Lo scafista e i migranti. Questioni sull'utilizzabilità delle dichiarazioni eteroaccusatorie dell'immigrato irregolare

10 Marzo 2017

I migranti che arrivano in Italia sui barconi degli scafisti commettono il reato di immigrazione clandestina? La risposta positiva a questa domanda implicherebbe che ...
Abstract

I migranti che arrivano in Italia sui barconi degli scafisti commettono il reato di immigrazione clandestina? La risposta positiva a questa domanda implicherebbe che le loro dichiarazioni accusatorie nei confronti dei trafficanti di esseri umani debbano essere raccolte con le modalità garantite previste per gli indagati di reato connesso o collegato. La soluzione però è tutt'altro che lineare a fronte delle diverse modalità concrete di ingresso nel territorio nazionale e di notevoli contrasti nella giurisprudenza non ancora del tutto ricomposti.

Il caso

Secondo uno schema purtroppo ormai consueto, un'imbarcazione in precarie condizioni di galleggiabilità, è salpata l'11 aprile 2016 dalla città libica di Sabrata, diretta verso la Sicilia occidentale. A bordo erano trasportati 345 migranti clandestini di varie nazionalità. La Guardia Costiera, nella sua attività di pattugliamento di altura, ha intercettato il barcone al largo delle coste italiane e ne ha soccorso i passeggeri, portati in salvo nel porto di Trapani il successivo 12 aprile.

Le prime indagini della polizia giudiziaria, e in particolare l'assunzione a sommarie informazioni degli extracomunitari appena sbarcati sul territorio nazionale, hanno evidenziato la responsabilità di un cittadino sudanese. Costui avrebbe materialmente tenuto i comandi del barcone sino all'intervento dei soccorritori, su mandato degli organizzatori del viaggio (i quali, dopo avere scortato il malandato natante per un breve tratto di navigazione, si sarebbero guardati bene dall'allontanarsi troppo dai loro sicuri rifugi sul litorale africano).

Il soggetto, indicato come "pilota dell'imbarcazione", è stato tratto in arresto lo stesso giorno dello sbarco, per il delitto di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina, e poi sottoposto alla misura cautelare della custodia in carcere (Tribunale di Trapani – Ufficio Gip, 9 novembre 2016, n. 1129).

Il reato oggetto di contestazione: il favoreggiamento dell'immigrazione clandestina

L'imputazione è stata dunque quella di favoreggiamento aggravato dell'immigrazione clandestina, in concorso con ignoti complici, ai sensi degli artt. 110 c.p., art. 12 commi 3, lett. a), b) e d), 3-bis e 3-ter, lett. b), d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286 e art. 4, l. 16 marzo 2006 n. 146.

Si è escluso un suo ruolo apicale o direttivo nell'organizzazione del viaggio, limitando la contestazione all'avere effettuato il trasporto dei cittadini extracomunitari sul barcone e in genere all'aver compiuto atti diretti a procurarne illegalmente l'ingresso nel territorio dello Stato.

Il fatto era negativamente inciso da plurime aggravanti:

  • riguardava l'ingresso di più di cinque persone;
  • l'ingresso illegale aveva posto in pericolo la vita o l'incolumità delle persone trasportate, in conseguenza della mancanza di ogni dotazione di sicurezza sull'imbarcazione e della sua totale inadeguatezza rispetto alle condizioni del mare e al numero dei passeggeri;
  • il fatto era stato commesso da più di tre o persone in concorso tra loro;
  • al fatto aveva dato il proprio contributo un gruppo criminale impegnato in attività criminali in più di uno stato (quantomeno, Libia e Italia).
L'utilizzabilità di quanto riferito dalle varie categorie di dichiaranti

In considerazione della omogeneità contenutistica degli atti di indagine diretti ad assumere dichiarazioni orali da soggetti informati sui fatti rispetto al (futuro e ipotetico) mezzo di prova “testimonianza”, il sistema processuale anticipa alla fase investigativa l'applicabilità di molteplici disposizioni che riguardano per l'appunto l'ufficio di testimone.

Pertanto, non potranno mai essere sentiti semplicemente come persone informate sui fatti (artt. 362, 351 e 197 c.p.p.):

  • i coindagati del medesimo reato;
  • le persone indagate/imputate in un procedimento connesso per essere stato commesso da più persone in concorso o in cooperazione colposa tra loro, salvo che nei loro confronti sia stata pronunciata sentenza irrevocabile di proscioglimento, di condanna o di applicazione della pena ai sensi (art. 12, comma 1, lett. a) c.p.p.);
  • il responsabile civile e la persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria;
  • chi nel medesimo procedimento svolga o abbia svolto la funzione di giudice, pubblico ministero o loro ausiliario nonché il difensore che abbia svolto attività di investigazione difensiva e coloro che abbiano formato la documentazione delle dichiarazioni e delle informazioni assunte ai sensi dell'articolo 391-ter c.p.p.;

nonché, prima che nei loro confronti sia stata pronunciata sentenza irrevocabile di proscioglimento, di condanna o di applicazione della pena, quando in sede di precedente interrogatorio non si siano avvalse delle facoltà di non rispondere dopo gli avvisi di cui all'art. 64, comma 3, lett. c) c.p.p.:

  • le persone indagate/imputate in un procedimento connesso perché, dei reati per cui si procede, alcuni sono stati commessi per eseguirne o occultarne altri (art. 12, comma 1, lett. c) c.p.p.);
  • le persone indagate/imputate in un procedimento per un reato collegato ex art. 371, comma 2, lett. b) c.p.p.:
    • perché dei reati per cui si procede, alcuni sono stati commessi in occasione degli altri;
    • perché, dei reati per cui si procede, alcuni sono stati commessi per conseguire o assicurare al colpevole o ad altri il profitto, il prodotto, il prezzo o l'impunità di altri reati;
    • perché i reati per cui si procede sono stati commessi da più persone in danno reciproco;
    • perché, dei reati per cui si procede, la prova di un reato o di una sua circostanza influisce sulla prova di un altro reato o di una sua circostanza.

Non sussiste però incompatibilità per la persona offesa, già indagata in un procedimento connesso o collegato, definito con provvedimento di archiviazione (Cass. pen., Sez. II, 9 gennaio 2015, n. 4123, Sconso e altro).

Le dichiarazioni rese da persona indagata sono d'altronde validamente assunte anche senza il rispetto delle garanzie difensive quando riguardino fatti di reato attinenti a terzi, in relazione ai quali non sussiste alcuna connessione o collegamento probatorio con quelli addebitati al dichiarante, il quale, con riguardo a queste vicende, assume la veste di testimone e, prima del giudizio, di persona informata dei fatti (Cass. pen., Sez. VI, 18 settembre 2013, n. 41118, Piroli).

Le dichiarazioni devono essere rese con l'assistenza del difensore e debbono essere confortate da riscontri oggettivi esterni. Queste cautele procedurali non sono però necessarie quando nei confronti del dichiarante sia stata pronunciata sentenza irrevocabile di assoluzione per non aver commesso il fatto (Corte cost., 21 novembre 2006, n. 381) o perché il fatto non sussiste (Corte cost., 7 dicembre 2016, n. 21). Anche quando la sentenza definitiva sia stata di condanna, il dichiarante non può essere obbligato a rispondere sui fatti per i quali è stata pronunciata la suddetta sentenza di condanna nei suoi confronti, se nel procedimento egli aveva negato la propria responsabilità ovvero non aveva reso alcuna dichiarazione.

Il reato connesso o collegato: l'ingresso illegale in Italia

Occorre a questo punto valutare la posizione processuale che deve essere attribuita in concreto ai passeggeri del barcone, privi di qualsiasi ruolo, anche meramente esecutivo, nelle attività di organizzazione e gestione della navigazione verso l'Italia.

Costoro si sono imbarcati all'inequivocabile scopo di fare ingresso nel territorio dello Stato e, in maniera altrettanto evidente, hanno pretermesso ogni formalità necessaria ad un rituale transito attraverso i posti di frontiera secondo quanto prescritto dalle disposizioni del testo unico sull'immigrazione (d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286). Pertanto l'ingresso in Italia, e se del caso il successivo trattenimento, apparirebbero riconducibili alla fattispecie incriminatrice prevista dall'art. 10-bis del suddetto decreto legislativo.

In astratto, dunque, gli immigrati che giungono in Italia sui barconi condotti dai cosiddetti scafisti risultano suscettibili di iscrizione per il suddetto reato, la cui natura contravvenzionale (al pari del principio dettato dall'art. 5 c.p., in base al quale l'ignoranza della legge penale non esclude la ipotizzabilità dell'illecito) consentirebbe di riconoscerne la sussistenza anche per semplice negligenza, imprudenza o imperizia.

Tra il delitto commesso dallo scafista (favoreggiamento dell'immigrazione clandestina) e la contravvenzione commessa dal semplice immigrato clandestino sussisterebbe così un collegamento probatorio o occasionale ai sensi dell'art. 371, comma 2, lett. b) c.p.p., con quanto ne consegue in termini di utilizzabilità delle dichiarazioni rese senza le garanzie di legge.

La casistica giurisprudenziale ha però riconosciuto una significativa divergenza rispetto a questo modello normativo teorico quando non ci si trovi davanti ad un arrivo clandestino con il classico “sbarco” (ovvero con il giungere degli immigrati sul suolo italiano, o comunque nelle acque territoriali, con i propri mezzi) ma ad un ingresso nel territorio dello Stato derivante in via esclusiva dall'attività di soccorso istituzionale iniziata in acque internazionali. In questo caso, la condotta tenuta dai migranti sino al momento del salvataggio sarebbe priva di rilevanza penale, non essendo configurabile il tentativo in ipotesi di contravvenzione ed apparendo la sequenza di atti originariamente pianificata interrotta dall'azione dei soccorritori.

Dal punto di vista processuale, a questa diversa ricostruzione fattuale e giuridica consegue evidentemente la piena ritualità dell'assunzione di informazioni dal migrante appena sbarcato, quale semplice soggetto informato sui fatti, avendo oltrepassato la frontiera in maniera irregolare ma non illecita.

La Cassazione ha avuto un approccio non lineare a questa problematica.

Alcune sentenze hanno posto in risalto la correttezza dell'audizione garantita dei migranti, quali indiziati del reato di cui all'art. 10-bis, d.lgs. 286/1998 a seguito dello sbarco clandestino, per quanto riguarda le dichiarazioni rese nei confronti dell'equipaggio dell'imbarcazione (Cass. pen., Sez. I, 17 marzo 2016 n. 25613, Almagasbi e Cass. pen., Sez. I, 10 maggio 2012, n. 22643, Andriietes).

Altri orientamenti hanno invece sposato la tesi della non omogeneità della condotta voluta dai migranti (ingresso in Italia con trasporto da parte dello scafista dalle coste africane a quelle europee) a quella pianificata dai trafficanti di uomini e taciuta alla massa dei passeggeri (abbandono in mare su natanti di fortuna, in attesa delle operazioni di ricerca o soccorso). In questo caso, pertanto, al segmento di condotta posto in essere sino all'arrivo dei pattugliatori d'alto mare non potrebbero che riconoscersi i requisiti di idoneità e di univocità tipici del tentativo di reato, inapplicabile però alle fattispecie contravvenzionali. Correttamente, dunque, secondo questo indirizzo, gli operanti raccolgono direttamente le dichiarazioni dei migranti, in assenza di difensore e senza alcun avviso di legge (Cass. pen.,Sez. I, 16 novembre 2016 n. 53691, Alli, e Cass. pen., Sez, I, 1° ottobre 2015 n. 39719, Mohammed).

Il contrasto è stato risolto dalle Sezioni unite, sia pure chiamate in causa per altra questione preliminare ritenuta assorbente dai remittenti (l'inammissibilità derivante dalla proposizione del ricorso da parte di difensore cassazionista quale sostituto processuale di difensore non cassazionista).

Il supremo Consesso ha affermato che sono utilizzabili, in quanto hanno natura testimoniale, le dichiarazioni rese alla polizia giudiziaria dai migranti nei confronti dei membri dell'equipaggio che hanno effettuato il loro trasporto illegale (Cass. pen., Sez. unite, 28 aprile 2016, n. 40517, Taysir).

La motivazione è stringata e, senza prendere puntuale posizione sulle distinte opzioni esegetiche, afferma che i soggetti soccorsi in acque internazionali e legittimamente trasportati sul territorio nazionale non possono essere considerati migranti entrati illegalmente nel territorio dello Stato per fatto proprio, dal momento che il pericolo di vita cui era conseguita l'azione di salvataggio che ne aveva comportato l'ingresso e la permanenza per motivi umanitari nel territorio dello Stato [era] stato evenienza dagli stessi [scafisti] prevista ed artatamente creata.

La soluzione adottata dal Gup di Trapani

La prima questione che si è posto il giudicante è quella relativa al materiale probatorio ritualmente utilizzabile ai fini della decisione, ampliando il contenuto del fascicolo del pubblico ministero mediante uso dei propri poteri istruttori officiosi ex art. 441, comma 5, c.p.p.

Durante le indagini erano stati sentiti almeno cinque passeggeri, i quali avevano reso dichiarazioni accusatorie nei confronti di A., riconosciuto unanimemente come il pilota del barcone dalla partenza sino al soccorso. Queste dichiarazioni erano state poi processualmente “blindate” (almeno in apparenza), con esame dei medesimi migranti in incidente probatorio, nella veste però di semplici testimoni.

Il Gup di Trapani, ricostruite le diverse opzioni interpretative offerte dalla giurisprudenza di legittimità, critica l'impostazione adottata dal pubblico ministero e dal Gip, che avevano aderito all'orientamento meno garantista e negato la necessità di sentire i dichiaranti come indagati per un reato connesso o collegato. La motivazione incentra le proprie obiezioni a questa impostazione ermeneutica facendo leva sulla eccessiva stringatezza delle riflessioni poste dalla Cassazione a sostegno di questa tesi e soprattutto sulla sostanziale omogeneità delle due modalità di ingresso: non potrebbe infatti ravvisarsi nessuna reale cesura ontologica tra il viaggio pianificato dai migranti e lo sbarco con l'ausilio dei mezzi di soccorso (oramai modo normale per varcare la soglia del Vecchio continente). A fondamento dei contrari percorsi interpretativi, si rinvengono soprattutto, a detta dell'estensore, malintese ragioni umanitarie e una diffidenza ideologica nei confronti dell'incriminazione dei migranti, oltre che motivi contingenti di semplificazione delle formalità investigative.

In attesa che la Corte regolatrice esprima un indirizzo univoco (viceversa già espresso al momento della pronuncia), il giudice siciliano sposa dunque l'interpretazione più rigida.

Sulla base di queste premesse (e ritenuta la giurisdizione italiana, sulla scorta del consolidato orientamento di legittimità), è stata così espletata attività di integrazione istruttoria, procedendosi all'audizione, con le forme garantite di cui all'art. 210 c.p.p., dell'unico migrante ancora reperibile. Le precedenti dichiarazioni rese da quest'ultimo e dai suoi compagni di viaggio non potevano infatti ritenersi utilizzabili, ai sensi degli artt. 63, comma 2, e 64, comma 3-bis, c.p.p. (presidio non solo dei diritti della persona raggiunta da sospetti di reità, ma anche della genuinità di quanto riferito).

La condotta dello "scafista" può quindi essere ricostruita sulla sola base delle dichiarazioni rese in sede garantita da un unico passeggero. Costui, nel confermare il ruolo materiale di pilota svolto dall'imputato, ha però precisato come quella funzione cruciale gli fosse stata conferita in modi perentori da un libico quando erano già sul barcone. Questa circostanza è riscontrata da quanto a suo tempo detto dallo stesso in interrogatorio: la conduzione del natante gli sarebbe stata imposta, con violenza e minaccia, dai veri organizzatori del viaggio, che lo avevano scelto, senza preventivi accordi, dopo una rapida selezione tra i disperati presenti a bordo.

Ritenuta plausibile questa ricostruzione della vicenda, seppure indubitabilmente l'imputato risulta avere posto materialmente in essere il fatto tipico previsto dalla norma incriminatrice (circostanza mai peraltro negata neppure da lui stesso), questa condotta deve però reputarsi scriminata, perlomeno in via dubitativa, dall'avere egli agito in stato di necessità.

In conclusione

La sentenza trapanese appare sicuramente coraggiosa, nella indifferenza manifestata rispetto alla “impopolarità” delle conclusioni assunte eppure ritenute conformi al diritto vigente. In realtà, non conosciamo il contenuto delle dichiarazioni degli altri accusatori dell'imputato ma il racconto dell'unico immigrato ancora non irreperibile, per come riassunto in motivazione, è sufficientemente generico per poter fondare ricostruzioni di opposto segno e la valenza apologetica del racconto dell'imputato ha una sua astratta plausibilità (certo bisognosa di solidi riscontri).

Nell'affrontare la questione cruciale, d'altronde, l'estensore trascura di indicare, tra le varie pronunce della suprema Corte citate, l'intervento chiarificatore delle Sezioni unite (lacuna incolpevole, dato che la decisione risale a qualche settimana prima della sentenza trapanese e non era stata verosimilmente ancora massimata). L'autorevolezza di questo specifico precedente, occorre ammetterlo, discende però più dall'alta posizione del consesso giudicante che dalla forza di convincimento delle rapide riflessioni poste a sostegno della pronuncia sul punto. D'altronde, altri arresti degli Ermellini avevano esplicitato ampiamente i diversi orientamenti, in realtà non sempre contrapposti in termini trancianti.

Il cuore del problema, come visto, sta tutto nella possibilità di escludere la natura illegale dell'ingresso nel territorio dello Stato nel caso di operazioni istituzionali di ricerca e soccorso (Search and rescue - SAR) in alto mare ovvero, in altri termini, di ricondurre questo ingresso a un fatto proprio del migrante, concettualmente omogeneo rispetto all'ingresso clandestino come voluto e tentato. Se ragioniamo in termini di puro “evento categoriale” (come fa la Cassazione in tema di prevedibilità nel reato colposo), sembra apparentemente difficile sostenere la impossibilità di assimilare i due distinti decorsi oggettivi.

Un apporto fondamentale a questa problematica è stato fornito da Cass. pen., Sez. I, 28 febbraio 2014 n. 14510, Haji, in tema di giurisdizione, secondo la quale l'ultimo tratto della condotta [degli scafisti] altro non rappresenta che un tassello essenziale e pianificato di una concatenazione articolata di atti che non può essere interrotta o spezzata nella sua continuità, frutto di un accorto disegno. Ed infatti l'intervento di soccorso è doveroso, ai sensi delle Convenzioni internazionali sul diritto del mare […] anche una volta avuto contezza dell'illiceità dell'immigrazione. L'azione di salvataggio dunque non può essere considerata isolatamente rispetto alla condotta pregressa che volutamente determinò lo stato di necessità, proprio perché trattasi di condizione di pericolo causata volontariamente dai trafficanti, che si ricollega (ferma restando ovviamente la non punibilità dei soccorritori, obbligati ad intervenire) in diretta derivazione causale all'azione criminale di abbandonare in mare uomini in attesa dei soccorsi, nella ragionevole speranza che siano condotti sulla sponda di terra agognata sotto lo scudo dell'azione di salvataggio.

La condotta dei trafficanti dunque (ma solo quella dei trafficanti, organizzatori spietati dei flussi migratori tra Africa e Sicilia) deve essere quindi valutata senza frammentazioni. In questo modo si può cogliere agevolmente l'unitarietà del modus operandi, che postula sin dall'origine lo sfruttamento dello stato di necessità artatamente provocato, così da costringere i soccorritori, anche non istituzionali, ad intervenire per scongiurare un male più grave, quali autori mediati, indispensabili (seppure incolpevoli) nella parte finale della concatenazione causale.

Queste conclusioni, di evidente esattezza, non conducono però alla necessaria sovrapponibilità di un simile esito concreto del viaggio rispetto all'altro, meno drammatico, invece ipotizzato dai migranti. Il nesso indissolubile tra le attività in alto mare (e prima ancora in terra libica) e il successivo soccorso è addebitabile solo a chi abbia avuto, sin dalle fasi prodromiche della navigazione, coscienza e volontà di questa peculiare sequenza causale. Occorre quindi distinguere i profili di colpevolezza rimproverabili ai soli migranti: lo iato che impedisce di uniformare le due distinte sequenze comportamentali deve essere individuato proprio nella loro costrizione a subire le scelte, potenzialmente micidiali, dell'organizzazione criminale (e in particolare nello stato di necessità determinato dall'altrui minaccia, ex art. 54, comma 3, c.p., che si estrinseca anche nei confronti dei disperati abbandonati a sé stessi, oltre che dei soccorritori pubblici o privati).

Anche in presenza di atti sicuramente idonei e univocamente diretti all'ingresso clandestino in Italia sino all'abbandono in mare da parte dei trafficanti, l'indubitabile stato di necessità in cui versano i passeggeri abbandonati in balia delle onde risulta tale da scriminare le condotte non sorrette dalla originaria consapevolezza che si sarebbe sfruttato maliziosamente il soccorso delle autorità o di altri natanti (come è ovvio, la mancata prova di questa consapevolezza, processualmente parlando, ha pressoché le stesse conseguenze).

Le Sezioni unite muovono dunque, quasi implicitamente ma sulla scorta di precedenti decisioni più argomentate, dal presupposto di buon senso che il migrante, al momento di salire sulla bagnarola messagli a disposizione dagli scafisti, non immagina certo, dopo avere pagato una somma enorme rispetto alle proprie potenzialità economiche, che il viaggio non si concluderà con uno sbarco sia pure fortunoso sui lidi europei ma che le organizzazioni criminali lo abbandoneranno su un rottame in procinto di naufragare, puntando sui principi di solidarietà e di rispetto della vita umana, base della civiltà occidentale, che non permettono di accettare passivamente tragedie in mare. In effetti, è ben possibile che i disperati, dopo avere percorso migliaia di chilometri per arrivare nelle mani dei trafficanti libici, abbiano accettato una simile soluzione (o che la avrebbero comunque accettata, qualora prospettata loro). Di questa eventualità, come accennato, non c'è però la minima emergenza indiziaria, quanto meno nelle fasi iniziali dell'accoglienza.

In parole povere: gli scafisti sanno benissimo che il viaggio in Italia non ci sarà e che il barcone sarà semplicemente lasciato galleggiare in condizioni precarie nelle acque internazionali. Non lo sanno invece i passeggeri, di fatto truffati e costretti a rischiare la vita (ovvero non c'è prova che lo sappiano, a maggior ragione al momento dello sbarco nei porti italiani). Sembra a questo punto difficile parlare di fatto proprio.

In ogni caso, non può trascurarsi l'ulteriore rilievo per cui l'iscrizione e la qualificazione giuridica del fatto sono una prerogativa esclusiva dell'autorità giudiziaria (e segnatamente dell'ufficio del pubblico ministero, quanto alla iscrizione). Non esiste dunque nessun automatismo, impermeabile rispetto ad un approccio critico del magistrato, a maggior ragione in casi come quelli in argomento, dalle soluzioni magari opinabili ma tutt'altro che scontate. Al pubblico ministero non è certo conferito un potere discrezionale ma un obbligo giuridico indilazionabile che non comporta possibilità di scelta quanto all'an, al quid e al quomodo dell'iscrizione, dovendosi soltanto riscontrare l'esistenza dei presupposti normativi che la impongono. Sono certamente sempre censurabili in ogni sede competente eventuali condotte maliziose, dirette a sviare il potere-dovere di iscrizione al fine di guadagnare vantaggi procedimentali più o meno consistenti (ad esempio, omettendo di iscrivere un soggetto raggiunto da indizi consistenti così da poterne poi utilizzare in dibattimento le dichiarazioni eteroaccusatorie). Pur tuttavia la qualità di testimone o di indagato non può essere stabilita in via presuntiva dal giudice ma deve essere desunta da quest'ultimo esclusivamente dalla formale iscrizione nell'apposito registro a seguito di specifica iniziativa posta in essere dal pubblico ministero (tranne che in presenza di un “fatto investigativo”, come l'arresto o il fermo, che qualifichi di per sé il soggetto come persona sottoposta ad indagini e fatta salva l'ipotesi di iscrizione cosiddetta coatta), sempre tenendo conto di eventuali cause di giustificazione, ove queste siano di evidente ed immediata applicazione senza la necessità di particolari indagini o verifiche (Cass. pen., Sez. II, 24 settembre 2014 n. 40575, Carpentieri).

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