Riforma Orlando e inasprimenti di pena: esigenza reale o strumento di sintonia tra Legislatore e opinione pubblica?
19 Giugno 2017
Abstract
Con la riforma Orlando, accanto a diverse modifiche incidenti sul sistema penale sostanziale e processuale, vengono introdotte pene più severe per talune categorie di reati, con particolare riguardo ai più gravi delitti contro il patrimonio. L'inasprimento sanzionatorio si sostanzia soprattutto in un aumento dei minimi edittali, con effetti che in parte potrebbero neutralizzare alcune previsioni, recepite nello stesso testo legislativo, tese a deflazionare il carico giudiziario e a decongestionare gli istituti di custodia. Gli aumenti di pena introdotti dalla riforma
Tra le tante novità contenute nella riforma Orlando – un corpus normativo che spazia dalla materia penale sostanziale a quella processuale, in parte apportando modifiche immediate, in parte demandandone l'attuazione a successivi decreti legislativi – vi è, ai commi da 5 a 9 dell'articolo 1, un “ritocco” verso l'alto di alcune previsioni sanzionatorie riguardanti talune fattispecie criminose. L'inasprimento delle pene riguarda, in particolare, il reato di scambio elettorale politico-mafioso (art. 416-ter c.p.), i delitti di furto (artt. 624 e 624-bis c.p., soprattutto con riferimento ad alcune delle ipotesi aggravate), nonché i delitti di rapina (art. 628 c.p.) e di estorsione (art. 629 c.p.). Per quanto riguarda il reato di cui all'art. 416-ter, l'aumento di pena riguarda sia il minimo che il massimo edittale: la pena, finora compresa fra quattro e dieci anni di reclusione, passa ora da un minimo di sei a un massimo di dodici anni. Per quanto, invece, riguarda i delitti di furto, rapina ed estorsione, gli aumenti di pena introdotti dalla riforma si sostanziano in qualche incremento delle pene pecuniarie e, per quanto concerne le pene detentive, nell'innalzamento di alcune delle previsioni minime edittali. Quanto al delitto di furto in abitazione o con strappo (art. 624-bis c.p.), si passa da una pena compresa tra uno e sei anni di reclusione e tra euro 309 ed euro 1.032 di multa, alla pena della reclusione da tre a sei anni e della multa da euro 927 a euro 1.500. Anche per quanto riguarda le ipotesi aggravate del reato in esame, previste dal terzo comma dell'art. 624-bis, vi è un aumento che riguarda il minimo edittale della pena detentiva, che passa da tre a quattro anni di reclusione (il massimo rimane fissato in dieci anni di reclusione); contemporaneamente viene aumentata anche la pena pecuniaria, che è ora compresa tra un minimo di euro 927 e un massimo di euro 2.000. Analogamente, viene aumentato il minimo edittale della pena detentiva per i delitti di furto caratterizzati da una delle aggravanti di cui all'art. 625 c.p.: minimo edittale che viene raddoppiato e passa da uno a due anni di reclusione (il massimo edittale resta fissato in sei anni); anche in questo caso c'è un aumento della pena pecuniaria, che è ora compresa tra euro 927 e euro 1.500 di multa (in precedenza era compresa tra euro 103 ed euro 1.032). Anche per il delitto di rapina vi sono aumenti di pena. Nell'ipotesi-base (art. 628, comma 1, c.p.: le previsioni edittali riguardano peraltro anche la rapina impropria di cui al comma 2), la pena (che finora era compresa tra tre e dieci anni di reclusione e tra euro 516 ed euro 2.065 di multa) viene aumentata nel minimo edittale della pena detentiva (che passa a quattro anni) e nella pena pecuniaria (che ora è compresa tra euro 927 ed euro 2.500). Per l'ipotesi aggravata di cui al terzo comma dell'art. 628 c.p. viene previsto un aumento nel minimo edittale, sia per quanto concerne la pena detentiva (che passa da quattro anni e sei mesi a cinque anni, fermo restando il massimo edittale di venti anni), sia per quanto concerne la pena pecuniaria (il cui minimo è stato portato da euro 1.032 a euro 1.290). Un ulteriore inasprimento di pena, sempre con riguardo al delitto di rapina, deriva dall'inserimento, nell'art. 628, di un quarto comma, riferito all'ipotesi in cui concorrano due o più delle circostanze di cui al terzo comma, o qualora una di tali circostanze concorra con una di quelle comuni di cui all'art. 61 c.p.: in tal caso, viene ora prevista la pena della reclusione da sei a venti anni e della multa da euro 1.538 a euro 3.098. Quanto al delitto di estorsione, viene aumentata la pena minima edittale relativa all'ipotesi aggravata di cui all'art. 629, comma 2: pena minima che passa da sei a sette anni, restando fermo anche in questo caso il massimo edittale (di venti anni). A completare il quadro vi è un ulteriore inasprimento del trattamento sanzionatorio di alcune delle ipotesi aggravate del reato p. e p. dall'art. 624-bis c.p., determinato dalla previsione che le circostanze attenuanti, diverse da quelle previste dagli articoli 98 e 625-bis, concorrenti con una o più delle circostanze aggravanti di cui all'articolo 625 (previste dal terzo comma dell'art. 624-bis), non possono essere ritenute equivalenti o prevalenti rispetto a queste ultime e le diminuzioni di pena si operano sulla quantità della stessa risultante dall'aumento conseguente alle predette circostanze aggravanti. Si tratta, insomma, dell'ennesimo ricorso alle c.d. aggravanti rinforzate, sottratte a giudizio di bilanciamento ex art. 69 c.p.: uno strumento al quale il Legislatore ha fatto, nel recente passato, frequente ricorso, e che è giudicato da taluni Autori «discutibile poiché sottrae al giudice il potere di una integrale valutazione del fatto concreto sulla base di elementi che, ancorché circostanziali, sono pur sempre indicati dal Legislatore» e che imprime al sistema «una svolta che non può che fondarsi su una generica e generalizzata stretta repressiva, tale da disconoscere alla fine le reali e significative caratteristiche e modalità di manifestazione del fatto concreto» (così F. PALAZZO, nella sua relazione al Convegno La riforma del sistema penale, tenutosi il 23 maggio 2016 presso il Senato della Repubblica). Il testo del disegno di legge dedica una particolare attenzione ai delitti contro il patrimonio, adottando due distinte e, almeno in apparenza, opposte linee di condotta. Da un lato, vi è la scelta di inasprire le sanzioni (nei termini appena riassunti) per alcune fattispecie criminose ritenute di particolare allarme sociale: ciò si ricava in particolare dal fatto che l'incremento delle previsioni edittali riguarda i delitti di rapina e di estorsione, soprattutto nelle forme aggravate, nonché le ipotesi di furto caratterizzate da maggior disvalore (ossia il furto in abitazione o con strappo e le fattispecie aggravate ex art. 625 c.p.). Sull'opposto versante, al comma 16 dell'art. 1, viene conferita delega al Governo per l'adozione di decreti legislativi che prevedano, fra l'altro, l'estensione della perseguibilità a querela anche ai reati contro il patrimonio che non siano caratterizzati dalle seguenti previsioni ostative: a) commissione in danno di persona incapace per età o per infermità; b) configurabilità di aggravanti a effetto speciale o delle circostanze di cui all'art. 339 c.p. (es. con violenza o minaccia commessa con armi, o da persona travisata, o da più persone riunite ecc.); c) danno di rilevante gravità arrecato alla persona offesa. A tale ultimo riguardo, durante i lavori parlamentari (nella relazione al DDL n. 2798 presentato alla Camera dei Deputati il 23 dicembre 2014), si è affermato che l'estensione della procedibilità a querela si appalesa opportuna «in riferimento ai reati che recano una modesta offesa all'interesse tutelato, di natura individuale, e per cui è quindi ragionevole affidare la procedibilità a valutazioni della persona offesa». In tal modo ci si ripromette di «contribuire ad una deflazione del carico giudiziario, per mezzo delle determinazioni di non proporre querela o di rinunciare ad essa o, ancora, di rimetterla, senza che ciò comporti alcun sacrificio per le ragioni della persona offesa, a cui è appunto rimessa ogni valutazione». In definitiva, si è inteso seguire una politica di “doppio binario”: da un lato, maggior rigore verso chi commette reati contro il patrimonio di particolare gravità (specie laddove ricorrano talune circostanze aggravanti ad effetto speciale); dall'altro, ampliamento della possibilità di definire i processi con la remissione della querela nel caso in cui si tratti di reati contro il patrimonio di minore gravità, laddove cioè sia circoscritta e di modesta entità la lesione del bene giuridico protetto a danno della persona offesa, sì da rimettere a quest'ultima la decisione circa la perseguibilità penale dell'illecito. Il “doppio binario” di cui si è detto si misura quindi, nell'ottica del Legislatore della riforma, con la maggiore o minore estensione e gravità dell'allarme sociale; in questo modo, la logica sottesa all'aumento delle pene per alcune fattispecie più gravi viene quindi “temperata” dalla prospettiva di un diverso regime di procedibilità per gli illeciti meno gravi contro il patrimonio. È evidente che, attraverso queste soluzioni legislative, si operano scelte di politica criminale tese, da un lato, a contenere l'ingente carico giudiziario riferito a reati di modesta gravità (un atteggiamento coerente, del resto, con un'altra novità introdotta dalla riforma, costituita dall'introduzione dell'istituto delle condotte riparatorie di cui al nuovo art. 162-ter c.p.); e, dall'altro, ad assecondare la sensibilità sociale di fronte a forme di delinquenza caratterizzate dall'uso di violenza, di minaccia, di coercizione o da modalità particolarmente invasive e insidiose, che non offendano cioè solo beni patrimoniali ma determinino una lesione più estesa, incidente sulla libertà e sulla sfera personale della vittima. Vi è peraltro chi, durante l'iter parlamentare, ha denunciato «una potenziale o meglio latente contraddizione interna alla manovra di riforma. Mentre, infatti, con una mano si innalzano i minimi edittali con l'altra mano si dà delega al governo per una dilatazione del campo applicativo delle misure alternative […]. Il che lascia intravedere una politica sanzionatoria non commendevole, con la quale il Legislatore si guadagna il consenso popolar-mediatico mediante la forte minaccia carceraria contro le forme di criminalità di maggiore allarme sociale, lasciando poi al giudice e a quello di sorveglianza in particolare l'esercizio della discrezionalità in chiave di attenuazione della risposta sanzionatoria e, in particolare, di gestione del prevedibile futuro sovraffollamento carcerario mediante le misure alternative» (F. PALAZZO, ibidem). Gli effetti sostanziali e processuali degli aumenti di pena
Mentre, sul versante delle pene pecuniarie, gli aumenti delle previsioni edittali appaiono tutto sommato poco significativi e si presentano, nell'essenziale, come meri aggiustamenti rispetto alle previsioni precedenti, balza agli occhi che, nella quasi totalità dei casi (con la sola eccezione del delitto di scambio elettorale politico-mafioso), gli aumenti delle pene detentive incidono, nelle varie ipotesi, solo sul minimo edittale. Questo significa che dall'inasprimento delle sanzioni non deriva alcun aggravio sotto il profilo della durata della prescrizione (legata com'è, nell'essenziale, alle pene massime previste per ciascun reato, anche nel quadro derivante dalle modifiche apportate dalla riforma agli artt. da 158 a 161 del codice penale). Deve invece ritenersi che l'incremento dei minimi edittali, così come l'esclusione del giudizio di bilanciamento per alcune aggravanti, abbia lo scopo di contenere, almeno per alcuni dei reati in esame, il ricorso al patteggiamento e di rendere meno agevole la concessione della sospensione condizionale della pena o dei benefici penitenziari in termini di misure alternative; e, più in generale, di evitare l'applicazione di pene troppo miti e modeste rispetto a fatti di una certa gravità (avuto riguardo all'elevato numero di casi in cui il trattamento sanzionatorio viene determinato muovendo, appunto, dalla pena minima). Va peraltro rilevato che tale scelta legislativa ha provocato una vibrata reazione del mondo forense: in un documento presentato alla Commissione giustizia del Senato (26 aprile 2016), l'Unione delle Camere Penali ha manifestato la sua netta contrarietà «ad aumenti di pena indiscriminati con pretese finalità di repressione dei fenomeni che di volta in volta sono avvertiti come di particolare allarme sociale», evidenziando che, da un lato, «la severità della pena edittale non ha alcuna effettiva ricaduta positiva di carattere preventivo circa la consumazione dei reati»; e che, dall'altro, «la scelta di aumentare le pene è in evidente contraddizione logica con le politiche fino ad oggi percorse dalla maggioranza tese ad individuare riti alternativi che producano un effetto deflattivo del processo e forme di espiazione della pena alternative al carcere. In entrambe le prospettive, l'aumento delle pene rischia di impedire concretamente la possibilità di accesso a questi strumenti alternativi». Non è la sola voce critica che si è levata sul punto. In dottrina, vi è chi ha interpretato gli inasprimenti sanzionatori della riforma come «un nuovo capitolo dell'esibizione di rigore che attraversa la produzione legislativa di legislatori di ogni colore politico. La presente e la precedente legislatura offrono esempi abbondanti» (D. PULITANÒ). Secondo altro Autore, «s'introducono fattori che alimentano il rischio di un nuovo incremento della popolazione carceraria. Infatti, i reati contro il patrimonio e soprattutto i furti sono da sempre quelli maggiormente presenti nelle statistiche penitenziarie»; ed inoltre «questo modo di procedere con inasprimenti sanzionatori mirati ora su questo ora su quel reato a seconda delle pressioni, reali o presunte, provenienti dall''opinione pubblica' genera vistose sperequazioni nel sistema» (F. PALAZZO). Analoghe preoccupazioni per «l'irragionevole innalzamento dei limiti edittali», che si pone in linea di continuità con altre recenti scelte di politica criminale, sono espresse da M. PELISSERO. Il corto circuito legislativo fra inasprimento delle pene e previsioni in mitius
Le critiche dell'avvocatura e del mondo accademico nascono, più che dagli specifici aumenti di pena introdotti dalla riforma, dalla constatazione che essi si collocano in un trend ormai in voga da diversi anni, costituito da una sorta di “riflesso condizionato” che spinge il Legislatore a dare attuazione ad incrementi delle sanzioni penali (o ad introdurre nuove figure di reato) sull'onda di campagne mediatico-politiche e di sollecitazioni provenienti dall'opinione pubblica (con l'avvertenza che, assai spesso, le prime fomentano le seconde). Peraltro, anche la concomitanza tra inasprimenti delle pene e previsioni di favore (sia sostanziali che processuali), che si registra in alcune parti della riforma, si pone in linea di sostanziale continuità con una tendenza ormai consolidata, costituita dalla serrata alternanza tra derive securitarie - che trovano espressione in sanzioni penali più rigorose e/o nell'introduzione di nuove fattispecie criminose -, spinte deflattive per i reati minori - che hanno trovato espressione in istituti di nuovo conio come la messa alla prova o la particolare tenuità del fatto (e oggi con le condotte riparatorie, peraltro limitate ai soli reati perseguibili a querela soggetta a remissione) - e sussulti di garantismo – come quelli contenuti in disposizioni processuali tese a restringere l'applicazione di misure cautelari detentive: ne è un chiaro esempio la legge 47/2015. È vero che, in alcuni casi, gli interventi del Legislatore che segnano questo percorso altalenante costituiscono, più o meno direttamente, l'attuazione di principi derivanti dalla normativa e dalla giurisprudenza sovranazionali. Si pensi, ad esempio, ai recenti interventi normativi per combattere la corruzione pubblica e privata; o alla legge 68/2015 sugli ecoreati, con la quale si è inteso attuare gli obblighi derivanti dalla direttiva Ue 2008/99; o alle disposizioni di cui alla legge 119/2013 e al d.lgs. 212/2015, in materia di vittime vulnerabili e violenza di genere, attuative dei principi introdotti dalle Convenzioni di Lanzarote e di Istanbul, nonché della direttiva Ue 2012/29. Accanto a queste disposizioni incriminatrici, si consideri peraltro che, nella stessa riforma Orlando, vengono introdotte norme processuali ispirate a maggiori garanzie per l'indagato o per l'imputato e derivanti da interventi delle Corti europee: si pensi all'obbligo di rinnovazione dell'istruzione dibattimentale in appello quando il pubblico ministero abbia appellato una sentenza di proscioglimento, chiara attuazione dei principi dettati dalla Corte di Strasburgo con le note sentenze Dan c. Moldavia, Manolachi c. Romania e altre. Ma, accanto a queste ipotesi, ve ne sono altre in cui lo stimolo raccolto dal Legislatore è del tutto estraneo a sollecitazioni provenienti da oltreconfine e deriva unicamente dalla scelta di assecondare l'opinione pubblica, nel neppure troppo occulto intento di “cavalcare”, a fini di consenso, manifestazioni di disagio sociale sui temi della sicurezza. Caso emblematico è quello della legge 41/2016, che ha introdotto i reati di omicidio stradale e di lesioni personali stradali, all'origine della quale vi fu, come si ricorderà, una petizione popolare che, pur nascendo dall'impulso di familiari di alcune vittime della strada, fu a lungo sostenuta e “trascinata” da mass media ed esponenti politici. A ben vedere, anche l'inasprimento delle sanzioni introdotto con l'odierna riforma parrebbe inscriversi in quest'ottica, ponendosi come risposta a spinte securitarie nascenti dal malcontento popolare e non come adempimento di obblighi internazionali o eurounitari. Peraltro, stando almeno ai dati ufficiali disponibili e più recenti, le statistiche riguardanti furti e rapine non sembrerebbero denunciare particolari incrementi: anzi, a giudicare da quelle fornite dal Dipartimento di Pubblica Sicurezza del Ministero dell'Interno al Sole24Ore e pubblicate il 3 ottobre 2016, il numero di furti denunciati all'Autorità su scala nazionale nel corso del 2015 risulta calato del 7 per cento rispetto all'anno precedente: in particolare quello dei furti in abitazione è sceso dell'8,3%. Quanto alle rapine, il calo delle denunce su base annua è pari al 10%. Certo, si potrà obiettare che si tratta di numeri riguardanti i reati denunciati, da cui restano fuori i reati per i quali non è stata presentata denuncia; e questo, almeno per i furti, potrebbe avere a che vedere con una forma di rassegnazione e di sfiducia dei cittadini piuttosto che con un reale calo del fenomeno criminoso. Quello che appare certo è che la percezione di insicurezza dei cittadini resta elevata ed è probabilmente a questa sensazione diffusa che si intende rispondere innalzando le pene. È stato acutamente rilevato che «Il sistema delle sanzioni e la parte speciale sono particolarmente esposti alla politica contingente» e che «di fronte a domande (di tutela o di ritenuta giustizia) provenienti dalla società e trasmesse dai media, la politica cerca risposte capaci di coagulare consenso» (D. PULITANÒ). Nell'esperienza attuale, sebbene sia diffusamente accettata almeno in teoria l'idea della necessaria proporzionalità delle sanzioni rispetto al disvalore contenuto nella violazione di precetti penali, si assiste a una produzione legislativa che interviene “pezzo per pezzo”, si misura sul contingente e incide sul sistema in modo non organico ma occasionale, nella quale non è difficile scorgere i segni dell'accettazione di un diritto penale fluido e mutevole (per lo meno nei suoi esiti sanzionatori) ed è altresì agevole percepire la reviviscenza di spinte verso un'idea retributiva della pena. In sostanza, come si è detto, parallelamente all'introduzione e alla giusta salvaguardia di strumenti di garanzia nei confronti di chi è assoggettato a un procedimento penale, si snoda un inseguimento fra Legislatore e opinione pubblica, nel quale il primo, attraverso interventi legislativi sanzionatori per lo più “parcellizzati” e disorganici, sembra rincorrere in modo sovente spasmodico e confuso le indicazioni provenienti dalla seconda. Ora, è ben vero che il senso della democrazia è, in definitiva, quello di raccogliere le esigenze, i sentimenti e le spinte provenienti dal corpo sociale, assicurandone la partecipazione alla vita collettiva e indirizzando conseguentemente le scelte politiche all'interno di soluzioni legislative coerenti con tali sollecitazioni, anche laddove esse si traducano in previsioni sanzionatorie di dubbia ragionevolezza: «conmalinconico disincanto, dobbiamo guardare al populismo penale come prodotto di una democrazia che va rispettata anche quando non ci piace» (ancora D. PULITANÒ). Tuttavia, non ci si può nascondere che questo approccio alla continua e disordinata correzione “al rialzo” dell'impianto sanzionatorio come risposta a manifestazioni di allarme sociale verso determinati comportamenti devianti (un approccio di cui anche le disposizioni in commento sembrano costituire espressione) può, in diversi casi, entrare in rotta di collisione non solo con altre misure caratterizzate da intenti deflattivi del contenzioso penale e di contenimento della popolazione carceraria, ma anche con il concomitante (e doveroso) approntamento, da parte del legislatore, delle necessarie garanzie procedimentali, alla cui attuazione presiedono (e sono tenute) le istituzioni giudiziarie. In conclusione
Anche in questa riforma, che pure prometteva di essere un intervento di sistema (e che, in alcune parti, non manca di prefigurare soluzioni interessanti), trova dunque conferma una tendenza ormai consolidata nella recente legislazione penale: ossia quella di fornire risposte sanzionatorie estemporanee, attraverso l'introduzione disorganica di aumenti di pena che, da un lato, si pongono in controtendenza rispetto ad intenti deflattivi e garantisti pur presenti nella legislazione recente (e in parte ripresi dalla stessa riforma); e che, dall'altro, non sembrano fornire risposte realmente efficaci a situazioni di disagio sociale, delle quali le istanze repressive provenienti dall'opinione pubblica sembrano costituire un'espressione. |