Furto per fame. Lo stato di bisogno economico integra la scriminante dello stato di necessità

Michele Sbezzi
15 Giugno 2016

La Sezione V della Cassazione penale con la sentenza n. 18248/2016, si è espressa, annullando con rinvio la sentenza impugnata perché il fatto non sussiste, su un caso di furto avente ad oggetto due porzioni di formaggio e una confezione di wurstel del valore complessivo di quattro euro. L'imputato, persona straniera senza fissa dimora, veniva notato da un cliente mentre si impossessava della merce e veniva immediatamente bloccato dal personale del punto vendita il quale otteneva immediatamente la pronta restituzione dei beni.
Abstract

La Sezione V della Cassazione penale con la sentenza n. 18248/2016, si è espressa, annullando con rinvio la sentenza impugnata perché il fatto non sussiste, su un caso di furto avente ad oggetto due porzioni di formaggio e una confezione di wurstel del valore complessivo di quattro euro. L'imputato, persona straniera senza fissa dimora, veniva notato da un cliente mentre si impossessava della merce e veniva immediatamente bloccato dal personale del punto vendita il quale otteneva immediatamente la pronta restituzione dei beni.

Si legge nella sentenza: La condizione dell'imputato e le circostanze in cui è avvenuto l'impossessamento della merce dimostrano che egli si impossessò di quel poco cibo per far fronte ad una immediata ed imprescindibile esigenza di alimentarsi, agendo quindi in stato di necessità. L'accertamento, in questa sede, dell'esistenza di una causa di giustificazione impone l'annullamento della sentenza impugnata perché il fatto non costituisce reato.

Natura dell'esimente e confronto con la figura della legittima difesa

Lo stato di necessità di cui all'art. 54 c.p. costituisce, un'esimente, o scriminante, per la quale si ritiene esclusa l'antigiuridicità della condotta scriminata, che viene quindi “legittimata”.

A lungo, in dottrina, si è invece ritenuto trattarsi di una causa di esclusione della “rimproverabilità”, e quindi della colpevolezza, intesa quest'ultima (vedi Cass. pen. sent. 9163/2005 delle Sezioni unite penali) nel più moderno senso di assoggettabilità a un rimprovero, e quindi a punizione, di chi, in un'effettiva e grave situazione di pericolo, non avrebbe avuto la possibilità di scegliere una condotta diversa.

In buona sostanza, la dottrina riteneva di dover sottolineare l'inutilità della punizione e della punibilità di chi si fosse trovato ad agire per reazione ad una minaccia ingiusta.

Tale concezione è certamente superata dal dato normativo che deriva dall'accostamento della figura in argomento con quella, molto meno ristretta, prevista all'art. 52 c.p. (difesa legittima), in cui l'azione è diretta a difendere un proprio o altrui diritto (e non più solo il diritto alla salute ed alla incolumità propria o altrui) contro il pericolo attuale di un'offesa ingiusta.

Chiaro appare come, in questo secondo caso, non possa agevolmente parlarsi di inesigibilità di una condotta diversa, soprattutto nel caso si siano difesi i beni materiali di un estraneo e la condotta non possa, dunque, apparire come l'unica ed irrinunciabile scelta da operare.

Si è anche ritenuto che lo Stato non avrebbe interesse a salvaguardare l'uno o l'altro tra gli interessi contrapposti nel caso uno dei due sia comunque destinato a essere sacrificato.

Tale teoria non sembra però tenere in apprezzabile conto il fatto che, delle due posizioni di diritto, quella che viene protetta appartiene a colui il quale ha subito minaccia grave di danno ingiusto. In ragione di ciò, il portatore del diritto minacciato merita tutela.

Sembrerebbe più congrua e apprezzabile la teoria secondo cui, nella situazione configurabile come stato di necessità lo Stato giudica equivalenti l'interesse minacciato e quello leso dall'azione di reazione necessitata, che viene giudicata lecita e, pertanto, non comporta risarcimento (vedi art. 2045 c.c.) ma solo indennizzo. La previsione di un indennizzo è chiaramente ispirata a criteri di solidarietà sociale, per i quali l'azione necessitata, da considerarsi lecita, non deve esporre l'autore necessitato a pieno risarcimento e il danno va ripartito anche su chi, incolpevolmente, subisce l'esito finale dell'intera azione.

Permangono nette le differenze tra i due istituti.

Mentre nello stato di necessità, infatti, il diritto minacciato e, per conseguenza, tutelato è quello alla salute ed all'integrità fisica propria o altrui, nella legittima difesa qualsiasi diritto, proprio o altrui, può essere difeso con condotte che, in ragione del valore etico che assumono, sono scriminate se proporzionate all'offesa.

E ancora, mentre nella legittima difesa il diritto sacrificato è quello di chi ha portato la minaccia, nello stato di necessità il danno è subito da un terzo incolpevole.

In entrambi i casi va rigorosamente riscontrata una chiara posizione di equilibrio tra la minaccia e la reazione. Nella legittima difesa quest'ultima deve essere proporzionata all'offesa, mentre nello stato di necessità il fatto deve risultare proporzionato al pericolo.

Le decisioni della giurisprudenza

La terza Sezione penale della suprema Corte (26 aprile 2006, n. 16056) ebbe a decidere che lo stato di bisogno economico non è idoneo a integrare la scriminante dello stato di necessità stante che alle esigenze degli indigenti e dei bisognosi dovrebbe provvedersi con la moderna organizzazione sociale, per mezzo degli istituti di assistenza.

E' vero, però, che la condotta non scriminata, in quel caso specifico, integrava il reato di detenzione e vendita di prodotti audiovisivi privi del contrassegno SIAE. Possiamo dunque ritenere che, in quel caso, l'esclusione della scusante trovò fondamento anche nell'assoluta mancanza di proporzionalità della condotta che si chiedeva fosse scriminata.

Allo stesso modo, con sentenza 265 del 14 dicembre 2011, la prima sezione penale ebbe a dichiarare non scriminata la condotta di reingresso non autorizzato nel territorio dello Stato a carico di chi chiedeva gli fosse riconosciuta l‘esigenza assoluta di ricongiungersi alla moglie in avanzato stato di gravidanza. In quel caso, infatti, la condotta – che avrebbe semmai potuto scriminare un mancato allontanamento - avrebbe potuto essere oggetto di una precisa richiesta di autorizzazione. Non era, dunque, l'unica scelta possibile.

Nel 2011, la seconda sezione penale ebbe a statuire che lo stato di necessità può scriminare anche il reato di occupazione abusiva di case comunali, a patto che la mancanza di uno stabile alloggio abbia cagionato un grave e non diversamente evitabile pericolo di danno alla persona; in caso diverso, infatti, a esser lesi sarebbero i diritti di chi deve poter usufruire legalmente degli stessi alloggi.

A questo proposito va sottolineato che la Corte di appello di Bari, III Sezione penale, con sentenza del marzo 2011, aveva già affermato che lo stato di necessità è da riconoscersi anche in situazioni in cui l'integrità fisica è messa in pericolo solo indirettamente.

Argomenta quella corte che l'esigenza di un alloggio può gravemente attentare alla sfera dei beni primari collegati alla personalità; in tal caso, tuttavia, più attenta e penetrante deve essere l'indagine giudiziaria diretta a circoscrivere la sfera di azione dell'esimente ai casi in cui siano indiscutibilmente presenti i requisiti della necessità e dell'inevitabilità, al fine di impedire che un'azione delittuosa possa entrare a far parte del novero delle opzioni legittime, rimesse alla mera discrezionalità dell'agente.

Nella medesima direzione è volta la sentenza emessa l'11 febbraio 2011 con la n. 8724 dalla Sezione II penale della suprema Corte.

Anche in quel caso si trattò di un'illecita occupazione di un immobile, che fu giudicata scriminata dallo stato di necessità che ben può consistere, oltre che in lesioni della vita o dell'integrità fisica, nella compromissione di un diritto fondamentale della persona come il diritto all'abitazione, sempre che ricorrano per tutto il tempo dell'occupazione anche l'assoluta necessità della condotta e l'inevitabilità del pericolo. In effetti, in quel caso, la Corte giudicò non applicabile la scriminante perché si sarebbe quantomeno potuto tentare di soddisfare diversamente l'esigenza abitativa, mediante ricorso ai servizi sociali.

Il 21 dicembre 2011, con la sentenza n. 4292, la suprema Corte stessa Sezione decise che non può ritenersi sussistente l'esimente dello stato di necessità quando l'allegato stato di pericolo non dipenda da situazioni contingenti ma abbia carattere permanente, sì da escludere, per ciò stesso, il requisito dell'attualità. In quel caso, il fatto consisteva nella grave malattia di una delle due figlie minorenni dell'imputato.

Con sentenza n.15279 dell'11 gennaio 2013, la seconda Sezione penale della suprema Corte indicò che una situazione di indigenza non è di per sé idonea ad integrare la scriminante dello stato di necessità in difetto degli elementi dell'attualità ed inevitabilità del pericolo

Il 13 luglio 2015, con la sentenza n. 3967, la Sezione V penale della Suprema Cortedecise che la situazione di indigenza non è di per sé idonea ad integrare la scriminante dello stato di necessità per difetto degli elementi dell'attualità e dell'inevitabilità del pericolo, atteso che alle esigenze delle persone che versano in tale stato è possibile provvedere per mezzo degli istituti di assistenza sociale. In quel caso, il reato che si era chiesto di ritenere scriminato fu un furto con strappo.

E ancora, il 15 gennaio 2016, con sentenza 12840, la suprema Corte Sezione II decise che una condizione di difficoltà economica non può legittimare, ai sensi dell'art. 54 c.p., un'occupazione permanente di un immobile per risolvere, in realtà, in modo surrettizio, un'esigenza abitativa.

In conclusione

Sembra, in buona sostanza, che la sentenza in commento possa rappresentare un mutamento della tendenza della Corte di ritenere che la povertà non è situazione improvvisa e contingente e che, ad essa, debba semmai darsi rimedio con gli strumenti dell'assistenza pubblica.

Nessun dubbio, infatti, che il Sig. O.R., abbia sofferto i morsi della fame ed abbia quindi deciso di rubare quei pochi alimenti per cibarsene. Certamente, peraltro, sarà stata presa in esame anche la condizione di pericolo per la vita in cui l'imputato sarebbe incorso se avesse continuato a non nutrirsi in modo sufficiente.

E nessun dubbio, dunque, sul fatto che la condotta sia stata necessitata.

Qualche tempo fa, però, la Corte avrebbe forse potuto rispondere che, la situazione di indigenza che aveva portato O.R. a non avere di che nutrirsi non poteva dirsi né improvvisa né contingente e che, quindi, essa non poteva dirsi attuale; o anche che l'esistenza delle mense della Caritas e, comunque, di un'organizzazione dell'assistenza sociale che deve occuparsi proprio di quei casi, avrebbe dovuto portare il Sig. O.R. a tentare di trovare una soluzione diversa alla propria impellente necessità.

Non può che salutarsi con favore la decisione di alleggerire il rigore con cui si è fin qui portato l'esame sulle circostanze dell'attualità e dell'inevitabilità per via diversa del danno oggetto di pericolo.

La sentenza in commento, evidentemente, ha superato la rigidità precedente, probabilmente anche in vista di una situazione di crisi economica generalizzata che, certamente, ha grandemente fatto scemare le peraltro sempre scarse possibilità di rinvenire lecitamente mezzi di sostentamento.

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