deciso sul ricorso avverso l'ordinanza che aveva colpito un imprenditore siciliano operante nel settore dei giochi da intrattenimento confiscando tutto il patrimonio familiare in virtù della sua appartenenza alla associazione mafiosa.

Il ricorrente lamentava, da un lato, l'indebita confusione dei giudici di merito che avevano sottoposto a misura anche le componenti lecite dei cespiti imprenditoriali per le quali, anche per la riferibilità a soggetti terzi mai coinvolti nelle indagini, non era dato dedurre alcuna relazione di pertinenzialità al reato; dall'altro lato la violazione del divieto di bis in idem in quanto il tribunale si era in precedenza pronunciato negando l'applicazione delle misure e nessun fatto nuovo rilevante sarebbe medio tempore sopravvenuto.

I giudici di legittimità rigettano in toto il ricorso.

Ai fini dell'applicabilità della confisca di beni patrimoniali nella disponibilità di persone indiziate di appartenere ad associazioni di tipo mafioso, è sufficiente che sussista una sproporzione tra le disponibilità e i redditi denunciati dal preposto ovvero indizi idonei a lasciare desumere in modo fondato che i beni dei quali si chiede la confisca costituiscano il reimpiego dei proventi di attività illecite e che il proposto non sia riuscito a dimostrare la legittima provenienza del denaro utilizzato per l'acquisto di tali beni.

Non è inoltre richiesta la partecipazione al sodalizio mafioso ma è sufficiente l'appartenenza, in quanto la misura di prevenzione non è volta all'accertamento di un fatto reato ma di comportamenti che sono indice di pericolosità sociale specifica; ne discende quindi una regime differente sul piano probatorio. L'appartenenza che il Legislatore pone come condizione per l'applicabilità di una misura di prevenzione personale antimafia ricomprende ogni comportamento che, pur non realizzando il reato di associazione di tipo mafioso, sia funzionale tuttavia agli interessi dei poteri criminali e costituisca una sorta di terreno più generale di cultura mafiosa.

Riguardo all'oggetto della misura di prevenzione i giudici di legittimità ritengono corretta la confisca dell'intero complesso aziendale motivando che questa non potrebbe essere disposta solo con riferimento alla quota ideale riconducibile all'utilizzo delle risorse illecite essendo impossibile distinguere, in ragione del carattere unitario del bene, l'apporto di componenti lecite riferibili alla capacità e all'iniziativa imprenditoriale da quello imputabile ai mezzi illeciti, specie quando il consolidamento e l'espansione dell'attività economica siano stati sin dall'inizio agevolati dall'organizzazione criminale.

Infine, richiamando il principio già espresso dalle Sezioni unite (sentenza n. 600 del 2009), il Collegio dichiara che in tema di misure di prevenzione la preclusione del giudicato opera rebus sic stantibus e, pertanto, non impedisce la rivalutazione della pericolosità sulla base di ulteriori elementi, precedenti o successivi al giudicato. Fatto salvo che non possano costituire oggetto di valutazione fatti già scrutinati e posti a fondamento del giudizio di pericolosità, devono però poter essere presi in considerazione fatti nuovi o successivamente emersi, anche se preesistenti che, uniti ai precedenti, diano conto di una continuità di condotta e di un modo essere che possa legittimare un nuovo intervento.

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