La riforma del processo penale ovvero la grande illusione
10 Aprile 2017
Sono passati trent'anni dalla legge delega per la riforma del codice di procedura penale. Il mondo è sicuramente cambiato anche in relazione al contesto della criminalità e degli strumenti di accertamento. La dimensione diffusa, stratificata, sovranazionale dei fenomeni criminali è situazione evidente di un processo evolutivo che richiede attenzioni vigile: tecnologie invasive, pervasive, totali, di controllo, di risultati affidabili, di metodologie scientificamente convalidate offrono supporti sempre più all'azione della attività di investigazione. Non si tratta di fatti nuovi. Anche nei tempi passati la giustizia penale, la politica, la cultura giuridica si sono misurate su questi temi. Tutto ciò non ha impedito che il modello processuale si evolvesse in senso garantista che si rafforzassero i diritti della persona proprio nella misura in cui gli strumenti a disposizione dell'autorità giudiziaria si andavano intensificando. Le garanzie costituzionali e quelle sovranazionali si sono affermate con il consolidarsi della democrazia. Invero processo penale e sistema politico sono un dato inscindibile. In questo contesto, con questa convinzione, il Parlamento approvava all'unanimità una legge delega di riforma del primo codice della Repubblica. Ispirato al modello accusatorio, il codice, pur legato alla cultura ed alla tradizione ordinamentale del nostro paese, recepiva e rielaborava elementi di un modello processuale ispirato ai canoni dell'oralità, della separazione delle fasi, della parità delle parti, della terzietà del giudice, all'interno della cornice costituzionale e sovranazionale delle convenzioni ratificate dall'Italia. Era esplicito l'orizzonte del sistema accusatorio come ispirazione culturale del nuovo processo. Non mancarono nel prodotto finito scelte compromissorie, frutto del serrato dibattito nelle commissioni ministeriali. C'era in molti la consapevolezza della mancanza della cultura giuridica sottesa al nuovo modello, la convinzione che ci sarebbero state resistenze e difficoltà strutturali e ordinamentali. Si individuava nella scelta della collocazioni del pubblico ministero il rischio di un appiattimento sulla P.G. Il pericolo che il giudice per le indagini preliminari conservasse la cultura del giudice istruttore. Si temeva il rigetto dei riti premiali per la preferenza per i riti tradizionali del vecchio processo. Le vicende successive hanno superato ogni previsione più negativa: rivolta di alcuni settori della magistratura, reazioni politiche alle affermate inadeguatezze del nuovo rito per i processi di criminalità organizzata, sentenze della Corte costituzionale, frutto di una cultura distonica rispetto al nuovo modello, involuzione legislativa tesa a correggere i percorsi processuali, esplosione di fenomeni di criminalità, esigenze sicuritarie. Un coacervo di elementi che accompagnati da prassi, da sviluppi dei ruoli e da involuzioni delle scelte giurisprudenziali ci consegnano un rito che è radicalmente diverso da quello ipotizzato. Che il mondo si fermi è impensabile ma forse è giunto il momento di capire dove siamo arrivati. Si dice spesso e non sempre a torto che con le stratificazioni normative è difficile definire il processo penale italiano in termini sistematici. È vero sino ad un certo punto. Non è forse impossibile tentare qualche riflessione in tal senso per cogliere il significato profondo delle trasformazioni e l'approdo al quale siamo arrivati. L'elemento di snodo dell'involuzione è stato sicuramente la crisi del sistema bifasico, significativamente contrassegnato dall'immediato a richiesta dell'imputato. Il dato è stato accompagnato dalle altre decisioni della Corte costituzionale oltre a quelle famose e famigerate del 1992, legate alla ideologia della non dispersione della prova. Disconoscimento del valore negoziale delle parti, dilatazione dell'udienza preliminare per consentire deflazioni processuali e anticipazioni nel merito, ampliamento dei casi di incidente probatorio hanno spostato inesorabilmente il baricentro del processo verso la fase delle indagini preliminari. In questo contesto si sono rafforzati i poteri del pubblico ministero complice una scelta legislativa che, volendo escludere il ritorno all'istruzione, aveva creato un giudice garante ma privo di poteri o comunque debole processualmente e che, tuttavia, si sperava autorevole. Senza considerare la presenza dell'inarrestabile avanzata del doppio binario e della presenza del rito di assoluta matrice inquisitoria del procedimento di prevenzione, il processo ordinario ha ormai assunto connotati precisi: espansione incontrollata dei poteri del pubblico ministero amplificati dalla cassa di risonanza dell'informazione. Si tratta di attività che si estrinseca in relazione ai tempi, alla qualificazione del fatto, alle attività espletabili, nella consapevolezza del loro impatto nella società e nell'uso dibattimentale. La consapevolezza di questi elementi da parte della difesa conduce ad una scelta tra due alternative. Puntare sulla prescrizione o sui riti deflattivi. Chiusa la strada della prescrizione, restano i riti che infatti il Legislatore punta ad incrementare. Si aggiunga a tutto questo lo spostamento che la riforma del giusto processo ha fatto, trasferendo le garanzie dall'oralità al contraddittorio che può essere espletato in tutte le fasi ed anche in altri processi favorendo la circolazione probatoria. È evidente in questo contesto che la difesa solleciti garanzie nella fase delle indagini ove, come si è detto, si è voluto espressamente, per la scelta del sistema bifasico, un giudice non forte ed una difesa attendista. E ora inevitabile richiedere precise garanzie, sotto vari profili, nella fase investigativa: conoscenza tempestiva della pendenza del procedimento in corso, diritti difensivi sotto vari profili ma soprattutto la richiesta di una più incisiva presenza del giudice garante. Un drammatico ritorno al passato, al garantismo inquisitorio, contrassegnato plasticamente dalle aule vuote dei dibattimenti a distanza. |