La riforma del processo di appello e l'istituto del concordato in appello

Cristina Ingrao
14 Luglio 2017

Con la legge 23 giugno 2017, n. 103, c.d. Rifroma Orlando, sono state introdotte modifiche volte a velocizzare i tempi del processo, con particolare riguardo alle impugnazioni. Interessanti sono le novità relative al processo di appello e il reinserimento dell'istituto del concordato in appello. La scelta legislativa di riforma sembra aver operato nel senso di una precisa opzione dogmatica, sottesa alla strutturazione del giudizio di appello come giudizio di controllo ...
Abstract

Il 4 luglio 2017 in Gazzetta ufficiale, n. 154 è stata pubblicata la legge 23 giugni 2017, n. 103 che modifica in maniera definitiva l'ordinamento penale, sia sostanziale che processuale, nonché l'ordinamento penitenziario.

Sul piano del diritto processuale, in particolare, sono state introdotte modifiche volte a velocizzare i tempi del processo, con particolare riguardo alle impugnazioni. Interessanti sono le novità relative al processo di appello e il reinserimento dell'istituto del concordato in appello.

La riforma del processo di appello. Premessa

Attraverso la recente legge di riforma (legge, 23 giugno 2017, n. 103) il Legislatore è intervenuto, come accennato, anche sul processo di appello. Con riguardo allo stesso, la scelta legislativa di riforma sembra aver operato nel senso di una precisa opzione dogmatica, sottesa alla strutturazione del giudizio di appello come giudizio di controllo, di verifica e di eliminazione degli eventuali errori contenuti nel dibattimento di primo grado e nel provvedimento conclusivo. Tale scelta appare essere il frutto della volontà di ricondurre il giudizio di appello ad un giudizio di critica ragionata su motivi tassativamente proposti, aventi ad oggetto quei punti decisivi della sentenza di primo grado, che parallelamente il legislatore si è sforzato di elencare nella nuova previsione dell'art. 546 c.p.p.

E così, si è, da un lato, specificato l'imprescindibile contenuto della motivazione della decisione di primo grado e, dall'altro, si è attribuito al giudizio di appello il ruolo di controllo dell'esattezza di tale motivazione, alla luce dei risultati probatori dell'istruzione dibattimentale già compiuta. In questo contesto si sono, poi, inseriti gli interventi giurisprudenziali delle Sezioni unite che, anticipatamente rispetto all'entrata in vigore della riforma, hanno sottolineato il carattere di giudizio critico e di controllo sui motivi tassativamente proposti del giudizio di appello, intervenendo sul tema della necessaria specificità dei motivi, così contribuendo a costruire un sistema che vede oggi la fase di secondo grado strutturata in forma e maniera differenti da quelle precedenti.

La nuova struttura del giudizio di appello

Con la legge 103/2017 – diretta, per ciò che ci interessa, alla razionalizzazione, deflazione ed efficacia delle procedure impugnatorie –, da un lato si prevede la costruzione di un modello legale di motivazione in fatto della decisione di merito, che si accorda con l'onere di specificità dei motivi di impugnazione, dall'altro, si interviene sui requisiti formali di ammissibilità dell'impugnazione, che vengono resi coerenti con tale modello.

In particolare, si è intervenuti con una modifica radicale dell'art. 546, comma 1, lett. e), c.p.p., disponendo che la sentenza debba contenere «la concisa esposizione dei motivi di fatto e di diritto su cui la decisione è fondata, con la indicazione dei risultati acquisiti e dei criteri di valutazione della prova adottati e con la enunciazione delle ragioni per le quali il giudice ritiene non attendibili le prove contrarie, con riguardo: 1) all'accertamento dei fatti e delle circostanze che si riferiscono alla imputazione e alla loro qualificazione giuridica; 2) alla punibilità e alla determinazione della pena, secondo le modalità stabilite dal comma 2 dell'art. 533 e della misura di sicurezza; 3) alla responsabilità civile derivante dal reato; 4) all'accertamento dei fatti dai quali dipende l'applicazione di norme processuali».

In sostanza, si riconosce e si rafforza il necessario parallelismo che sussiste fra motivazione della sentenza e motivo di impugnazione, richiedendo, per entrambi, un pari rigore logico-argomentativo. E, in tale ottica, la legge di riforma interviene sull'art. 581 c.p.p., anzitutto prevedendo in via generale che, a pena di inammissibilità, l'enunciazione dei vari requisiti sia specifica (laddove, invece, il previgente testo dell'art. 581 richiedeva la specificità per i soli motivi, non anche per i capi o punti della decisione censurati, né per le richieste); inoltre, si richiede l'enunciazione specifica anche «delle prove delle quali si deduce l'inesistenza, l'omessa assunzione e l'omessa o erronea valutazione»; infine, si dispone che l'enunciazione specifica delle richieste comprenda anche quelle istruttorie.

Oggi, quindi, poiché a seguito della riforma, l'atto di appello deve contenere, a pena di inammissibilità, i capi od i punti della decisione cui si riferisce, assume particolare rilevanza proprio la distinzione tra capi e punti.

Orbene, per capo si intende quella parte della decisione riguardante ciascun reato oggetto di autonomo rapporto processuale, ovvero ogni pronuncia autonoma che sarebbe stata idonea, da sola, ad esaurire il contenuto di una sentenza e che, trovandosi, invece, inglobata in una sentenza cumulativa, può essere scissa senza che cada il resto della sentenza.

La nozione di punto indica, invece, ogni singola statuizione che, nell'ambito di ciascun capo, sia suscettibile di autonoma valutazione e si presenti come idonea a divenire irrevocabile se non impugnata. I punti riguardano, in primo luogo, l'accertamento della responsabilità e la determinazione della pena, che rappresentano, in tal senso, due distinti punti della sentenza. A loro volta tali punti principali ne comprendono altri distinti, riguardanti, ad esempio, l'accertamento del fatto o l'attribuzione di esso all'imputato.

Pertanto, ad ogni capo corrisponde una pluralità di punti della decisione, ognuno dei quali segna un passaggio obbligato per la completa definizione di ciascuna imputazione, sulla quale il potere giurisdizionale del giudice non può considerarsi esaurito, se non quando siano stati decisi tutti i punti, che costituiscono i presupposti della pronuncia finale su ogni reato.

L'obbligo di specificità con riguardo alle prove

La riforma richiede, poi, l'enunciazione specifica, a pena di inammissibilità, «delle prove delle quali si deduce l'inesistenza, l'omessa assunzione o l'omessa o erronea valutazione».

In relazione alla omessa assunzione rilevano, quale ipotesi tipica, i difetti relativi alla prova contraria, che rivestono particolare rilevanza perché nella fase del secondo grado di giudizio possono essere dedotte violazioni della regola del contraddittorio sulla prova integrate nel corso del giudizio di primo grado, che il giudice di appello è tenuto a sanare.

Il primo caso profila un dovere di intervento del giudice di appello per riequilibrare il contraddittorio e assicurare il rispetto dei principi del giusto processo, riguardo ai quali il diritto alla prova contraria assume certamente rilevanza particolare.

Il tema della prova contraria sacrificata in primo grado trova spazio anche con riguardo al potere del giudice del dibattimento di revocare prove già ammesse, ritenendole superflue e irrilevanti. Tale valutazione sarà censurabile in appello ove si profili idonea a violare i principi del contraddittorio nel termine pregnante già detto.

In relazione alla inesistenza, omessa ed erronea valutazione della prova vanno richiamati quegli orientamenti giurisprudenziali che, pur se riferiti al giudizio di cassazione, hanno già chiarito i relativi concetti, ora estendibili al nuovo giudizio di appello; ciò con la precisazione che trattandosi di secondo grado di merito il giudice è tenuto a valutare compiutamente il materiale probatorio ove lo specifico vizio sia stato adeguatamente proposto con l'atto di impugnazione.

Il vizio di travisamento della prova dichiarativa, per essere deducibile in sede di legittimità, ma oggi anche nella fase di appello, deve avere un oggetto definito e non opinabile, tale da evidenziare la palese e non controvertibile difformità tra il senso intrinseco della singola dichiarazione assunta e quello che il giudice ne abbia inopinatamente tratto.

L'enunciazione specifica delle richieste e dei motivi

Secondo la nuova formulazione dell'art. 581, lett. c), c.p.p. anche le richieste devono essere specifiche, sia le richieste principali, che quelle secondarie, pena l'inammissibilità dell'istanza e l'assenza di vizio deducibile con il successivo ricorso per cassazione.

Con riguardo alle prime, la richiesta di assoluzione deve contenere l'esatta indicazione della formula in relazione alla quale viene prospettata l'esigenza di rivisitazione della sentenza di primo grado. Quanto alle richieste secondarie, le stesse vanno formulate in adeguato ordine subordinato e devono essere analiticamente espresse con riguardo a: circostanze; giudizio di bilanciamento; determinazione della pena; benefici della sospensione condizionale e della non menzione; conversione della pena detentiva; confisca ed altre misure di sicurezza.

L'atto di gravame deve poi contenere l'enunciazione specifica dei motivi, con riguardo alle ragioni di diritto ed agli elementi di fatto (lett. d)). Ciò risponde alla scelta legislativa di qualificare l'appello quale giudizio critico vincolato a fronte della decisione di condanna in primo grado.

L'obbligo riguarda indistintamente tutti i motivi, sia formulati in via principale, che in linea subordinata, riguardanti la valutazione delle circostanze operata dal primo giudice e le altre componenti della pena.

L'obbligo di specificità è direttamente proporzionale all'ampiezza e all'adeguatezza della motivazione di primo grado su tutti i punti della sentenza successivi il riconoscimento della responsabilità, alla luce del nuovo contenuto della pronuncia, così come ridelineato dall'art. 546 c.p.p., nuova formulazione. Naturalmente ove la motivazione del giudice di primo grado sia generica, l'obbligo di specificità appare diminuito.

La necessaria specificità dei motivi riguarda anche le eccezioni di nullità, con la conseguenza della applicabilità ora anche alla fase di appello; tale profilo della deduzione specifica deve essere valutato anche in relazione alla errata qualificazione giuridica dei fatti ed alla interpretazione delle norme applicate dal giudice di primo grado. Inoltre, la Suprema Corte ha anche chiarito come sia inammissibile l'atto di appello che si limiti a richiamare memorie, conclusioni od altri atti depositati nel corso del giudizio di primo grado e che, in tal modo, non contenga alcuna specifica contestazione delle ragioni adottate dal primo giudice a sostegno della decisione impugnata.

Le doglianze sulla inutilizzabilità degli atti

Interessante si rileva il profilo della ammissibilità di quelle doglianze che abbiano ad oggetto la dedotta inutilizzabilità di atti. Anche in tali casi, infatti, deve procedersi ad un'analitica indicazione degli atti di cui si denuncia la non utilizzabilità, non potendo l'atto di appello contenere indicazioni generiche e che rimandino al giudice di secondo grado la concreta individuazione dell'oggetto della doglianza, altrimenti rischiandosi una valutazione di inammissibilità per genericità della doglianza.

La mancanza, nell'atto di impugnazione, dei requisiti prescritti dall'art. 581 c.p.p. rende l'atto inidoneo ad introdurre il nuovo grado di giudizio ed a produrre, quindi, quegli effetti cui si ricollega la possibilità di emettere una pronuncia diversa dalla dichiarazione di inammissibilità.

La reintroduzione del nuovo concordato in appello

La recente riforma che ha interessato il processo penale, oltre ad intervenire sul processo di appello nelle modalità esposte, ha reintrodotto il c.d. concordato sui motivi di appello.

Tale istituto era stato abrogato nel 2008 e tale abrogazione era apparsa opportuna, alla luce dei risultati non sempre all'altezza delle aspettative legate alla deflazione del carico giudiziario. In particolare, la possibilità di accedere comunque ad una riduzione di pena nel giudizio di appello, attraverso un meccanismo rimesso all'accordo delle parti nella determinazione dell'entità della riduzione, aveva, a ben vedere, disincentivato la scelta di riti alternativi nella fase di primo grado.

Oggi, come accennato, attraverso la riforma in esame, è stata reintrodotta, con l'inserimento dell'art. 599-bis c.p.p., la possibilità per le parti processuali di accedere al concordato in appello.

Si tratta dello stesso istituto in origine previsto dai commi 4 e 5 dell'art. 599 c.p.p., che permette alle parti di concludere un accordo sull'accoglimento, in tutto o in parte, dei motivi d'appello, da sottoporre al giudice di secondo grado, che deciderà in merito, in camera di consiglio. Se l'accordo comporta una rideterminazione della pena, anche tale nuova pena dovrà essere concordata fra le parti e sottoposta al giudice. Se quest'ultimo decide di non accogliere il concordato tra le parti, ordina la citazione a comparire al dibattimento; la richiesta e la rinuncia perdono effetto, ma potranno essere riproposte nel dibattimento stesso.

Il Legislatore della riforma, inoltre, ha introdotto anche il comma 1-bis dell'art. 602 c.p.p., che prevede la possibilità di formulazione del concordato direttamente in dibattimento.

Secondo l'art. 599-bis, comma 4, c.p.p. è onere preciso del procuratore generale presso la Corte d'appello, previo adeguato confronto con i pubblici ministeri del suo ufficio e del distretto, indicare criteri idonei a orientare la valutazione dei pubblici ministeri rispetto al concordato sui motivi in appello.

La norma mira ad evitare disparità di trattamento a fronte di reati appartenenti alla stessa fascia di gravità ed induce, pertanto, a ritenere che il Legislatore ha gravato l'ufficio del procuratore generale del preciso compito di stabilire dei limiti minimi e massimi edittali di pena per ciascuna tipologia di reati all'interno della quale, poi, i singoli P.G. potranno agire nella espressione del consenso. I criteri che l'ufficio del procuratore generale dovrà valutare nel dettare le indicazioni circa l'entità della pena da concordare per ciascuna tipologia di reato sono costituiti, oltre che dalla stessa gravità dei fatti, anche dalla complessità del procedimento.

Si tratta di una previsione innovativa, che intende sottolineare come ad una maggiore complessità del procedimento, pur a fronte di reati di non particolare gravità, debbano necessariamente corrispondere minori diminuzioni di pena, rispetto a quelle inflitte all'esito del giudizio di primo grado, non risultando altrimenti utile per l'ordinamento la definizione anticipata del giudizio di appello. Come pare evidente l'assoluta novità della norma chiama i P.G. ad un utilizzo del potere di indicazione, oltre che prudente, anche partecipato, introducendo nel sistema una previsione che limita la discrezionalità del singolo rappresentante dell'accusa, al fine di garantire l'uniformità di trattamento e, quindi, l'uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Tuttavia, va precisato che, non prevedendosi alcuna sanzione né per il mancato utilizzo da parte del P.G. di tale preciso compito, né per il singolo P.M. in grado di appello che si discosti dalle indicazioni pur date, deve escludersi un suo effetto invalidante.

Pertanto, in primo luogo, l'entrata in vigore dell'art. 599-bis c.p.p. determina certamente la possibilità per le parti del giudizio di appello di accedere al concordato, anche se l'ufficio del procuratore generale non ha ancora dettato i criteri-guida cui gli appartenenti a quell'ufficio sono chiamati ad attenersi, con la conseguenza che sarà compito del P.G. incaricato del fascicolo o dell'udienza esprimere o meno il proprio consenso. Inoltre, pur in presenza dell'avvenuta indicazione dei criteri-guida da parte dell'ufficio del procuratore generale, il consenso prestato ad una pena in concreto differente da quelle indicate nei suddetti criteri-guida non è affetto da alcun vizio e la sentenza del giudice di appello che accordi il concordato formulato in questo senso non è ricorribile per cassazione sotto il profilo della violazione di legge, non ravvisandosi alcuna sanzione espressa di nullità nella violazione di quei criteri. Eventualmente il magistrato del pubblico ministero che abbia concordato pene inferiori a quelle indicate nei criteri-guida, dettati dall'ufficio di appartenenza, potrà essere chiamato a rispondere del fatto in via disciplinare.

La stessa disposizione, inoltre, al comma 2 prevede espressamente una serie di reati in cui l'applicazione di questo istituto è esclusa. Nella specie, si tratta dei procedimenti per i delitti di cui all'art. 51, comma 3-bis e 3-quater, c.p.p., per i reati sessuali, anche nei confronti di minori, nonché quelli contro coloro che siano stati dichiarati delinquenti abituali, professionali o per tendenza.

Lo scopo di tale riduzione operativa del campo del concordato è chiara: la gravità dei reati per cui si procede esclude la possibilità di ottenere uno sconto di pena nella fase di appello grazie al ricorso al concordato e ciò evidentemente per limitare i casi di riduzione indiscriminata delle sanzioni inflitte all'esito del giudizio di primo grado nella fase di appello, quanto meno per i delitti di maggiore allarme sociale. Ne deriva che, per espressa disposizione legislativa, i reati di mafia e terrorismo vengono esclusi dal capo operativo del concordato in appello.

Il concordato è stato reintrodotto come strumento deflattivo dei numerosi procedimenti pendenti in secondo grado ed, in questo senso, un ragionato ricorso al sistema può comportare effetti positivi, anche sotto il profilo della maggiore celerità dei procedimenti e dell'osservanza del canone costituzionale dettato dall'art. 111 Cost., in relazione alla ragionevole durata del processo.

Il presupposto essenziale del concordato è costituito dalla avvenuta presentazione tempestiva di un atto di appello ammissibile, ai sensi del nuovo art. 581 c.p.p., poiché altrimenti il giudice di appello potrà dichiarare l'inammissibilità del gravame proprio per difetto delle necessarie condizioni di specificità, senza neppure prendere in considerazione l'istanza di concordato. Inoltre, l'istanza potrà avere ad oggetto solo le ragioni di doglianza avanzate con i motivi principali e con i motivi nuovi, senza che risulti possibile raggiungere accordi su capi o punti della decisione non oggetto di impugnazione.

Quanto alle modalità di raggiungimento dell'accordo, il Legislatore della riforma, riproducendo integralmente le ipotesi antecedenti la soppressione dell'istituto, ha disciplinato due forme di concordato:

  • la prima, prevista dall'art. 599-bis c.p.p., si svolge in camera di consiglio e presuppone che, proposto appello, la parte (l'imputato) ottenga il consenso alla definizione in queste forme del procedimento dal P.G. competente;
  • la seconda ipotesi è quella prevista dall'art. 602, comma 1-bis, c.p.p. e, cioè, la presentazione direttamente a dibattimento da parte dell'imputato e del suo difensore della richiesta di concordato sulla quale il P.G. di udienza è chiamato ad esprimere il proprio consenso, ed il giudice conseguentemente a provvedere.

Tale seconda soluzione rischia, però, di vanificare o quantomeno ridurre l'effetto deflattivo, poiché rinvia ad un momento successivo la fissazione del giudizio e la citazione delle parti la presentazione della richiesta, senza ottenere quella anticipazione della definizione che, invece, l'art. 599-bis c.p.p. chiaramente richiama.

L'oggetto e le parti del nuovo concordato in appello

In relazione all'oggetto del nuovo concordato in appello, la riforma ha previsto che l'accordo fra le parti può riguardare tutto il contenuto o parte dell'atto di gravame, da intendersi chiaramente riferito alle plurime richieste che specificamente l'impugnante ha proposto.

Normalmente il concordato avrà ad oggetto solo una parte dei motivi di appello. Questa non solo è l'ipotesi più frequente ma è anche la realizzazione dell'obiettivo principale perseguito dalla riforma attraverso la reintroduzione del concordato, e cioè alleviare il lavoro delle Corti che, attraverso la rinuncia ai motivi principali, possono trovarsi facilitate nella definizione dei procedimenti.

Con la rinuncia ai motivi principali sulla responsabilità il concordato potrà avere ad oggetto le questioni relative alla mancata concessione di circostanze attenuanti, al giudizio di bilanciamento, all'avvenuto riconoscimento della recidiva, alla graduazione della pena, alla mancata applicazione dei benefici di legge, alla pena accessoria ovvero alle misure di sicurezza disposte in primo grado, tra le quali spicca la confisca.

Nei casi predetti, le parti sono tenute ad indicare la sanzione finale ovvero le altre statuizioni sulle quali si è raggiunto l'accordo modificativo della pronuncia impugnata.

Una ipotesi particolare riguarda la continuazione. Sul punto la Suprema Corte, nella vigenza della vecchia normativa, a cui si rifà quella di recente introduzione, ha statuito cheil motivo di gravame relativo alla continuazione, negata dal giudice di primo grado, è riconducibile nella previsione dell'articolo 599 c.p.p., ben potendo essere qualificato come motivo il cui oggetto è costituito dalla misura della pena, alla cui determinazione è strumentale l'accertamento del vincolo di continuazione. Con la conseguenza, pertanto, che è legittimo il c.d. patteggiamento in appello in relazione al motivo concernente il riconoscimento della continuazione.

Con riguardo alle parti dell'accordo, invece, la norma contiene nella seconda parte del primo comma l'espresso riferimento al P.M., da un lato, ed all'imputato ed alla persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria, dall'altro.

Quanto al primo, ci si riferisce al procuratore generale, che rappresenta la pubblica accusa nel giudizio di appello, ed al quale il procedimento è stato assegnato ovvero che è chiamato a trattare l'udienza ove l'istanza sia formulata ex art. 602, comma 1-bis, c.p.p.

Quanto ai secondi, invece, si tratta dell'imputato personalmente od a mezzo del procuratore speciale, trattandosi di un atto personalissimo, e della persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria.

La rinuncia all'impugnazione quale presupposto dell'accordo fra le parti

Affinché sia possibile procedere al c.d. concordato in appello, il presupposto richiesto dalla legge è la rinuncia all'impugnazione da parte di chi è legittimato a farlo.

Deve evidentemente trattarsi di una rinuncia parziale, mentre non può essere ammessa l'ipotesi del concordato parziale che mantenga la devoluzione al giudice di questioni oggetto dell'appello e non oggetto, invece, di concordato o rinuncia. In sostanza, quindi, va esclusa la possibilità di un concordato parziale su singoli capi o punti della decisione a fronte di un più complesso atto di gravame.

La giurisprudenza, inoltre, aveva opportunamente chiarito, nella vigenza del vecchio articolo 599 c.p.p., a cui il nuovo art. 599-bis c.p.p. si rifà, che l'istituto in esame è cosa diversa dal patteggiamento ex artt. 444-448 c.p.p., non comportando il primo, in contropartita dell'economia processuale, diminuzioni di pena o vantaggi premiali di alcun genere.

La rinuncia, però, può riguardare anche le doglianze in punto di statuizioni civili.

Esso, infine, non vincola il giudice, il quale, quando le parti concordano sull'accoglimento di tutti o di alcuni motivi con l'eventuale rinunzia ad altri, provvede in conformità, sempre che ritenga fondati i motivi sui quali c'è accordo e congrua la pena indicata dalle parti.

Tuttavia, il giudice, prima di delibare nel merito la richiesta, è chiamato a valutarne la piena correttezza formale e ciò vale, in primo luogo, con riferimento alla rinuncia parziale ai motivi di impugnazione. Occorre, infatti, ricordare, quanto alla rinuncia della parte privata e, quindi, dell'imputato, che il secondo comma dell'art. 589 c.p.p. si limita ad affermare laconicamente che le parti private possono rinunciare all'impugnazione, anche per mezzo di procuratore speciale. Orbene tale essendo la norma, la rinuncia anche parziale all'appello si profila quale uno degli atti personali che l'imputato potrà avanzare solo personalmente ovvero mediante procuratore speciale, non essendovi legittimato, invece, il suo difensore.

L'art. 602 c.p.p. e il procedimento per l'applicazione del concordato in appello

Il procedimento per l'applicazione dell'istituto di cui al nuovo art. 599-bis c.p.p. è disciplinato dall'art. 602 c.p.p., a cui è stato aggiunto, come già visto, un comma 1-bis.

Tale nuovo comma stabilisce, in particolare, che se le parti richiedono concordemente l'accoglimento dei motivi di appello, secondo quanto previsto dall'art. 599-bis c.p.p., il giudice, quando ritiene che la richiesta debba essere accolta, provvede immediatamente; in caso contrario, dispone la prosecuzione del dibattimento. Nella parte finale del comma si dispone, poi, che la richiesta e la rinuncia ai motivi non hanno effetto se il giudice decide in modo difforme dall'accordo. Tale inciso indica chiaramente che ove il giudice di secondo grado rigetti la richiesta, non può desumersi alcun dato da questa e, quindi, la richiesta di concordato formulata dall'imputato, pur rinunciando ai motivi di impugnazione sulla affermazione di responsabilità, non comporta alcuna ammissione del fatto.

L'istanza con la quale le parti richiedono concordemente l'accoglimento, in tutto o in parte, dei motivi di appello e indicano al giudice la pena è ammissibile anche se la richiesta è proposta per la prima volta nel dibattimento di appello, non occorrendo che sia stata già infruttuosamente proposta nella pregressa fase degli atti preliminari.

Il procedimento di realizzazione del concordato si svolge in camera di consiglio, come espressamente stabilito normativamente, ma tale previsione non è prevista a pena di nullità.

Inoltre, è inammissibile il ricorso per cassazione avverso la sentenza emessa all'esito del concordato, in quanto lo stesso è fondato sul rilievo dell'avvenuta celebrazione del processo in pubblica udienza, anziché in camera di consiglio, posto che la norma violata non è sanzionata con alcuna previsione di nullità, inutilizzabilità o decadenza, e manca l'interesse ad impugnare, offrendo comunque il dibattimento pubblico maggiori garanzie rispetto al rito camerale.

A ciò si aggiunga che, se respinta, l'istanza di patteggiamento in appello può essere riproposta con altro e differente contenuto.

Con riguardo ai poteri del giudice sulla richiesta di concordato, lo stesso può solo accogliere o rigettare la stessa, non può aumentare o diminuire la pena concordata, poiché tertium non datur.

La richiesta di concordato in appello nei procedimenti cumulativi con più imputati e più imputazioni

Per quanto attiene alla possibilità di richiedere il concordato in appello nei procedimenti cumulativi con più imputati e più imputazioni, deve ritenersi ammissibile che la richiesta sia formulata solo per taluni degli imputati.

In tal caso, il giudice d'appello potrà separare la posizione processuale del richiedente e definire il procedimento con separata sentenza, mentre il giudizio principale deve proseguire nei confronti dei rimanenti imputati. Separata la posizione degli imputati concordatari, il giudice, ove ritenga di accogliere la richiesta, pronuncia la relativa sentenza; viceversa, dispone ordinanza ove ritenga di respingere la richiesta, contestualmente procedendosi, in tale secondo caso, alla nuova riunione delle posizioni processuali ed alla trattazione unitaria del giudizio.

Tale seconda soluzione sembra preferibile a quella della definizione complessiva delle posizioni, che pure non si presta ad alcuna irregolarità, poiché in questa seconda ipotesi dovrebbe ammettersi che gli imputati concordatari rimangano passivamente presenti al giudizio, in attesa della definizione complessiva con un'unica sentenza conclusiva.

La tipologia di decisione del giudice

La decisione pronunciata dal giudice a seguito dell'accoglimento della richiesta di concordato assume sempre la forma di una sentenza, anche nel caso in cui il giudice provveda in camera di consiglio, ex art. 599 c.p.p. (applicabile ai sensi dell'art. 443 stesso codice, trattandosi di appello avverso decisione emessa a seguito di giudizio abbreviato), che pur rinvia alle forme di cui al precedente art. 127 c.p.p.

Per quanto attiene, invece, alla motivazione è stato precisato che nel procedimento che definisce il concordato in appello, la motivazione del giudice sull'assenza dei presupposti che legittimano l'operatività dell'art. 129 c.p.p., può essere anche implicita o meramente enunciativa, considerato che il giudice può pronunciare sentenza di proscioglimento solo se risultino dagli atti elementi idonei a superare la presunzione di colpevolezza che il legislatore ricollega alla formulazione di una richiesta di applicazione della pena o, comunque, manchi un quadro probatorio idoneo a definire il fatto come reato.

A fronte dell'ipotesi dell'accoglimento della richiesta concordata e della pronuncia di sentenza va, poi, analizzato il caso del rigetto della richiesta; invero, la norma ha mantenuto un potere discrezionale del giudice di appello che può portare alla reiezione dell'accordo concordato.

In tali casi, ove ritenga di non aderire alla richiesta, il giudice di appello pronuncia ordinanza con la quale, ai sensi degli artt. 599-bis, comma 3, c.p.p. e 602, comma 1-bis, c.p.p., ordina la citazione ovvero la prosecuzione del dibattimento. In caso di rigetto, l'ordinanza può essere implicita.

L'applicazione dell'istituto del concordato in appello comporta, infine, delle conseguenze in tema di pene accessorie. In generale, l'accordo tra le parti in esame può intendersi esteso implicitamente ai punti della sentenza impugnata in stretta correlazione con esso.

Avverso la sentenza di accoglimento del concordato è ammesso ricorso per cassazione, con dei limiti alle doglianze proponibili. Nella specie, l'accordo delle parti sull'accoglimento dei motivi di appello con rinuncia agli altri rende improponibili davanti al giudice di legittimità le questioni oggetto di motivi rinunciati, salvo quelle relative a nullità assolute.

Riforma della sentenza di assoluzione ed obblighi del giudice di appello

La riforma in esame è intervenuta anche nell'ambito operativo della rinnovazione istruttoria in appello, che trova la sua disciplina nell'art. 603 c.p.p., comma 3-bis, secondo cui «nel caso di appello del P.M. contro una sentenza di proscioglimento per motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa, il giudice dispone la rinnovazione dell'istruzione dibattimentale».

Il tema della riforma della pronuncia assolutoria di primo grado è stato profondamente modificato a seguito di recenti arresti della giurisprudenza della Corte di cassazione e della Corte Edu, e sullo stesso il Legislatore è, poi, intervenuto con il nuovo art. 603, comma 3-bis, c.p.p.

Tale tema viene ad assumere un collegamento essenziale con le questioni connesse al doppio grado di giurisdizione di merito, poiché, così come ora costruito, il giudizio di appello di riforma della decisione assolutoria viene ad assumere i caratteri propri più di un novum iudicium, che di un giudizio di mero controllo.

Proprio agli indirizzi giurisprudenziali nazionali ed europei il legislatore ha inteso conformarsi adottando il nuovo comma 3-bis dell'art. 603 c.p.p. Occorre, però, ricordare che anche la giurisprudenza nazionale aveva stabilito regole particolari per la pronuncia di appello di riforma della sentenza assolutoria di primo grado. La stessa ha elaborato tre punti fermi relativi ai requisiti che la motivazione del giudice di appello deve avere in tale caso:

  • la pretesa di un particolare rigore nell'adempimento dell'obbligo di motivazione, accentuando i richiami alla specificità e completezza della confutazione delle ragioni assolutorie;
  • l'estensione dei parametri del giudizio argomentativo con cui il giudice di appello deve confrontarsi, comprendendovi, oltre alla motivazione della sentenza di assoluzione, tutte le memorie e le deduzioni integrative comunque proposte dall'imputato assolto dopo la sentenza di primo grado e prima della sentenza di appello;
  • l'obbligo del giudice di appello di confrontarsi anche con eventuali violazioni di legge intervenute nel giudizio di primo grado in danno dell'imputato, da questi non dedotte per mancanza di interesse.

A tali compiti deve aggiungersi l'ulteriore obbligo del giudice di appello di esaminare tutte le richieste “subordinate”, svolte dall'imputato in sede di conclusioni della causa nel primo grado.

Gli interventi delle Sezioni unite sul tema della rinnovazione dibattimentale

Come accennato, l'intervento riformatore del legislatore è stato anticipato da alcune significative pronunce nazionali e sovranazionali. Con riguardo alle sentenze emesse dai giudici nazionali particolarmente rilevanti sono le sentenze delle Sezioni unite Patalano e Dasgupta.

Nella prima la questione della rinnovazione dell'istruzione dibattimentale in appello viene affrontata con riguardo al giudizio abbreviato.

Nella stessa si prevede che è affetta da vizio di motivazione, per mancato rispetto del canone di giudizio al di là di ogni ragionevole dubbio, la sentenza di appello che, su impugnazione del P.M., affermi la responsabilità dell'imputato, in riforma di una sentenza assolutoria emessa all'esito di un giudizio abbreviato non condizionato, operando una diversa valutazione di prove dichiarative ritenute decisive, senza che nel giudizio di appello si sia proceduto all'esame delle persone che abbiano reso tali dichiarazioni (Cass. pen., Sez. unite, 19 gennaio 2017, n. 18620).

Nella sentenza Dasgupta, invece, più ampiamente, si afferma che la necessità per il giudice di appello di procedere, anche d'ufficio, alla rinnovazione dibattimentale della prova dichiarativa nel caso di riforma della sentenza di assoluzione sulla base di un diverso apprezzamento dell'attendibilità di una dichiarazione ritenuta decisiva, non consente distinzioni a seconda della qualità soggettiva del dichiarante. Inoltre, la previsione contenuta nell'art. 6, par. 3, lett. d) della Cedu, relativa al diritto dell'imputato di esaminare o far esaminare i testimoni a carico ed ottenere la convocazione e l'esame dei testimoni a discarico, come definito dalla giurisprudenza della Corte Edu, (che costituisce parametro interpretativo delle norme processuali interne), implica che il giudice di appello, investito dall'impugnazione del P.M. avverso la sentenza di assoluzione di primo grado, anche se emessa all'esito del giudizio abbreviato, con cui si adduca un'erronea valutazione delle prove dichiarative, non può riformare la sentenza impugnata, affermando la responsabilità penale dell'imputato, senza avere proceduto, anche d'ufficio, ai sensi dell'art. 603, comma 3, c.p.p., a rinnovare l'istruzione dibattimentale, attraverso l'esame dei soggetti che abbiano reso dichiarazioni sui fatti del processo, ritenute decisive ai fini del giudizio di assoluzione di primo grado.

Infine, nel caso di riforma in appello del giudizio assolutorio di primo grado, fondata su una diversa valutazione della concludenza delle dichiarazioni ritenute decisive, l'impossibilità di procedere alla necessaria rinnovazione dibattimentale della prova dichiarativa preclude il ribaltamento del giudizio assolutorio ex actis, fermo restando il dovere del giudice di accertare sia la effettiva sussistenza della causa preclusiva alla nuova audizione, sia che la sottrazione all'esame non dipenda né dalla volontà di favorire l'imputato, né da condotte illecite di terzi, essendo in tali casi legittimo fondare il proprio convincimento sulle precedenti dichiarazioni assunte (Cass. pen., Sez. unite, 28 aprile 2016, n. 27620).

In conclusione

Questa riforma è il frutto di un lungo e travagliato iter legislativo, avviato più di tre anni fa. All'indomani della sua adozione emerge essenzialmente che le novità introdotte, soprattutto quelle relative alle impugnazioni, sono notevoli e tutte dirette ad una velocizzazione dei tempi processuali e ad una deflazione del carico giudiziario. L'auspicio è quello che, per tale via, si possa giungere anche ad un miglioramento qualitativo del sistema giustizia.

Guida all'approfondimento

I. Pardo – C. Ingrao, La riforma delle impugnazioni penali, Milano, 2017.

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