E venne il giorno!
15 Giugno 2017
E così, finalmente, la riforma del processo penale promessa dal Ministro Orlando ha visto la luce. Non una riforma epocale, beninteso, non un intervento sistematico ma una pletora di modifiche “a macchia di leopardo”, disarticolate e ben lontane dal convergere in un disegno unitario, la cui concreta efficacia andrà valutata – prescindendo da opinioni di parte – nel tempo ma che nel complesso possono essere accolte con favore, risultando in parte utili e comunque innocue. Delle deleghe (su tutte, di quella in tema di intercettazioni) ci sarà tempo di discutere; tra le modifiche immediatamente operative, spiccano quelle che dovrebbero produrre effetti deflattivi e naturalmente quelle in tema di prescrizione.
Deflazione. Il nuovo art. 162-ter c.p. prevede l'estinzione dei reati procedibili a querela soggetta a remissione ove l'imputato abbia, entro la dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, riparato il danno (mediante restituzioni o risarcimento) ed eliminato, ove possibile, le conseguenze dannose o pericolose del reato. Ma se le parti si sono conciliate, la querela sarà stata intuibilmente rimessa; la disposizione immagina, quindi, che ci siano casi nei quali, nonostante il risarcimento o le restituzioni, la querela non sia stata rimessa. Sorge (allo sprovveduto editorialista, evidentemente non ai tecnici del Signor Ministro) un dubbio: quale imputato risarcisce o restituisce senza essersi assicurato la conseguente rimessione di querela? Quanti saranno i casi in cui ciò non avviene? Due? Modifica inutile. Punto.
Le impugnazioni. Si persegue lodevolmente (con il nuovo art. 581 c.p.p.) l'esigenza di propiziare una maggiore specificità degli atti d'impugnazione, particolarmente sentita, in particolare, con riferimento ai ricorsi per cassazione. Tutte le impugnazioni trovano fondamento giuridico nell'esigenza di consentire alla parte legittimata, che vi abbia interesse, di far valere asserite discordanze tra un determinato provvedimento emesso da un giudice penale e la legge, che rendano il provvedimento contra ius; in difetto, si sarebbe al cospetto di una “non impugnazione”; nessuna disposizione di legge, nazionale o sovranazionale, attribuisce all'imputato od al suo difensore il diritto di proporre impugnazione unicamente “per provarci”, o comunque per lucrare sui tempi necessari ai fini della disamina dell'impugnazione stess,a e quindi, in definitiva, sulla protrazione dei tempi necessari per giungere al giudicato. Di qui l'esigenza, evidentemente avvertita dal Legislatore, di imporre alle parti più rigorosi oneri di specificità, per evitare strumentalizzazioni dell'istituto, e riservare tutte le risorse alla disamina delle impugnazioni proposte da quanti abbiano effettivamente qualcosa da lamentare e, contestualmente, la necessità di prevedere forme semplificate e tempi più celeri per la definizione delle impugnazioni puramente dilatorie. Per “aiutare” la Cassazione, il nuovo art. 610, comma 5-bis, c.p.p. prevede la possibilità della declaratoria d'inammissibilità senza formalità di procedura (e quindi con procedura de plano, senza avvisi e senza facoltà di partecipazione all'udienza) in diversi casi (spiccano, in particolare, i ricorsi contro la sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti ex artt. 444 ss. e contro la sentenza pronunciata a norma del nuovo art. 599-bis - concordato anche con rinuncia ai motivi di appello). In verità, detta modifica aiuta più che altro le cancellerie della Corte, esonerate dall'effettuazione degli avvisi in un discreto numero di casi; auspicabili effetti deflattivi potranno, piuttosto, conseguire dall'abolizione della possibilità di ricorso personale (nuovo art. 613, comma 1, c.p.p.), che in concreto consentiva di eludere agevolmente la previsione della necessità del patrocinio di un avvocato iscritto all'apposito albo speciale e dalla possibilità di aumentare discrezionalmente fino al triplo la somma da versare alla Cassa delle ammende in caso di inammissibilità del ricorso (tenuto conto della causa di inammissibilità), sempre che la riscossione sia effettiva, poiché, in caso contrario, la modifica risulterebbe canzonatoria. Per “aiutare” le Corti d'appello, il nuovo art. 599-bis c.p.p. ha anche reintrodotto (a volte ritornano) il “patteggiamento in appello”, ora denominato concordato anche con rinuncia ai motivi di appello, che tanti danni aveva provocato. Non resta che auspicare una applicazione dell'istituto più oculata che in passato (chi scrive ricorda ancora un “patteggiamento” in appello con attenuanti generiche equivalenti alla qualifica di capo o promotore di una associazione finalizzata al traffico di droga, che peraltro costituisce reato autonomo, non mera circostanza aggravante).
La prescrizione. Con riguardo alla prescrizione, più che di “Riforma”, si deve parlare di “Riformina Orlando”, poiché la novella, lungi dal ridisciplinare funditus l'istituto, come da più parti (ma con intenti non sempre del medesimo segno) auspicato, si è limitata essenzialmente ad aumentare (per alcuni reati) i termini, ed a prevedere nuovi casi di sospensione (in particolare, in pendenza dell'impugnazione contro una sentenza di condanna). La prescrizione del reato trova la sua ratio nel venir meno dell'interesse dello Stato alla punizione del reo dopo un determinato lasso di tempo, commisurato alla gravità del reato, e mira, al tempo stesso, ad assicurare la «durata ragionevole» del processo penale (artt. 6 Convenzione Edu e 111, comma 2, della Costituzione). A prescindere dalle (più o meno discutibili) prese di posizione individuali o associative, meritano di essere ricordate le disincantate considerazioni sull'istituto e le intelligenti proposte de iure condendo operate da una acuta, pur se isolata, giurisprudenza (Cass. IV, n. 28796/2011), per la quale «non v'è dubbio che la disciplina della prescrizione costituisca, nel nostro ordinamento, la prima causa della dilatazione dei tempi del processo»: pur essendo necessaria la previsione di un termine di prescrizione, per non sottoporre la persona che ha commesso un reato all'eventualità dell'instaurazione del processo senza alcun limite temporale, all'infinito, l'esistenza dell'istituto è collegata al disinteresse dello Stato e dei consociati per la persecuzione del fatto-reato commesso, «ma se questo disinteresse non esiste perché l'azione penale è stata tempestivamente - e comunque prima che il termine di prescrizione decorresse - esercitata non si vede perché l'imputato debba essere premiato per l'abilità sua e del difensore di dilatare i tempi del processo o anche soltanto per la complessità dell'accertamento che la natura del processo richiede». Si evidenziava, inoltre, che «la disciplina della prescrizione costituisce una delle cause (forse la più rilevante) di un ricorso limitato ai riti alternativi. Se non vi fosse la speranza di lucrare la prescrizione certamente un numero assai maggiore di processi sarebbero definiti con i riti alternativi (si pensi a tutti i casi di responsabilità palese o addirittura di confessione dell'imputato) e si eviterebbe così, o si ridurrebbe sensibilmente, l'intasamento della sede dibattimentale che costituisce la causa principale della durata eccessiva del processo»: non a caso, nei sistemi anglosassoni (nei quali l'esercizio dell'azione penale non è obbligatorio), solo una percentuale inferiore al 10% dei processi perviene alla fase dibattimentale. Sarebbe, pertanto, ragionevole «sterilizzare i tempi del processo dopo l'esercizio dell'azione penale prevedendo la sospensione del decorso della prescrizione durante la durata del processo (non diversamente da quanto avviene nel processo civile)»; per tutelare l'interesse dell'imputato alla definizione rapida del processo, «potrebbero prevedersi comunque termini massimi (eventualmente nei soli casi in cui la durata del processo dipenda da inefficienze del sistema e non dalla complessità degli accertamenti) oltre i quali la sospensione non opera più sia all'interno di ciascun grado di giudizio sia nel passaggio da un grado all'altro del giudizio». Dal canto suo, la dottrina aveva, da tempo, autorevolmente affermato «sia chiaro: la disciplina della nostra prescrizione è assurda. Basata sulla perdita di significato comunitario della persecuzione giudiziario per effetto del decorso del tempo, essa si attiva poi proprio quando la persecuzione giudiziaria si sta svolgendo e, magari, sta per giungere all'epilogo. Il trionfo dell'oblio viene sancito mentre si celebra il rito della memoria» (T. PADOVANI, Promemoria sulla questione giustizia, in Cass. pen. 2007, 4026). Ed è dell'altro ieri la decisione della Corte di Strasburgo (Sez. IV, 13 giugno 2017, K. vs. Lituania), secondo la quale l'estinzione del reato per prescrizione (nel caso di specie, conseguente a lungaggini dovute a due annullamenti della sentenza di condanna per vizi processuali) viola l'art. 3 della Convenzione Edu, poiché anche la mancata punizione degli autori di un reato costituisce per la vittima trattamento disumano e degradante: né la responsabilità dello Stato per le disfunzioni del proprio sistema giudiziario viene meno per il fatto che la vittima abbia comunque conseguito il risarcimento dei danni civili
Eppure, qualche sforzo per razionalizzare la disciplina della prescrizione era già stato compiuto dal Legislatore. In tema di responsabilità da reato degli enti, la prescrizione è disciplinata dall'art. 22 d.lgs. 231 del 2001, a norma del quale:
Il comma 4 della disposizione, stabilisce, infine, che, nel caso in cui l'interruzione è avvenuta mediante la contestazione dell'illecito dipendente da reato, la prescrizione non corre fino al momento in cui passa in giudicato la sentenza che definisce il giudizio: trattasi di previsione peculiare del sistema della responsabilità da reato degli enti immateriali. Sarebbe stato sufficiente muoversi sulla falsariga di questa disciplina. |