La diversa efficacia delle presunzioni tributarie nel giudizio penale

14 Marzo 2017

Qual è il valore da assegnare alle presunzioni legali tributarie nel giudizio penale? In linea generale, si può affermare che il nostro ordinamento non consente un'utilizzabilità sic et simpliciter in ambito penale delle numerose presunzioni operanti in ambito tributario ...

Qual è il valore da assegnare alle presunzioni legali tributarie nel giudizio penale?

In linea generale, si può affermare che il nostro ordinamento non consente un'utilizzabilità sic et simpliciter in ambito penale delle numerose presunzioni operanti in ambito tributario.

Ad una piena operatività nel processo penale di tali presunzioni ostano, invero, gli stessi principi fondamentali in materia di prove, e segnatamente i principi del libero convincimento del giudice (art. 192, comma 1, c.p.p.), della libertà della prova (art. 189 c.p.p.), della inesistenza di limiti legali alla prova (art. 193 c.p.p.), della valenza probatoria degli indizi soltanto se gravi, precisi e concordanti (art. 192, comma 2, c.p.p.).

Difatti, da tali principi – secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità – consegue che le presunzioni tributarie, seppur possano dar luogo ad una notizia di reato, non possono, poi, assumere, di per sé, valore di prova nel giudizio penale, nel quale vengono meno l'inversione dell'onere della prova e le limitazioni alla prova poste dalla legge tributaria. La non automatica trasferibilità in sede penale delle presunzioni tributarie non esclude, però, che esse possano acquistare il valore degli indizi, come tali valutabili dal giudice penale; per meglio dire, gli elementi evidenziati nella presunzione tributaria possono essere ripresi dal giudice con specifica ed autonoma valutazione, comparandoli con quelli eventualmente acquisiti aliunde (così Cass. pen., Sez. III, 22 novembre 2011, n. 7739; negli stessi termini, in precedenza, Cass. pen., Sez. III, 6 febbraio 2009, n. 5490; Cass. pen., Sez. III, 18 dicembre 2007, n. 5786; Cass. pen., Sez. III, 1 febbraio 1996, n. 2246).

In particolare, secondo la giurisprudenza più recente, le presunzioni legali previste dalle norme tributarie, pur non potendo costituire di per sé fonte di prova della commissione dei reati previsti dal d.lgs. 74 del 2000, hanno un valore indiziario sufficiente ad integrare il fumus commissi delicti idoneo, in assenza di elementi di segno contrario, a giustificare l'applicazione di una misura cautelare reale (cfr. sul punto ex multis: Cass. pen., Sez. III, 14 ottobre 2015, n. 25451; Cass. pen., Sez. III, 23 giugno 2015, n. 30890; Cass. pen., Sez. III, 16 gennaio 2015, n. 2006; Cass. pen., Sez. III, 23 gennaio 2013, n. 7078, fattispecie nella quale la suprema Corte ha ritenuto inutilizzabile la presunzione contenuta nell'art. 32 d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, che configura come ricavi sia i prelevamenti che i versamenti operati su conti correnti bancari).

È, dunque, da considerarsi legittimo il decreto di sequestro preventivo per equivalente disposto sulla base di presunzioni tributarie, potendo la decisione, in sede cautelare, fondarsi sulla sussistenza di elementi di natura meramente indiziaria (in tal senso cfr., da ultimo, Cass. pen., Sez. III, 21 gennaio 2016, n. 5733, la quale ha precisato che la presunzione prevista dall'art. 12 d.l. 78 del 2009 – secondo cui gli investimenti e le attività finanziarie detenute in Paesi a regime fiscale privilegiato, si presumono, ai soli fini fiscali e salvo prova contraria, costituiti mediante redditi sottratti a tassazione in Italia – costituisce elemento idoneo ad integrare il necessario presupposto del fumus commissi delicti del reato di cui all'art. 4, d.lgs. 74/2000, pur in presenza di elementi di segno contrario).

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