Come cambia la motivazione della sentenza con la Riforma Orlando

Alessandra Bassi
12 Luglio 2017

Con la riforma Orlando, il Legislatore interviene sulla disciplina della motivazione della sentenza riscrivendo ex novo la lett. e) del comma 1 dell'art. 546 del codice di rito. La norma di nuovo conio delinea in termini più rigorosi la struttura ed i contenuti del provvedimento e, sia pure indirettamente, impartisce alcune indicazioni di metodo, tracciando il percorso logico-giuridico che il giudice deve seguire per motivare la propria decisione.
Abstract

Con la riforma Orlando, il Legislatore interviene sulla disciplina della motivazione della sentenza riscrivendo ex novo la lett. e) del comma 1 dell'art. 546 del codice di rito. La norma di nuovo conio delinea in termini più rigorosi la struttura ed i contenuti del provvedimento e, sia pure indirettamente, impartisce alcune indicazioni di metodo, tracciando il percorso logico-giuridico che il giudice deve seguire per motivare la propria decisione.

Premessa

La motivazione della sentenza costituisce il cuore del provvedimento, il luogo ove il giudice dà contezza dell'iter logico-giuridico seguito per pervenire alla decisione. Nel nostro sistema processuale, la motivazione costituisce l'indefettibile corollario del principio del libero convincimento del giudice. Il giudicare implica necessariamente un margine di scelta in ordine alla scelta dei dati conoscitivi da privilegiare ai fini della decisione ed alla regola alla luce della quale valutarli: è nell'accertamento del fatto che si rinviene l'espressione più pura del libero convincimento giudiziale, il momento di massima fiducia data dall'ordinamento all'esercizio della funzione giurisdizionale. Al più ampio affidamento risposto dall'ordinamento nell'esercizio della giurisdizione fungono nondimeno da contrappeso, da un lato, il metodo dialettico di acquisizione delle prove (nel contraddittorio delle parti); dall'altro lato, la razionalizzazione dell'attività decisionale del giudice e l'effettiva possibilità di controllo. Controllo che si espleta tanto in ambito endoprocessuale, ad opera delle parti del processo e quindi dei giudici dell'impugnazione; quanto in ambito extraprocessuale, da parte dell'opinione pubblica, cioè del popolo in nome del quale il giudice amministra la giustizia ai sensi dell'art. 101 Cost.

Ed invero, l'art. 192, comma 1, c.p.p. – nel disporre che il giudice valuta la prova – conferisce al giudice un potere discrezionale di apprezzamento delle prove (ovviamente, purché acquisite/assunte nel rispetto dei criteri fissati dalla legge) svincolato da parametri legislativi d'interpretazione predeterminati, dunque basandosi sulla sua sola esperienza. Nondimeno, nel prevedere che debba dare conto nella motivazione dei risultati acquisiti e dei criteri adottati, la norma raccorda necessariamente la libera valutazione alla motivazione, imponendo al giudice di esplicitare i criteri e le massime d'esperienza applicati nel valutare le prove e ricostruire i fatti ma altresì di giustificare logicamente il risultato cui sia pervenuto. La motivazione garantisce quindi che il potere discrezionale del giudice ed il suo libero convincimento non trasmodino nell'arbitrio, illuminando il processo logico giuridico sfociato nella decisione giudiziaria, consentendo un'effettiva verifica circa la correttezza della ricostruzione storico fattuale della vicenda sub iudice ed, in particolare, la ragionevolezza della scelta della massima d'esperienza utilizzata ed alla razionalità del ragionamento logico seguito nell'applicare la regola inferenziale al dato di fatto e pervenire così al risultato processualmente rilevante.

La riforma

Con il comma 52 dell'art. 1 della legge 103/2017, il Legislatore ha riscritto ex novo la lett. e) del comma 1 dell'art. 546 c.p.p. disponendo che la sentenza deve contenere:

«la concisa esposizione dei motivi di fatto e di diritto su cui la decisione è fondata, con l'indicazione dei risultati acquisiti e dei criteri di valutazione della prova adottati e con l'enunciazione delle ragioni per le quali il giudice ritiene non attendibili le prove contrarie, con riguardo:

  1. all'accertamento dei fatti e delle circostanze che si riferiscono all'imputazione e alla loro qualificazione giuridica;
  2. alla punibilità e alla determinazione della pena, secondo le modalità stabilite dal comma 2 dell'articolo 533, e della misura di sicurezza;
  3. alla responsabilità civile derivante dal reato;
  4. all'accertamento dei fatti dai quali dipende l'applicazione di norme processuali».

Da un lato, il precetto dell'art. 546, comma 1, lett. e) c.p.p., viene reso uniforme al disposto dell'art. 192, comma 1, c.p.p. imponendo al giudice di esplicitare i criteri adottati nel valutare le prove ed i risultati acquisiti; dall'altro lato, vengono circostanziati gli specifici aspetti della regiudicanda sui quali il giudice è tenuto ad illustrare l'iter inferenziale seguito per pervenire alla decisione. Si tratta di regole che, nel disciplinare la struttura e la tecnica di redazione della sentenza – precisandone i contenuti ineludibili –, si traducono in indicazioni di metodo, là dove impongono al giudice – nella prospettiva di dover mettere per iscritto la giustificazione del proprio decisum con esplicitazione di quegli snodi motivazionali predeterminati – di verificare, già nella fase decisionale, la tenuta della soluzione prescelta attraverso un attento esame della correttezza della regola di giudizio seguita, la possibilità di enunciare in termini chiari e precisi il risultato decisorio e la plausibilità della ricostruzione alternativa offerta appunto dalle prove contrarie.

L'intento dichiarato della novella è quello di rafforzare gli elementi ed il percorso della motivazione, consentendo di potenziare le possibilità di controllo sul discorso giustificativo della decisione ad opera delle parti processuali e del giudice superiore nonché dell'opinione pubblica. La riscrittura della disposizione in oggetto si pone, d'altronde, su di una linea di continuità rispetto all'intervento riformatore attuato con la legge 47/2015 in tema di tessuto argomentativo dei provvedimenti cautelari personali ex art. 292 c.p.p., con il quale si è previsto che l'ordinanza coercitiva contenga non più soltanto l'esposizione ma anche l'autonoma valutazione dei presupposti fondanti la limitazione della libertà personale (gravi indizi ed esigenze cautelari), con la necessaria precisazione delle ragioni per le quali il giudice abbia ritenuto non rilevanti gli elementi forniti dalla difesa.

La concisa esposizione delle ragioni della decisione

Innanzitutto, va notato come il Legislatore del 2017 abbia confermato la previsione contenuta nella norma previgente secondo la quale la motivazione della sentenza deve contenere la concisa esposizione dei motivi di fatto e di diritto su cui la decisione è fondata. Risulta così confermata l'importante indicazione di metodo, ribadita anche dalla giurisprudenza di legittimità, in forza della quale l'onere di motivazione della sentenza può ritenersi esaustivamente adempiuto anche con una succinta esposizione dei motivi di fatto e di diritto che la sorreggono. Come la Suprema Corte ha autorevolmente affermato, ai fini della completezza e dunque della legittimità della motivazione rilevano difatti, non il numero o la lunghezza delle proposizioni destinate a tale scopo, bensì il contenuto, la chiarezza e la validità argomentativa delle stesse, derivante dalla logicità delle connessioni e delle inferenze valutative (Cass. pen., Sez. VI, 26 febbraio 2009, n. 14407, P.G. in proc. Pasquali). La sentenza deve dunque coniugare l'esaustività e l'adeguatezza delle spiegazioni date a sostegno del decisum con la sinteticità della esposizione.

Risultano così avvalorate le indicazioni trasfuse nel decreto del Primo Presidente della Corte di cassazione n. 68 del 2016, là dove – nel prevedere l'adozione della motivazione c.d. semplificata nella stesura delle sentenze penali della Corte di cassazione che non implichino l'esercizio della funzione nomofilattica ovvero che riguardino questioni non semplici o già oggetto di principi consolidati - ha chiarito come le modalità di redazione della sentenza abbiano un diretto riverbero sui tempi di definizione dei procedimenti e come la concisione della sentenza risponda ai requisiti propri della sentenza, secondo quanto disposto dagli artt. 546 c.p.p. e 173 disp. att. c.p.p. (in tema di indicazione dei motivi d'impugnazione). Sinteticità della motivazione che, d'altronde, trova pieno riconoscimento anche nel processo civile, come riformato con la legge 18 giugno 2009, n. 69 e nel processo amministrativo, ai sensi dell'art. 3 del codice relativo.

La struttura della decisione

Dopo avere confermato il criterio della concisione, il riformatore ha previsto che la trama argomentativa della sentenza non possa prescindere da alcuni passaggi e contenuti predeterminati. Vengono recepite e codificate le indicazioni del “diritto vivente”, come espresso dalla giurisprudenza della Suprema Corte in tema di sindacato del vizio della motivazione, secondo cui il discorso giustificativo della decisione può ritenersi legittimo allorquando il giudice dia conto di avere esaminato tutti gli elementi a disposizione, abbia fornito una corretta interpretazione di essi, dando esaustiva e convincente risposta alle deduzioni delle parti, ed abbia esattamente applicato le regole della logica nello sviluppo delle argomentazioni che hanno giustificato la scelta di determinate conclusioni a preferenza di altre (ex plurimis Cass. pen., Sez. unite, 13 dicembre 1995, n. 930, Clarke). La motivazione deve dunque fornire una spiegazione plausibile e logicamente corretta delle scelte operate dal giudice così da consentire la verifica circa la correttezza dei criteri di metodo utilizzati nel valutare le risultanze processuali e la razionalità dei canoni logici seguiti nel ragionamento (Cass. pen., Sez. VI, 13 febbraio 2007, n. 16532, Cassandro).

In particolare, la disposizione innovata impone al giudice di dare contezza dei risultati acquisiti, dei criteri di valutazione della prova adottati e delle ragioni per le quali abbia ritenuto non attendibili le prove contrarie in relazione a temi specifici, concernenti, sul versante sostanziale, la ricostituzione del fatto anche nei suoi elementi circostanziali e la sua qualificazione giuridica, la punibilità dell'imputato, la determinazione della pena e della misura di sicurezza nonché l'eventuale responsabilità civile; sul versante procedurale, i fatti dai quali dipende l'applicazione di norme processuali.

Giova rimarcare come, con la riscrittura del testo dell'art. 546, comma 1, lett. e), il Legislatore abbia eliminato dalla disposizione il riferimento alla necessaria indicazione delle prove poste a base della decisione stessa. Si è con ciò inteso sbarrare la strada a facili scorciatoie argomentative talvolta percorse nella prassi e censurate dalla costante giurisprudenza di legittimità, impedendo di ritenere assolto l'onere di motivazione con la sola ed acritica elencazione delle fonti di prova della colpevolezza dell'imputato utilizzate ai fini del giudizio, senza alcuna valutazione critica ed argomentata degli elementi probatori acquisiti al processo (ex plurimis Cass. pen., Sez. III, 13 ottobre 2015, n. 49168, Santucci). Il baricentro della motivazione si sposta dunque dalla indicazione delle fonti di conoscenza alla necessaria esplicitazione e valorizzazione delle regole utilizzate per la loro valutazione, degli approdi conoscitivi raggiunti sulla scorta delle prove poste a fondamento del giudizio nonché delle ragioni per le quali non sono state utilizzate le prove contrarie.

Secondo il disposto della lett. e) dell'art. 546 c.p.p., il giudice deve, innanzitutto, dare contezza di quale risultato conoscitivo abbia ritenuto acquisito all'esito della valutazione delle prove alla luce del suo prudente apprezzamento, cioè di quale ricostruzione storico fattuale o tesi – fra le plurime ipotizzabili o prospettate – abbia reputato unica corretta e condivisibile. In caso di esito di condanna, siffatto risultato non potrà che conformarsi al canone di giudizio della colpevolezza al di là di ogni ragionevole dubbio, codificato all'art. 533 c.p.p.

Il giudice è inoltre tenuto ad esplicitare i criteri di valutazione della prova cheabbia seguito per pervenire a quel determinato esito decisorio. Criteri che, in tema di valutazione della prova dichiarativa e indiziaria non potranno non tenere conto, sia pure nell'alveo del libero convincimento giudiziale, delle regulae iuris delineate dalla consolidata giurisprudenza di legittimità in materia, con particolare riguardo all'elaborazione concernente la valutazione e dunque l'utilizzabilità delle dichiarazioni rese dagli imputati dello stesso reato o in procedimento connesso e dalla persona offesa. In caso di prova scientifica, il giudice di merito dovrà esplicitare l'approccio metodologico seguito nel scegliere l'una piuttosto che l'altra conclusione tecnico-scientifica, anche quando si tratti di tesi prospettate dai consulenti delle parti in assenza di una perizia d'ufficio. Ancora, il giudice dovrà specificare la regola della logica o la massima di esperienza seguita nel valutare il compendio probatorio, così da consentire di verificare se la regola utilizzata risponda effettivamente all'esperienza comune, se sia cioè conforme agli orientamenti diffusi nella cultura e nel contesto spazio-temporale della decisione, o se piuttosto costituisca una semplice congettura, cioè un'ipotesi fondata su di una mera possibilità, non verificata in base all'id quod plerumque accidit ed insuscettibile, quindi, di verifica empirica (Cass. pen., Sez. VI, 27 novembre 2013, n. 1686, Keller).

Nella nuova formulazione della norma in commento viene confermato lo snodo motivazionale - e quindi logico – imprescindibile già presente nella disposizione previgente, in forza del quale il giudice ha l'onere di illustrare le ragioni per le quali abbia ritenuto non attendibili le prove contrarie acquisite al processo. In altri termini, il giudice deve evidenziare i motivi per i quali abbia ritenuto che la prova contraria non consenta di superare la forza dimostrativa della prova a carico, prescrizione che va a rafforzare la regola di giudizio compendiata nella formula oltre ogni ragionevole dubbio prevista dall'art. 533, comma 1, c.p.p., là dove impone di pronunciare condanna alla sola condizione che il dato probatorio acquisito lasci fuori soltanto ipotesi ricostruttive del tutto remote, in quanto pur astrattamente formulabili e prospettabili, nella fattispecie concreta, risultano prive del benché minimo riscontro nelle emergenze processuali (Cass. pen., Sez. II, 19 dicembre 2014, n. 2548, Pg in proc. Segura).

I temi della motivazione

Quanto ai contenuti della motivazione, la disposizione novellata prevede, innanzitutto, che il provvedimento debba dare esaustiva ragione del ragionamento seguito dal giudice nell'accertamento del fatto, cioè nella ricostruzione storico fattuale della vicenda, anche per quanto attiene agli elementi circostanziali.

Il giudice deve poi argomentare la qualificazione giuridica del fatto. Secondo il principio generale del iura novit curia codificato al comma 1 dell'art. 521 c.p.p., l'inquadramento giuridico della fattispecie concreta costituisce un indefettibile corollario dello ius dicere, essendo il giudice sempre tenuto a verificare che il fatto come contestato dal pubblico ministero – dominus esclusivo dell'azione penale – sia stato sussunto sotto la corretta ipotesi incriminatrice, allo scopo di assicurare che fatto e schema legale coincidano, in ossequio al principio di legalità. La doverosa precisazione dell'iter logico seguito dal giudicante nel dare al fatto una determinata qualificazione giuridica è strumentale a conferire effettività alla verifica sul punto e, dunque, a garantire la correttezza della medesima.

Il giudice deve quindi illustrare il ragionamento svolto in punto di punibilità dell'imputato, dovendo – a tale scopo – valutare la sussistenza dei presupposti per l'imputabilità dell'agente, cioè la sua capacità d'intendere e di volere al momento del fatto; il superamento delle soglie di punibilità per i reati che le prevedano nonché l'eventuale applicabilità della causa di non punibilità recentemente introdotta all'art. 131-bis c.p.

In caso di giudizio colpevolezza, il decidente dovrà esplicitare gli elementi valutati per la determinazione della pena nell'esercizio del suo potere discrezionale di quantificazione della sanzione penale tra il minimo e il massimo, ai sensi degli artt. 132 e 133 c.p. e dell'art. 533, comma 1, c.p.p. L'innovazione normativa, nel prescrivere una motivazione espressa in punto di determinazione della pena, convalida l'orientamento giurisprudenziale secondo il quale, in caso di reato continuato, il giudice è tenuto a motivare con riguardo tanto alla pena base, quanto agli aumenti per la continuazione. Solo garantendo la conoscibilità dei criteri utilizzati e dell'iter seguito dal giudice per determinare gli aumenti per ciascun reato-satellite a norma del combinato disposto degli artt. 81, comma 2, c.p. e 533, comma 1, c.p.p. è, difatti, possibile rendere effettivi la successiva verifica in merito alla congruità della commisurazione della pena da parte del giudice del gravame nonché l'eventuale controllo di legittimità circa la non arbitrarietà o manifesta irragionevolezza della pena inflitta (Cass. pen., Sez. VI, 28 settembre 2016, n. 48009, Cocomazzi e altri; contra Cass. pen., Sez. II, 6 ottobre 2016, n. 50987, Aquila secondo cui è sufficiente che sia adeguatamente motivata la pena base).

Nel caso in cui ne ricorrano i presupposti di applicabilità, il giudice dovrà dare ragione del percorso logico giuridico che lo ha portato alla determinazione della misura di sicurezza. Giusta il dato sistematico e la ratio della disposizione, si deve ritenere che, con l'espressione determinazione, il Legislatore abbia inteso fare riferimento non soltanto al necessario corredo argomentativo in punto di commisurazione della durata della misura di natura personale o dell'ammontare del quantum della misura di sicurezza patrimoniale, ma anche alla necessaria enunciazione dei presupposti applicativi – dunque dell'an – delle misure di sicurezza tanto personali quanto patrimoniali, con particolare riguardo alla pericolosità sociale della persona o della res assoggettate alla misura.

Ove si pronunci in punto di responsabilità civile, il giudice dovrà esplicitare il ragionamento seguito per affermare sia l'an della responsabilità, sia e soprattutto il quantum debeatur. Il rafforzamento dell'onere di motivazione su tale aspetto della regiudicanda non potrà non tradursi di un incentivo per il giudice penale a pronunciare soltanto condanne generiche al risarcimento del danno, riservando al “competente” giudice civile la quantificazione dell'obbligazione risarcitoria.

Infine, nei casi in cui nel giudizio siano poste questioni di natura processuale, il decidente dovrà esplicitare i criteri seguiti e gli esiti raggiunti ai fini dell'accertamento dei fatti dai quali dipende l'applicazione di norme processuali.

L'applicazione della norma

La norma dell'art. 546, comma 1, lett. e), c.p.p. riguarda tutte le sentenze di merito rese a seguito di giudizio ordinario nonché – giusta l'espresso rimando contenuto nell'art. 442, comma 1,c.p.p. – quelle pronunciate all'esito del giudizio abbreviato.

La disposizione non trovainvece applicazione in caso di sentenza di patteggiamento, in relazione alla quale la giurisprudenza ritiene assolto l'obbligo di motivazione qualora il giudice dia – anche succintamente – atto di avere positivamente effettuato la valutazione sui temi specificamente indicati nell'art. 444c.p.p., id est sulla correttezza della qualificazione giuridica del fatto, dell'applicazione e comparazione delle circostanze prospettate dalle parti e della congruità della pena (Cass. pen., Sez. V, 25 gennaio 2000, n. 489, P.M. in proc. Cricchi; Cass. pen., Sez. IV, 13 luglio 2006, n. 34494).

Con l'entrata in vigore della nuova disposizione, resta ancora ammissibile la c.d. motivazione per relationem, sia pure alle condizioni ben delineate dalle Sezioni unite e, cioè, che il provvedimento richiamato sia idoneo a sorreggere la decisione assunta e sia conosciuto o comunque conoscibile dalla difesa e che il giudice abbia lasciato traccia visibile di avere compiuto un'effettiva e critica disamina dell'apparato argomentativo dell'atto richiamato e fatto proprio (Cass. pen., Sez. unite, 21 giugno 2000,n. 17, Primavera).

Va rimarcato come il difetto, anche assoluto di motivazione della sentenza di primo grado sia sempre sanabile dal Collegio d'appello che, investito di pieni poteri decisori, provvede, quando è necessario, a redigere la motivazione mancante (Cass. pen., Sez. III, 21 febbraio 1994, n. 4562 P.M. in proc. Marconi).

Deve ritenersi tuttora conforme a diritto l'affermazione di principio secondo la quale, ai fini del controllo di legittimità sul vizio di motivazione, le strutture giustificative delle sentenze di primo grado e d'appello vanno riguardate come un unico corpo argomentativo, allorquando i giudici del gravame, esaminando le censure proposte dall'appellante con criteri omogenei a quelli del primo giudice ed operando frequenti riferimenti ai passaggi logico giuridici della prima sentenza, concordino nell'analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a fondamento della decisione (Cass. pen., Sez. III, 16 luglio 2013, n. 44418, Argentieri; Cass. pen., Sez. III, 1 dicembre 2011, n. 13926). Nondimeno, quando le soluzioni adottate dal giudice di primo grado siano state censurate dall'appellante con specifiche argomentazioni, il giudice d'appello non può limitarsi ad aderire alla sentenza di primo grado, ma è tenuto a dare adeguata risposta agli specifici motivi d'impugnazione, incorrendo altrimenti nella violazione dell'obbligo di motivazione dettato dagli artt. 125, comma 3, c.p.p. e 111, comma 6, Cost. (Cass. pen., Sez. IV, 18 dicembre 2013,n. 6779, Balzamo).

È inoltre ammissibile il ricorso per cassazione per saltum del pubblico ministero avverso una sentenza assolutoria totalmente priva, anche graficamente, di motivazione, pur nell'obiettiva impossibilità di articolare specifici motivi di doglianza, essendo configurabile un concreto interesse a rimuovere un provvedimento decisorio idoneo a passare in giudicato, se non impugnato – qual è il dispositivo letto in udienza – che ha negato la pretesa punitiva dal medesimo azionata (Cass. pen., Sez. I, 23 settembre 2015, n. 48655, P.G. in proc. Hulderov).

In conclusione

Le modifiche apportate dalla Riforma Orlando in tema di motivazione della sentenza penale sono certamente apprezzabili là dove, nel delineare la struttura e gli snodi argomentativi indefettibili del provvedimento in linea con la migliore prassi giurisprudenziale, realizzano un felice equilibrio fra le esigenze di controllo dell'esercizio della giurisdizione e di salvaguardia – rispettivamente – del diritto di difesa e del principio di obbligatorietà dell'azione penale, da un lato, e le esigenze di efficienza della giustizia e di ragionevole durata del processo come realizzate scoraggiando la stesura di provvedimenti inutilmente ridondanti, dall'altro.

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