La parte civile al tempo di Facebook. Legittimazione dei prossimi congiunti non conviventi e oneri di allegazione

Michele Toriello
15 Maggio 2017

I prossimi congiunti della vittima del delitto di omicidio possono esercitare l'azione civile nel processo penale non solo iure hereditatis, quali successori universali, in relazione al depauperamento del patrimonio del de cuius ma anche iure proprio, per il ristoro dei danni morali e patrimoniali sofferti a causa della morte del familiare; in quest'ultimo caso non ha decisivo rilievo, ai fini del riconoscimento della legittimazione ad agire, il requisito della convivenza, reputandosi necessario e sufficiente che ...
Abstract

I prossimi congiunti della vittima del delitto di omicidio possono esercitare l'azione civile nel processo penale non solo iure hereditatis, quali successori universali, in relazione al depauperamento del patrimonio del de cuius ma anche iure proprio, per il ristoro dei danni morali e patrimoniali sofferti a causa della morte del familiare; in quest'ultimo caso non ha decisivo rilievo, ai fini del riconoscimento della legittimazione ad agire, il requisito della convivenza, reputandosi necessario e sufficiente che il soggetto che intende costituirsi fornisca la prova dell'esistenza di uno stabile e duraturo legame affettivo con la vittima.

Una recente pronuncia di legittimità (Cass. pen., Sez. IV, 9 febbraio 2017, n. 11428) offre lo spunto per riflettere sulle forme e sui contenuti di questo onere di allegazione, e sulla concreta possibilità che esso possa essere compiutamente assolto nell'ambito di un procedimento definito nelle forme del giudizio abbreviato.

Il danno risarcibile e la legittimazione all'azione civile nel processo penale

Ai sensi dell'art. 185 c. p., « ogni reato obbliga alle restituzioni, a norma delle leggi civili. Ogni reato, che abbia cagionato un danno patrimoniale o non patrimoniale, obbliga al risarcimento il colpevole e le persone che, a norma delle leggi civili, debbono rispondere per il fatto di lui »: il diritto della persona offesa o del soggetto danneggiato dal reato alla restituzione ed al risarcimento del danno ha natura civilistica, e la disposizione dell'art. 185 c.p. non ha efficacia costitutiva di tale diritto ma « mera funzione di regola integrativa dei generali principi degli artt. 2043, 2056, 2697 c.c., che ne fanno un'enunciazione ed un'applicazione più ampia di quella penale » (così Cass. pen., Sez. V, 31 gennaio 2007, n. 9182, che dall'affermazione del principio ha ricavato « la necessità che la persona offesa dal reato, quando invochi in sede penale l'accertamento del fatto costitutivo del suo diritto al risarcimento o alla restituzione, non possa e non debba essere esonerata dall'onere di provare la portata lesiva del fatto, la specie e l'entità della lesione subita, la riconducibilità della lesioni dal fatto reato, e di offrire gli elementi indispensabili per la quantificazione del danno »).

La perpetrazione di un reato determina, pertanto, oltre al danno criminale (la lesione o la messa in pericolo del bene giuridico tutelato dalla norma violata), che ha natura pubblicistica, un danno civilistico, materiale ovvero morale, che ha natura esclusivamente privatistica (Cass. pen., Sez. II, 18 dicembre 2013, n. 3958) e che può essere stato arrecato tanto alla persona offesa dal reato, ossia al titolare del bene o dell'interesse protetto dalla norma incriminatrice, quanto al soggetto danneggiato dal reato, ossia a colui che per effetto della condotta delittuosa ha subìto un danno risarcibile.

Ad entrambe queste categorie di soggetti è consentito di far valere le proprie pretese risarcitorie innanzi al giudice penale: ed invero, a mente dell'art. 74 c. p. p., « l'azione civile [...] può essere esercitata nel processo penale [...] dal soggetto al quale il reato ha recato danno [...] ovvero dai suoi successori universali ». Dunque, indipendentemente dalla formale qualificazione di soggetto passivo ovvero di soggetto danneggiato dal reato (qualità che assume rilievo ad altri fini ed in relazione ad altri istituti: ad esempio solo al soggetto passivo è riconosciuta la titolarità del diritto di querela, ovvero la legittimazione ad opporsi al decreto di archiviazione o a ricorrere per cassazione avverso la sentenza di non luogo a procedere), è legittimata a costituirsi parte civile la persona fisica o giuridica, ovvero l'ente dotato di soggettività o personalità, che sia titolare di un diritto ovvero di un interesse giuridicamente rilevante leso dalla perpetrazione del reato (cfr. Cass. pen., sez. VI, 24 giugno 2015, n. 33996: « legittimato all'esercizio dell'azione civile nel processo penale non è solo il soggetto passivo del reato, ma anche il danneggiato che abbia riportato un danno eziologicamente riferibile all'azione od omissione dei soggetto attivo del reato »).

La legittimazione dei prossimi congiunti della vittima del delitto di omicidio

In relazione al delitto di omicidio, la pretesa risarcitoria può essere avanzata non solo dal successore universale (cfr. art. 588 c.c.: colui che succede nell'intero asse ereditario del de cuius ovvero in una quota di esso), ma anche da qualsiasi soggetto che rappresenti e dimostri di aver subito un pregiudizio dal reato: a tal proposito occorre distinguere – come ha ben chiarito Cass. pen., sez. V, 18 giugno 2013, n. 34039 – « il diritto al risarcimento iure proprio, che è il diritto del soggetto al quale il reato ha direttamente recato danno, dal diritto al risarcimento iure successionis, che spetta solo ai successori universali e che sorge quando si sia verificato un depauperamento del patrimonio della vittima in conseguenza dell'accadimento » (in termini cfr. anche Cass. pen., Sez. III, 4 giugno 2013, n. 29735, che ha statuito che « i successibili che non siano, in concreto, anche eredi, non possono agire iure successionis, non escludendosi però, per i successibili che siano prossimi congiunti della vittima, la legittimazione ad agire iure proprio per il ristoro dei danni patrimoniali e, soprattutto, non patrimoniali sofferti »).

Dunque, i prossimi congiunti (cfr. art. 307, comma 4, c. p.: « agli effetti della legge penale, s'intendono per prossimi congiunti gli ascendenti, i discendenti, il coniuge, la parte di un'unione civile tra persone dello stesso sesso, i fratelli, le sorelle, gli affini nello stesso grado, gli zii e i nipoti: nondimeno, nella denominazione di prossimi congiunti, non si comprendono gli affini, allorché sia morto il coniuge e non vi sia prole ») della vittima di un omicidio possono:

  • se successori universali, agire iure hereditatisin relazione al depauperamento del patrimonio del familiare, per ottenere il risarcimento del danno biologico terminale (il danno alla salute sofferto dalla vittima nel periodo intercorso tra la lesione e la morte) e del danno da sofferenza conseguente alla percezione da parte della vittima dell'evento catastrofico (cd. danno morale terminale o danno “catastrofale”), ma solo nel caso in cui tra il fatto illecito e la morte sia intercorso un apprezzabile lasso di tempo durante il quale la vittima abbia avuto consapevolezza dell'approssimarsi della morte (cfr. le cosiddette sentenze di San Martino: Cass. civ., Sez. unite, 11 novembre 2008, nn. 26972-26975); secondo l'orientamento tradizionale e ancora oggi prevalente, dal fatto illecito non sorge invece il diritto al risarcimento del danno per la perdita della vita, non essendo giuridicamente concepibile che sia acquisito dal soggetto che muore, e che così si estingue, un diritto che deriva dal fatto stesso della sua morte (Cass. civ., Sez. unite, 22 luglio 2015, n. 15350);
  • indipendentemente dalla loro qualità di successori universali, agire iure proprioper il ristoro dei danni patrimoniali derivanti dalla privazione dell'assistenza materiale ed economica che il congiunto avrebbe continuato a fornire, e dei danni morali sofferti a causa della morte del congiunto e determinati dalla lesione di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica (danni che, secondo Cass. civ., Sez. III, 31 maggio 2003, n. 8828, consistono nella « rivazione di un valore non economico, ma personale, costituito della irreversibile perdita del godimento del congiunto, dalla definitiva preclusione delle reciproche relazioni interpersonali, secondo le varie modalità con le quali normalmente si esprimono nell'ambito del nucleo familiare »; sul punto cfr. anche Cass. civ., Sez. unite, 11 novembre 2008, n. 26972).
I presupposti della legittimazione iure proprio. I prossimi congiunti non conviventi

Secondo l'oramai univoca elaborazione giurisprudenziale degli ultimi anni, l'azione iure proprio può essere esercitata – indipendentemente dalla prova della sussistenza di un rapporto di parentela ovvero di convivenza – da chiunque dimostri di aver instaurato con la vittima del delitto uno stabile e duraturo legame affettivo irrimediabilmente stroncato dal delitto: ad esempio dal convivente more uxorio, ogni volta che dalla stabilità della convivenza fossero derivati solidi rapporti morali ed un equilibrio affettivo e patrimoniale leso dal fatto illecito (cfr. Cass. pen., Sez. IV, 5 novembre 2013 – 12 maggio 2014, n. 19487: « agli effetti della legitimatio ad causam del soggetto convivente di fatto della vittima dell'azione di un terzo, viene in considerazione non già il rapporto interno tra i conviventi, bensì l'aggressione che tale rapporto ha subito ad opera del terzo. Conseguentemente, mentre è giuridicamente irrilevante che il rapporto interno non sia disciplinato dalla legge, l'aggressione ad opera del terzo legittima il convivente a costituirsi parte civile, essendo questi leso nel proprio diritto di libertà, nascente direttamente dalla istituzione, alla continuazione del rapporto, diritto assoluto e tutelabile erga omnes, senza, perciò, interferenze da parte dei terzi. E' pur vero, quanto al danno patrimoniale, che non ogni convivenza, anche soltanto occasionale, può ritenersi sufficiente a fondare un'azione risarcitoria, consistendo il danno patrimoniale risarcibile nel venir meno degli incrementi patrimoniali, che il convivente di fatto era indotto ad attendersi dal protrarsi nel tempo del rapporto; esso in tanto può essere risarcito, in quanto la convivenza abbia avuto un carattere di stabilità tale da far ragionevolmente ritenere che, ove non fosse intervenuta l'altrui azione, la convivenza sarebbe continuata nel tempo I presupposti della legittimazione iure proprio. I prossimi congiunti non conviventi »), ovvero dal soggetto che, pur non essendo né congiunto né convivente della vittima, fosse ad essa legato da rapporti di affectio familiaris, ogni volta che sia configurabile una lesione dell'interesse all'inviolabilità della sfera degli affetti, e, dunque, limitatamente ai danni non patrimoniali (cfr. ad esempio Cass. pen., Sez. IV, 16 ottobre 2014, n. 46351, relativa alla costituzione di parte civile del fidanzato della vittima: « il riferimento ai ‘prossimi congiunti' della vittima primaria, quali soggetti danneggiati iure proprio a cagione del carattere plurioffensivo dell'illecito, deve essere inteso nel senso che, in presenza di un saldo e duraturo legame affettivo tra questi ultimi e la vittima, è proprio la lesione che colpisce tale peculiare situazione affettiva a connotare l'ingiustizia del danno ed a rendere risarcibili le conseguenze pregiudizievoli che ne siano derivate [...], a prescindere dall'esistenza di rapporti di parentela o affinità giuridicamente rilevanti come tali »; cfr. altresì Cass. pen., Sez. IV, 3 aprile 2012, n. 20231, relativa alla costituzione di parte civile del figlio del coniuge della vittima: « è legittima la costituzione di parte civile nel processo penale di un soggetto non legato da rapporti di stretta parentela e non convivente con la vittima del reato – nella specie figlio della moglie di quest'ultimo – al fine di ottenere il risarcimento dei danni morali, considerato che la definitiva perdita di un rapporto di affectio familiaris può comportare l'incisione dell'interesse all'integrità morale, ricollegabile all'art. 2 Cost., sub specie di intangibilità della sfera degli affetti, la cui lesione comporta la riparazione ex art. 2059 c.c. »).

Dunque, anche il congiunto non legato alla vittima da rapporti di stabile convivenza può costituirsi parte civile, pur se limitatamente al danno non patrimoniale, poiché in difetto di convivenza, ed in mancanza di uno specifico obbligo di contribuzione, egli non può invocare anche un danno patrimoniale (come ha ben evidenziato Cass. civ., Sez. III, 16 marzo 2012, n. 4253, questo soggetto potrebbe al più dolersi della perdita di « erogazioni che, configurandosi come atti di liberalità, possono legittimamente cessare in ogni momento. Con la conseguenza che […], non essendo ipotizzabile con elevato grado di certezza un beneficio durevole nel tempo, non può sussistere perdita che si risolva in un danno patrimoniale »): ad esempio Cass. pen., Sez. IV, 19 aprile 2005, n. 38809 ha statuito che legittimamente era stata ammessa la costituzione di parte civile iure proprio delle nonne della vittima del delitto di omicidio colposo (« le nonne della vittima [...] possono essere tra coloro cui il reato ha recato danno [...] da ormai alcuni decenni [...] i nonni assumono sempre più spesso la veste di supplenti, che li lega maggiormente che nel passato ai nipoti, anche se ormai adulti, dovendo sostituirne o avendo dovuto sostituirne i genitori, impegnati entrambi, nella maggioranza dei casi, in attività di lavoro »); più di recente Cass. pen., Sez. III, 4 giugno 2013, n. 29735, anch'essa relativa alla costituzione iure proprio dei nonni della vittima di un omicidio colposo, ha perspicuamente argomentato che attribuire decisivo rilievo alla convivenza « porrebbe ingiustamente in secondo piano l'importanza di un legame affettivo e parentale la cui solidità e permanenza non possono ritenersi minori in presenza di circostanze diverse, che comunque consentano una concreta effettività del naturale vincolo nonno-nipote: ad esempio, una frequentazione agevole e regolare per prossimità della residenza o anche la sussistenza – del tutto conforme all'attuale società improntata alla continua telecomunicazione – di molteplici contatti telefonici o telematici. A ben guardare, anzi, è proprio la caratteristica suddetta di intenso livello di comunicazione in tempo reale che rende del tutto superflua la compresenza fisica nello stesso luogo per coltivare e consentire un reale rapporto parentale e ciò vale tanto per i nonni verso i nipoti quanto - il che è assai comune oggi, senza peraltro, significativamente, porre in dubbio o in una posizione di deminutio la risarcibilità - per i genitori verso figli che lavorano o studiano in altra città o addirittura all'estero. Occorre, pertanto, prescindere da presunzioni generali juris et de jure [...] diversa essendo la modalità operativa dell'interprete, il quale non potrà che utilizzare quale parametro il concreto configurarsi delle relazioni affettive e parentali in ragione di peculiari condizioni soggettive e situazioni di fatto singolarmente valutabili, escludendo ogni carattere risolutivo della convivenza, che costituisce comunque un significativo elemento di valutazione in assenza del quale, tuttavia, può comunque dimostrarsi la sussistenza di un concreto pregiudizio derivante dalla perdita del congiunto ».

Ognuna delle sentenze da ultimo citate evidenzia, tuttavia, che sulla costituenda parte civile grava un ineludibile onere di allegazione, essendo necessario che dimostri – fin dall'atto che segna il suo ingresso nel processo penale – la effettiva sussistenza di quello stabile e duraturo legame affettivo sul quale si fonda la sua legittimazione ad agire: ad esempio la citata sentenza n. 46351/2014 ha evidenziato che « colui che rivendica il diritto al risarcimento del danno non patrimoniale in conseguenza della morte della persona a cui è legato da relazione affettiva, deve allegare e dimostrare l'esistenza e la natura di tale rapporto, la sua stabilità, intesa come non occasionalità e continuità nel tempo, tale da assumere rilevanza al momento di verificazione del fatto illecito; [...] spetta al danneggiato, che chiede il risarcimento del danno non patrimoniale attinente alla propria sfera relazionale, dare la prova dell'esistenza e della natura di tale rapporto, potendo tuttavia questa essere fornita con ogni mezzo, ed anche mediante elementi presuntivi ». In termini anche Cass. pen., Sez. I, 30 settembre 2014, n. 44306, che ha dichiarato inammissibile il ricorso interposto avverso il provvedimento di esclusione di numerose parti civili, rilevando che correttamente il giudice di merito aveva evidenziato trattarsi « di soggetti non legati da rapporti di stretta parentela con le vittime, non conviventi con esse e in relazione ai quali non erano stati indicati nell'atto di costituzione, neppure a livello di mera deduzione o rappresentazione, stretti legami solidali e familiari, comunanza di vita e di affetti o qualsivoglia altra qualificata situazione di contatto con la vittima idonea a configurare quella particolare situazione affettiva la cui lesione poteva comportare una lesione alla integrità morale degna di tutela ai sensi dell'art. 2059 c.c. » (la pronuncia è stata di inammissibilità, e non di rigetto, atteso che l'ordinanza dibattimentale di esclusione della parte civile è « sempre e definitivamente inoppugnabile, non essendone consentita né l'impugnazione immediata ed autonoma, perché non espressamente prevista da alcuna disposizione, né quella differita e conglobata con la sentenza ai sensi dell'art. 586 c. p. p., poiché il soggetto danneggiato, una volta estromesso dal processo, perde la qualità di parte e non è dunque legittimato ad impugnare la sentenza che non contiene alcuna statuizione decisoria che lo riguardi in connessione con il provvedimento dibattimentale di esclusione - il quale dunque chiude definitivamente il rapporto processuale civile davanti al giudice penale esaurendone gli effetti - né l'esclusione pregiudica l'esercizio dell'azione risarcitoria in sede civile, come stabilito dall'art. 88 c.p. p., comma 2 »: così, testualmente, Cass. pen., Sez. V, 17 luglio 2013, n. 44247).

I principi affermati da Cass. pen., Sez. IV, n. 11428/2017. La non necessità della convivenza

Una recente pronuncia di legittimità (Sez. IV, 9 febbraio 2017, n. 11428) ha ribadito i consolidati principi in tema di legittimazione iure proprio dei prossimi congiunti non conviventi con la vittima del delitto di omicidio, approfondendo altresì il tema relativo all'onere di allegazione delle costituende parti civili, con riferimento anche alla concreta possibilità che esso possa essere compiutamente soddisfatto nell'ambito di un giudizio celebrato nelle forme del rito abbreviato.

Nel caso sottoposto all'esame della Suprema Corte, i giudici di appello, pur confermando la responsabilità dell'imputata tratta a giudizio per il delitto di omicidio colposo, revocavano le statuizioni emesse in primo grado in favore delle costituite parti civili, zii non conviventi con la vittima.

Questi ultimi proponevano ricorso per cassazione, rilevando che con la documentazione (stato di famiglia; stampa di messaggi scambiati via sms e tramite Facebook) ritualmente prodotta prima che l'imputata chiedesse di essere ammessa al rito abbreviato, e dunque certamente utilizzabile ai fini della decisione ai sensi dell'art. 442, comma 1-bis, c. p. p., essi avevano fornito prova adeguata e sufficiente di una risalente convivenza nonché dell'esistenza di uno stabile e continuativo rapporto affettivo traumaticamente interrottosi a seguito del sinistro per il quale era procedimento; invocavano pertanto l'annullamento, esclusivamente in relazione alle statuizioni civili, della sentenza di appello, che aveva a loro avviso erroneamente attribuito decisivo rilievo all'accertata insussistenza della convivenza tra la vittima ed i congiunti.

La sentenza in commento ha rigettato il ricorso, pur dando continuità all'illustrato orientamento in base al quale il solido e permanente legame affettivo sul quale – come si è detto – si fonda la legittimazione attiva del prossimo congiunto non presuppone necessariamente la convivenza: essa costituisce senza dubbio un indice di grande importanza ma non è requisito imprescindibile, posto che « questa Corte di legittimità ha più volte condivisibilmente affermato [...] che, affinché si configuri la lesione di un interesse a rilevanza costituzionale, la convivenza non deve intendersi necessariamente come coabitazione, quanto piuttosto come ‘stabile legame tra due persone', connotato da duratura e significativa comunanza di vita e di affetti. E si è osservato che, in tale prospettiva, i riferimenti costituzionali non sono da cogliere negli artt. 29 e 30 Cost., così che detto legame debba essere necessariamente strutturato come un rapporto di coniugio, ed a questo debba somigliare, quanto piuttosto nell'art. 2 Cost., che attribuisce rilevanza costituzionale alla sfera relazionale della persona, in quanto tale ».

Se dunque è vero che « la risarcibilità dei danni morali per la morte di un congiunto causata da atto illecito penale richiede [...] oltre all'esistenza del rapporto di parentela, il concorso di ulteriori circostanze tali da far ritenere che la morte del familiare abbia comportato la perdita di un effettivo valido sostegno morale »(e tanto anche al fine di evitare di « estendere la tutela ad un numero, a volte indeterminato, di persone le quali, pur avendo perduto un affetto, non hanno una posizione qualificata perché venga in considerazione la perdita di un sostegno morale concreto», e dunque al fine ultimo di frustrare pretese risarcitorie strumentali da parte di soggetti di fatto distanti dalla rete affettiva familiare), viene ribadito che la convivenza, alla quale può essere attribuito un valore importante ma non necessariamente dirimente, non è che una delle ulteriori circostanze: il giudice, prescindendo da presunzioni generali, deve pertanto valutare caso per caso il concreto atteggiarsi della relazione affettiva e parentale sottoposta al suo vaglio, e ritenere legittimato alla costituzione di parte civile il prossimo congiunto che alleghi elementi idonei a rivelare la stabilità e l'intensità della relazione affettiva instaurata con la vittima del delitto.

(Segue). La prova dello stabile e duraturo legame affettivo

L'aspetto ritenuto dalla Suprema Corte decisivo, tale da determinare il rigetto del ricorso, non afferisce - come erroneamente dedotto dai ricorrenti - al mancato accertamento di una situazione di convivenza, ma alla insufficiente prova della sussistenza del legame affettivo: « colui che rivendica il diritto al risarcimento del danno non patrimoniale in conseguenza della morte della persona a cui è legato da relazione affettiva » - si ribadisce nella sentenza in commento - deve dimostrare con ogni mezzo, ed anche mediante elementi presuntivi l'esistenza di tale rapporto, la sua natura, la sua stabilità, intesa come non occasionalità e continuità nel tempo.

Nel caso di specie, le allegazioni prodotte a corredo dell'atto di costituzione di parte civile, pur essendo state validamente acquisite al fascicolo processuale, non sono state ritenute di per sé sole sufficienti a fornire una simile prova: « quello che difetta nel caso in esame è proprio la prova della presenza di quel saldo e duraturo legame affettivo alla cui esistenza le stesse Sezioni unite civili ancorano la possibile lesione atta a connotare l'ingiustizia del danno e a renderne risarcibili le conseguenze pregiudizievoli, a prescindere dall'esistenza di rapporti di parentela e affinità giuridicamente rilevanti come tali. Va rilevato, infatti che [...] non possono essere certo dei messaggi sms o rapporti intrattenuti sul social forum Facebook a poter far dire provata la sussistenza di tale legame. È esperienza comune, infatti, che, soprattutto i giovani, hanno centinaia e centinaia di ‘amici' Facebook, con molti dei quali intrattengono rapporti meramente virtuali che, evidentemente, nulla hanno a che vedere con i concetti di ‘amicizia' e di stabile rapporto affettivo. Anche di fronte ad una vita scandita dai nuovi strumenti di comunicazione, va dunque confermata la giurisprudenza di questa Corte di legittimità, di cui ha fatto corretta applicazione il provvedimento impugnato, che vuole non possa prescindersi dalla dimostrazione dell'intensità della relazione esistente fra i congiunti e la vittima dell'illecito ».

Trattasi di affermazione ineccepibile: posto che il risarcimento non era stato richiesto da uno stretto congiunto né da un familiare convivente, l'onere di allegazione della costituenda parte civile avrebbe dovuto essere soddisfatto mediante allegazioni idonee a rivelare l'esistenza di quella “particolare situazione affettiva intercorrente con la vittima” che anche in questo ultimo arresto la Suprema Corte ha ritenuto imprescindibile.

Dette allegazioni, tuttavia, erano state di fatto precluse dalla definizione del procedimento nelle forme del rito abbreviato, di modo che gli unici elementi a disposizione del Giudice erano costituiti dai documenti allegati all'atto di costituzione di parte civile e dalle « mere affermazioni contenute nella dichiarazione di costituzione di parte civile » (relative alla passata convivenza tra lo zio e la vittima, ed alla abitudine della vittima di trascorrere un periodo di vacanza in Sicilia assieme alla zia), sufficienti a superare il vaglio imposto dall'art. 78 c.p.p. in tema di formalità della costituzione (l'indicazione delle ragioni che giustificano la domanda può invero essere soddisfatta mediante il semplice richiamo al fatto descritto nel capo di imputazione, accompagnato dalla sommaria indicazione di un danno che si assuma essere legato a quel fatto da un nesso eziologico: cfr., tra le più recenti, Cass. pen., Sez. VI, 17 aprile 2014, n. 32705), e dunque a consentire l'ingresso nel processo, ma di per sé « inidonee a costituire prova dei fatti inerenti alla responsabilità civile derivante dal reato ex art. 187 comma 3 c.p.p. » e, dunque, non in grado di dimostrare la fondatezza della pretesa risarcitoria: « condivisibilmente la Corte territoriale ha ritenuto che, essendosi proceduto ex artt. 438 e ss. c.p.p., la parte civile, per provare l'esistenza di quel diretto e significativo rapporto tra il defunto e gli zii, che costituirebbe presupposto del diritto al risarcimento, preso atto della scelta deflattiva formulata dall'imputata e dell'assenza, tra gli atti di indagine, di elementi di prova favorevoli alla dimostrazione del proprio assunto, avrebbe dovuto non accettare il rito e far valere le proprie pretese nella competente sede civile, fornendo quella prova che in sede penale il rito prescelto .. non le consentiva. Certamente, infatti, non è attraverso atti o documenti allegati alla costituzione di parte civile, che possono introdursi agli atti elementi probanti la propria pretesa risarcitoria ».

La decisione è in linea con i generali principi che governano il procedimento a prova contratta: va infatti ricordato che di fronte ad una richiesta di rito abbreviato “secco” la parte civile non ha alcun potere di formulare richieste probatorie, e che, nel totale silenzio normativo, ove l'imputato venga ammesso al rito abbreviato “condizionato”, alla parte civile non è riconosciuto alcun diritto alla controprova, anche quando l'integrazione probatoria richiesta dall'imputato investa circostanze inerenti alla responsabilità civile derivante dal reato (cfr. in termini Cass. pen., Sez. II, 11 novembre 2004 – 13 gennaio 2005, n. 320, che ha ritenuto abnorme il provvedimento con il quale il Giudice per l'udienza preliminare aveva accolto la richiesta di giudizio abbreviato condizionato presentata dall'imputato, al contempo ammettendo l'esame dei testimoni indicati dalla parte civile: « la persona offesa, di fronte alla richiesta del rito abbreviato, che sia o meno condizionato non rileva, da parte dell'imputato ha solo la facoltà prevista dall'art. 441, comma 4 c.p.p., ma non quella di presentare proprie richieste. Diversamente opinando si snaturerebbe la natura del rito abbreviato »).

Dunque, all'esito dell'ammissione dell'imputato al rito abbreviato, il danneggiato che – come il congiunto non convivente con la vittima – abbia necessità di provare la sussistenza degli elementi sui quali si fonda la sua domanda, potrà più proficuamente coltivare l'azione civile nella sua sede tipica, poiché accettando il rito e rimanendo nel processo penale non avrà alcuna concreta possibilità di soddisfare quell'onere di allegazione dal quale dipende l'accoglimento della sua pretesa risarcitoria.

In conclusione

Il prossimo congiunto non convivente con la vittima è legittimato a costituirsi parte civile nel procedimento instaurato a carico dell'autore dell'omicidio, ma ha l'onere di provare che a quel familiare lo legava uno stabile e duraturo legame affettivo, traumaticamente interrotto dal delitto: è pertanto di per sé sola insufficiente la produzione di messaggi scambiati a mezzo del telefono o tramite social network, al più rivelatori di una frequentazione personale o “telematica”, ma non anche di un solido rapporto affettivo.

L'onere di allegazione non può essere soddisfatto dai soli documenti prodotti a corredo dell'atto di costituzione di parte civile: pertanto, ove l'imputato acceda al rito abbreviato, l'assenza di efficaci poteri probatori dovrebbe spingere la parte civile che (come il congiunto non convivente) ha necessità di fornire prova degli elementi sui quali si fonda la sua pretesa risarcitoria a non accettare il rito, coltivando l'azione civile nella sua sede tipica.

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