Il consenso dell'avente diritto nelle attività sportive violente

Sergio Beltrani
11 Marzo 2016

È stata particolarmente controversa in giurisprudenza la possibile rilevanza penale (sub specie di lesioni colpose) delle lesioni provocate agli antagonisti nel corso di competizioni sportive, in relazione alla causa di giustificazione del consenso dell'avente diritto.
Abstract

È stata particolarmente controversa in giurisprudenza la possibile rilevanza penale (sub specie di lesioni colpose) delle lesioni provocate agli antagonisti nel corso di competizioni sportive, in relazione alla causa di giustificazione del consenso dell'avente diritto.

Il problema viene di seguito esaminato distinguendo tra i vari tipi di competizione e tra le principali discipline sportive.

Lesioni provocate nel rispetto delle regole del gioco

Nel caso di lesioni provocate senza violazione della disciplina sportiva, difetta la tipicità del fatto doloso o colposo: il responsabile dell'evento lesivo che abbia rispettato le regole del gioco, il dovere di lealtà nei confronti dell'avversario e l'integrità fisica di costui, non è, pertanto, penalmente perseguibile, per difetto di tipicità della condotta, a meno che non abbia travalicato i limiti di ciò che è consentito (si pensi al calciatore che, senza alcuna necessità, abbia sferrato un calcio fortissimo al pallone colpendo intenzionalmente un avversario che si trovi in posizione di pericolo).

Lesioni provocate in violazione delle regole del gioco

Con riferimento alle lesioni provocate per effetto di condotte volontarie, poste in essere in violazione delle regole del gioco ma per finalità miranti al conseguimento del risultato sportivo, si ritiene che il fatto-reato (questa volta corrispondente a quello tipico) sia scriminato dall'esercizio dell'attività sportiva.

Detta scriminante (formalmente non prevista dall'ordinamento) è talora desunta dalla combinazione tra l'affermazione del diritto ex art. 51 c.p. dell'agente ad esercitare l'attività sportiva (considerata socialmente utile e, come tale, autorizzata) e del consenso dell'avversario ex art. 50 (che può ritenersi espresso per il solo fatto della sua partecipazione all'attività e sempre con il limite del rispetto delle regole del gioco).

La giurisprudenza configura, nella fattispecie, una causa di giustificazione non codificata, fondata sull'analogia, da ritenere consentita perché in bonam partem (ma su tale affermazione va registrato il dissenso di parte della dottrina, che non ammette tale forma di analogia, privilegiando l'esigenza di certezza giuridica posta a fondamento del principio di tassatività): l'esercizio di attività sportiva costituisce una causa di giustificazione, non codificata, in base alla quale per il soddisfacimento dell'interesse generale della collettività a che venga svolta attività sportiva per il potenziamento fisico della popolazione, come tale tutelato dallo Stato, è consentita l'assunzione del rischio della lesione di un interesse individuale relativo all'integrità fisica. Tale esimente presuppone in ogni caso che non sia travalicato il dovere di lealtà sportiva, nel senso che devono essere rispettate le norme che disciplinano ciascuna attività e che l'atleta non deve esporre l'avversario ad un rischio superiore a quello consentito in quella determinata pratica ed accettato dal partecipante medio (Cass. pen., Sez. IV, n. 2765/2000). La giustificazione di questa impostazione fonda sul principio del c.d. rischio consentito (Cass. pen., Sez. IV, n. 20595/2010).

Lo svolgimento di attività sportive può costituire causa di giustificazione unicamente con riguardo alle condotte che abbiano offeso l'integrità fisica o morale di soggetti coinvolti, come partecipanti nella medesima attività sportiva e l'effetto scriminante può riguardare soltanto quell'attività che risulti strettamente connessa, con riguardo al profilo soggettivo, alle finalità del gioco (Cass. pen., Sez. III, n. 33864/2007, che ha escluso l'applicabilità della scriminante in favore di un dirigente e di un calciatore di una società sportiva resisi responsabili di atti violenti in danno degli avversari, iniziati sul campo da gioco e proseguiti negli spogliatoi).

Lesioni provocate con condotte contrarie od estranee alle finalità del gioco

La cosciente violazione della regola sportiva di comportamento finalizzata al conseguimento del risultato sportivo non va però confusa con la condotta violenta coscientemente diretta a colpire l'avversario ma non finalizzata al conseguimento del predetto risultato (Cass. pen., Sez. IV, n. 20595/2010, per la quale, inoltre, è estranea alla copertura del rischio consentito la condotta di gioco che si manifesti come assolutamente sproporzionata - per es. il difensore per fermare l'avversario lo travolge violentemente incurante delle conseguenze che possono derivare dall'impatto - o che appaia, sia pure ad una superficiale valutazione ex ante, idonea a ledere l'integrità fisica dell'avversario - per es. lo sgambetto volontario di un giocatore in corsa -. In questi casi non si rientra più nell'azione sportiva, pur dannosa, ma in una fattispecie nella quale non esiste la giustificazione dell'atto che si rivela esorbitante rispetto alle finalità del gioco e l'agente deve essere chiamato a rispondere delle conseguenze della sua azione sotto il profilo colposo (nel caso di violenza sproporzionata rispetto alle finalità del gioco ed estranea a principi di lealtà e correttezza)).

Le lesioni provocate da colpi inferti volontariamente non sono, quindi, scriminate se la condotta è estranea alle finalità del gioco, il che si verifica, per es., quando l'azione lesiva sia posta in essere al di fuori dell'azione di gioco (si può fare l'esempio del calcio inferto ad un avversario in una zona del campo estranea all'azione) (Cass. pen., Sez. IV, n. 20595/2010: quest'ultima decisione ha escluso che rientrasse nell'ambito del rischio consentito la condotta dell'imputato il quale, nel corso di un incontro di calcio del campionato dilettanti, a gioco fermo, non aveva frenato tempestivamente il suo slancio, ed aveva tentato di sferrare un calcio al pallone che si trovava molto vicino al braccio di un avversario finito a terra, colpendo – anche per la situazione del campo, fangoso, il che rendeva particolarmente precario l'equilibrio - l'avversario - cui aveva cagionato la frattura dell'ulna -, osservando che in questo caso non vi era stata la violazione di una regola di gioco finalizzata al conseguimento del risultato dell'azione, ma unicamente un intervento vietato sia perché il gioco era sospeso sia perché l'intervento del giocatore, malgrado la vicinanza della mano del giocatore a terra, costituiva grave imprudenza che travalicava le finalità del gioco e della quale erano prevedibili effetti lesivi).

Applicazioni giurisprudenziali

La disamina di alcune applicazioni giurisprudenziali relative a discipline ampiamente praticate potrà chiarire la portate pratica di tali affermazioni di principio.

Con riguardo al gioco del calcio, è stata esclusa l'applicabilità della scriminante del “rischio consentito” in materia sportiva, in un caso nel quale, durante un incontro, l'imputato aveva colpito l'avversario con un pugno al di fuori di un'azione ordinaria di gioco, trattandosi di dolosa aggressione fisica per ragioni avulse dalla peculiare dinamica sportiva, considerato che nella disciplina calcistica l'azione di gioco è quella focalizzata dalla presenza del pallone ovvero da movimenti, anche senza palla, funzionali alle più efficaci strategie tattiche (blocco degli avversari, marcamenti, tagli in area et c.) e può ricomprendere indiscriminatamente tutto ciò che avvenga in campo, sia pure nei tempi di durata regolamentare dell'incontro (Cass. pen., Sez. V, n. 42114/2011).

Rigore ancor maggiore si impone in relazione al gioco del calcetto, al cui contenuto regolamentare è assolutamente estranea la violenza fisica (Cass. pen., Sez. V, n. 5589/1993).

Con riguardo al basket, si è ritenuto che non potesse ritenersi scriminato il comportamento del giocatore che aveva sferrato un pugno ad un avversario, attingendone la mandibola destra (Cass. pen., Sez. V, n. 1951/2000).

Le competizioni amichevoli od amatoriali

L'operatività del consenso scriminante presuppone che il rischio di subire lesioni (colpose) nel corso della competizione sportiva sia stato preventivato ed accettato dal partecipante: è stata, pertanto, esclusa la configurabilità della scriminante nei casi in cui le caratteristiche amichevoli od amatoriali della competizione rendano non prevedibile il verificarsi di lesioni gravi, in quanto tali eccedenti l'entità delle lesioni normalmente accettabili nel predetto contesto (Cass. pen., Sez. V, n. 44306/2008, in fattispecie di lesioni gravi con effetti permanenti, derivate da uno “sgambetto” durante una partita di calcio tra compagni di scuola).

È stata rigettata la domanda di risarcimento proposta dal soggetto che, in una contesa amichevole di braccio di ferro, aveva riportato lesioni al braccio, per il rilievo che l'incontro si era svolto correttamente, e le lesioni erano state procurate dall'azione sul braccio delle forze muscolari contrapposte, caratteristica ineluttabile dello svolgimento di quel tipo di attività sportiva (Cass. civ., Sez. III, n. 20597/2004; in motivazione, la S.C. ha anche osservato che, qualora i praticanti di un'attività sportiva si siano costituiti in federazione sportiva ed all'interno di essa si siano dati delle regole per lo svolgimento delle competizioni ufficiali, ciò non preclude la possibilità di svolgere legittimamente tale attività in forma amichevole e senza il rispetto delle regole dettate per le competizioni ufficiali, qualora non si tratti, come nel caso di specie, di attività intrinsecamente pericolosa; né il mancato rispetto in quel contesto delle regole fissate per le competizioni ufficiali diviene autonoma fonte di responsabilità in capo ai partecipanti alla gara, dovendo invece il parametro valutativo della responsabilità per le lesioni riportate da uno dei contendenti essere costituito dall'aver seguito o meno le regole della normale prudenza).

In conclusione

In sintesi, può dirsi che è la finalizzazione allo sviluppo del gioco che contraddistingue l'atto lesivo doloso da quello in cui è voluto soltanto il contrasto, sia pure irregolare, dell'avversario (Cass. pen., Sez. IV, n. 20595/2010).

Residua il problema dell'individuazione del possibile ambito di responsabilità colposa non scriminata, in presenza di violazioni delle regole sportive: se l'azione è finalizzata allo sviluppo del gioco la violazione della regola disciplinare, anche se volontaria, non è sufficiente a concretizzare una responsabilità per colpa proprio in base al principio del rischio consentito: ogni giocatore sa, e accetta preventivamente, che egli e i suoi avversari possono violare le regole del gioco creando il rischio di eventi dannosi. Risulta, pertanto, estranea alla scriminate in esame la condotta di gioco che si manifesti come assolutamente sproporzionata (per es. il difensore per fermare l'avversario lo travolge violentemente incurante delle conseguenze che possono derivare dall'impatto) o che appaia, sia pure ad una superficiale valutazione ex ante, idonea a ledere l'integrità fisica dell'avversario (per es. lo sgambetto volontario di un giocatore in corsa). In questi casi non si rientra più nell'azione sportiva, pur dannosa, ma in una fattispecie nella quale non esiste la giustificazione dell'atto che si rivela esorbitante rispetto alle finalità del gioco) (Cass. pen. Sez. IV, n. 20595/2010).

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