Il consenso informato nei trattamenti medico-chirurgici
16 Dicembre 2015
Abstract
Viene esaminata la possibile rilevanza scriminante del consenso informato del paziente ai trattamenti medico-chirurgici, in relazione alle varie tipologie di questi ultimi, analizzando i relativi orientamenti giurisprudenziali, che è ormai possibile ritenere, caso per caso, consolidati. Il consenso informato del paziente
L'attività medico - chirurgica, per essere legittima, presuppone il consenso del paziente, che non si identifica con quello di cui all'art. 50 c.p. ma costituisce un presupposto di liceità del trattamento, al di fuori di taluni casi eccezionali (allorché il paziente non sia in grado per le sue condizioni di prestare un qualsiasi consenso o dissenso, ovvero, più in generale, ove sussistano le condizioni dello stato di necessità di cui all'art. 54 c.p.) (Cass. pen., Sez. IV, n. 37077/2008), poiché il medico non ha un generale diritto di curare a prescindere dalla volontà dell'ammalato (Cass. IV, n. 11335/2008). Il consenso, per legittimare il trattamento terapeutico, deve essere informato, cioè espresso a seguito di una informazione completa, da parte del medico, dei possibili effetti negativi della terapia o dell'intervento chirurgico, con le possibili controindicazioni e l'indicazione della gravità degli effetti del trattamento. Il consenso informato, infatti, ha come contenuto concreto la facoltà non solo di scegliere tra le diverse possibilità di trattamento medico, ma anche di eventualmente rifiutare la terapia e di decidere consapevolmente di interromperla, in tutte le fasi della vita, anche in quella terminale (Cass. pen., Sez. IV, n. 37077/2008). Tale conclusione fonda sul rispetto del diritto del singolo alla salute, tutelato dall'art. 32 Cost., per il quale i trattamenti sanitari sono obbligatori nei soli casi espressamente previsti dalla legge. Il consenso del paziente al trattamento medico-chirurgico non deve essere espresso necessariamente per iscritto ma può dedursi anche dal comportamento complessivo tenuto dal paziente e dalla interpretazione datane dai prossimi congiunti (Cass. pen., Sez. V, n. 45801/2008).
Interventi eseguiti in assenza di valido consenso informato del paziente
La giurisprudenza ha escluso che dall'intervento effettuato in assenza di consenso o con un consenso prestato in modo invalido possa di norma farsi discendere la responsabilità del medico a titolo di lesioni volontarie ovvero, in caso di esito letale, a titolo di omicidio preterintenzionale, poiché il medico, salve situazioni anomale e distorte (nelle quali potrebbe ammettersi la configurabilità di tali reati: per esempio, nei casi in cui la morte consegua ad una mutilazione procurata in assenza di qualsiasi necessità o di menomazione inferta, con esito mortale, per scopi esclusivamente scientifici), generalmente agisce, pur se erroneamente, a fini terapeutici, e quindi con una finalità incompatibile con il dolo del delitto di lesioni (Cass. pen., Sez. IV, n. 37077/2008). Si è molto discusso in ordine all'individuazione dei limiti entro i quali eventuali lesioni involontariamente prodotte nell'esercizio dell‘attività medico-chirurgica, soprattutto nei casi di interventi disperati ovvero di urgenza, possono risultare non punibili. Con riguardo ai trattamenti medici non necessari (ad es., quelli estetici di chirurgia plastica), la non punibilità può derivare dalla combinazione dell'esercizio del diritto (all'esercizio della professione medica) ex art. 51 c.p., con il consenso dell'avente diritto (che si sia voluto sottoporre al trattamento) ex art. 50 c.p. Diversamente, in relazione agli interventi necessari, ove essi presentino notevoli rischi, la condotta del medico potrà essere qualificata come adempimento (ex art. 51 c.p.) necessitato (ex art. 54 c.p.) di un dovere, a tutela dell'altrui incolumità personale. In entrambi i casi, l'esonero da responsabilità postula imprescindibilmente il rispetto delle regole dell'arte medica, poiché in caso contrario, difettando l'intenzionalità (dolo), sussisterebbe pur sempre una ipotesi di colpa professionale. È sempre necessario (se utilmente acquisibile) il consenso del paziente a sottoporsi all'intervento; in relazione a detto consenso, peraltro, non potrebbe ritenersi operante la disciplina dettata dall'art. 5 c.c. (che vieta gli atti di disposizione del proprio corpo, quando cagionino una diminuzione permanente dell'integrità fisica), nei casi in cui il danno subito sia proporzionato al vantaggio ricevuto, o quanto meno auspicato come conseguenza dell'intervento. La giurisprudenza (Cass. pen., Sez. unite, n. 2437/2009) ha ritenuto che, ove il medico sottoponga il paziente ad un trattamento chirurgico diverso da quello in relazione al quale era stato prestato il consenso informato, e tale intervento, eseguito nel rispetto dei protocolli e delle leges artis, si sia concluso con esito fausto, nel senso che dall'intervento stesso è derivato un apprezzabile miglioramento delle condizioni di salute, in riferimento anche alle eventuali alternative ipotizzabili, e senza che vi fossero indicazioni contrarie da parte del paziente medesimo, tale condotta è priva di rilevanza penale, tanto sotto il profilo della fattispecie di cui all'art. 582 c.p. (lesioni personali), che sotto quello della fattispecie di cui all'art. 610 c.p. (violenza privata). Si è, in proposito, osservato che l'espletamento dell'attività medica trova il suo fondamento non tanto nella scriminante tipizzata del consenso dell'avente diritto ex art. 50 c.p., quanto nella stessa finalità, che le è propria, di tutela della salute, come bene costituzionalmente garantito (c.d. autolegittimazione dell'attività medica), e che il consenso informato è un diritto della persona che fonda sugli artt. 2, 13 e 32 della Costituzione: ove manchi o sia viziato il consenso “informato” del paziente, e non si versi in situazione di incapacità di manifestazione del volere ed in un quadro riconducibile allo stato di necessità, il trattamento sanitario risulterebbe eo ipso invasivo rispetto al diritto della persona di prescegliere se, come, dove e da chi farsi curare. È stata poi delineata la differenza tra intervento chirurgico realizzato contro la volontà del paziente (in tali casi la condotta del medico che abbia operato in corpore vili contro la volontà del paziente, direttamente o indirettamente manifestata, è sicuramente illecita, anche penalmente, a prescindere dall'esito, fausto o infausto, del trattamento sanitario praticato, trattandosi di condotta che quanto meno realizza una illegittima coazione dell'altrui volere) ed intervento chirurgico realizzato in assenza del suo consenso allo specifico trattamento praticato ma con esito fausto, ovvero il cui risultato abbia prodotto un beneficio per la salute del paziente (il che accade nel caso del mutamento del tipo di intervento operatorio, effettuato - in ipotesi – per ragioni di necessità, senza che tale variatio fosse stata in precedenza consentita dal paziente). Le Sezioni unite hanno escluso che questa fattispecie possa integrare gli estremi dell'art. 610 c.p. (violenza privata), che dovrebbe caratterizzarsi per una lesione od immediata esposizione a pericolo dei beni della vita, dell'integrità fisica o della libertà di movimento del soggetto passivo. Nel caso in cui il paziente anestetizzato abbia prestato il consenso ad un intervento chirurgico diverso da quello poi realizzato, ed alla relativa anestesia (ad esempio, quando, nel corso dell'intervento consentito, sia emersa la necessità clinica di operare diversamente da quanto previsto o programmato), le Sezioni unite hanno osservato che difetta la possibilità di configurare il requisito della costrizione, che richiederebbe il dissenso della vittima della condotta del medico agente, indotta a fare, tollerare od omettere qualche cosa, contro la propria volontà. Il chirurgo non potrà, pertanto, rispondere del delitto di lesioni per il sol fatto di essere intervenuto chirurgicamente sul corpo del paziente (salvo che nelle ipotesi teoriche di un intervento coatto), poiché, in realtà, la sua condotta mira a fini terapeutici, e, pertanto, la correttezza del suo agire dovrà essere valutata tenendo conto dell'obiettivo terapeutico perseguito e dell'esito dell'intervento, oltre che del rispetto o meno delle regole dell'arte medica: ove l'intervento chirurgico sia stato eseguito lege artis, e cioé come indicato in sede scientifica per contrastare una patologia ed abbia raggiunto positivamente tale effetto, dall'atto così eseguito non potrà dirsi derivata una malattia, giacché l'atto, pur se “anatomicamente” lesivo, non soltanto non ha provocato - nel quadro generale della salute del paziente - una diminuzione funzionale, ma è valso a risolvere la patologia da cui lo stesso era affetto. Le applicazioni successive.
Ancora con riguardo alla valenza del consenso del paziente, la giurisprudenza (Cass. pen., Sez. IV, n. 34521/2010) ha successivamente chiarito che, in caso di intervento medico-chirurgico con esito infausto, il consenso del paziente (che, se espresso validamente e nei limiti di cui all'art. 5 c.c., preclude la possibilità di configurare il delitto di lesioni volontarie, assumendo efficacia scriminante), non è necessario, purché l'intervento medico-chirurgico sia penalmente lecito, in presenza di ragioni di urgenza terapeutica o nelle ipotesi previste dalla legge; al contrario, in presenza di una manifestazione di volontà esplicitamente contraria all'intervento terapeutico, l'atto, asseritamente terapeutico, costituirebbe un'indebita violazione non solo della libertà di autodeterminazione del paziente, ma anche della sua integrità, ma, in caso di esito fausto dell'intervento, la sussistenza di un pericolo grave ed attuale per la vita o la salute del paziente, pur non scriminando la condotta, escluderebbe il dolo intenzionale di lesioni, in quanto il medico che interviene nonostante il dissenso del paziente, si rappresenta la necessità di salvaguardarne, cionondimeno, la vita o la salute poste in pericolo. Risponde di omicidio preterintenzionale il medico che sottoponga il paziente ad un intervento (dal quale consegua la morte di quest'ultimo) in assenza di finalità terapeutiche, ovvero per fini estranei alla tutela della salute del paziente, ad esempio provocando coscientemente un'inutile mutilazione, od agendo per scopi estranei (scientifici, dimostrativi, didattici, esibizionistici o di natura estetica), non accettati dal paziente; al contrario, non ne risponde, nonostante l'esito infausto, il medico che sottoponga il paziente ad un trattamento non consentito ed in violazione delle regole dell'arte medica, quando nella sua condotta sia rinvenibile una finalità terapeutica, o comunque la terapia sia inquadrabile nella categoria degli atti medici, poiché in tali casi la condotta non è diretta a ledere, e l'agente, se cagiona la morte del paziente, risponderà di omicidio colposo ove l'evento sia riconducibile alla violazione di una regola cautelare (Cass. pen., Sez. IV, n. 34521/2010). Con riferimento ad un intervento di chirurgia maxillo-facciale, non connotato dall'urgenza ma finalizzato a migliorare l'aspetto fisico del paziente in funzione della sua vita di relazione oltre che a regolarne la postura dentale, si è, infine, affermato che il consenso informato del paziente esclude la colpa del sanitario solo se esso non si limiti alla semplice enumerazione dei possibili rischi ed alla prospettazione delle possibili scelte, ma investa sia la mera riuscita dell'intervento, sia il giudizio globale su come la persona risulterà all'esito di quest'ultimo (Cass. pen., Sez. IV, n. 4541/2013: nel caso di specie, la suprema Corte ha ritenuto carente la motivazione assolutoria adottata dalla Corte d'appello relativamente alla condotta di un chirurgo che, benché avesse concordato con altri specialisti l'operazione di osteotomia mandibolare su una paziente, per eliminare l'eccessiva sporgenza degli incisivi superiori da cui la predetta era affetta, anziché sconsigliare l'intervento alla luce degli enormi rischi che esso comportava, vi aveva proceduto ugualmente, provocando alla donna tumefazioni e gonfiori permanenti al viso, difficoltà respiratorie e perdita di sensibilità al labbro, in tal modo costringendola ad un ulteriore intervento riparatore a distanza di quattro anni). In conclusione
Il consenso del paziente:
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