La confisca per equivalente nei confronti degli enti collettivi

10 Marzo 2017

Qual è il profitto del reato da sottoporre confisca nei confronti degli enti collettivi responsabile ai sensi del d.lgs. 231 del 2001?

Qual è il profitto del reato da sottoporre confisca nei confronti degli enti collettivi responsabile ai sensi del d.lgs. 231 del 2001?

Come è noto, fra le diverse sanzioni che possono essere applicate alle società in presenza di una loro riconosciuta responsabilità da reato vi è la confisca del profitto che l'ente collettivo ha ricavato dall'illecito.

In realtà, nel decreto legislativo 231 del 2001 sono previste numerose figure di confisca: c'è, ad esempio, quella prevista dall'art. 6, comma 5, con riferimento all'ipotesi di adozione del provvedimento ablatorio in relazione ai casi in cui il reato risulti commesso da soggetti che rivestono funzioni apicali nell'ente e questo vada comunque esente da responsabilità o vi è quella di cui all'art. 15, comma 4, relativa all'apprensione coattiva del profitto derivante dalla prosecuzione dell'attività che l'ente abbia svolto sotto la direzione di un commissario nominato dall'autorità giudiziaria. La figura più rilevante, tuttavia, è per l'appunto la c.d. confisca-sanzione, che deve interessare il prezzo o il profitto del reato e che – analogamente a quanto previsto in altri ambiti del nostro ordinamento penale, ad esempio con riferimento ai reati tributari – può assumere la forma della confisca in via diretta o per equivalente, avendo ad oggetto nel secondo caso beni della società diversi dal profitto direttamente conseguente all'illecito ma aventi un analogo valore economico.

Quanto alla definizione della nozione di profitto del reato, non esiste un'unica ed esclusiva definizione della stessa valida in relazione a qualsiasi fattispecie di reato di cui la persona giuridica è chiamata a rispondere ma l'individuazione del beneficio che la società ottiene dalla sua condotta illecita dipende in concreto dalla natura e dalla qualificazione giuridica del reato di cui si discute.

La tesi fondamentale sostenuta dalla giurisprudenza è quella secondo cui il profitto del reato oggetto della confisca di cui all'art. 19 d.lgs. 231 del 2001 si identifica con il vantaggio economico di diretta ed immediata derivazione causale dall'illecito presupposto (Cass.pen., Sez. VI, n. 33226 del 2015). Tuttavia, per una sola categoria di reati il profitto dell'illecito è parametrato in maniera integrale alle somme percepite dalla società quale conseguenza del crimine: tale equivalenza sussiste solo per i reati di truffa ai danni dello Stato e degli enti pubblici ed illecita percezione di contributi di cui agli artt. 640-bis, 316-bis e 316-ter c.p., illeciti in relazione ai quali si afferma che il profitto si concreta nella sovvenzione in sé, una volta percepita la quale si consuma il reato e si realizza il profitto che diviene oggetto della sanzione-confisca (Cass. pen., Sez. II, n. 52316 del 2016).

Completamente diversa è invece la definizione di profitto quando il reato di cui deve rispondere la società si colloca all'interno di un rapporto sinallagmatico (si pensi, ad esempio, ad una fattispecie di corruzione per ottenere l'assegnazione di un appalto, situazione nella quale, a fronte del delitto commesso da soggetti facenti capo alla persona giuridica che in virtù della corruzione stipula il contratto con la pubblica amministrazione, la medesima società realizza alcune prestazioni a favore di quest'ultima): in tali ipotesi, infatti, il profitto non potrà essere rappresentato dal valore dell'appalto ottenuto grazie all'illecita dazione di denaro giacché da tale importo andrà sottratto il valore dell'utilità conseguita dalla pubblica amministrazione in ragione dell'esecuzione da parte dell'ente delle prestazioni che il contratto gli impone (Cass.pen., Sez. un., n. 26654 del 2008; Cass.pen., Sez. VI, n. 33226 del 2015.

Ancora diversa è la nozione di profitto nei casi in cui la responsabilità dell'impresa si fondi su illeciti colposi, come nel caso di reati in tema di infortuni sul lavoro conseguenti all'inosservanza delle prescrizioni antinfortunistiche o per i reati in materia ambientale. In proposito, la giurisprudenza è tetragona nel sostenere che nell'ambito delle ipotesi di responsabilità della persona giuridica per reati connessi alla violazione della disciplina prevenzionistica degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali, l'idea di profitto si collega con naturalezza ad una situazione in cui l'ente trae da tale violazione un vantaggio che si concreta, tipicamente, nella mancata adozione di qualche oneroso accorgimento di natura cautelare, o nello svolgimento di una attività in una condizione che risulta economicamente favorevole, anche se meno sicura di quanto dovuto (il principio è stato affermato chiaramente dalle Sezioni unite con la c.d. Sentenza Thyssen, Cass., pen., Sez. un., n. 38343/2014. Più di recente Cass. pen.,Sez. V, n. 2544/2016).

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