Esame diretto e controesame: come complicare le chiare regole del codice
17 Marzo 2016
Abstract
Dopo oltre un quarto di secolo dall'entrata in vigore del processo accusatorio, i professionisti del processo (giudici, P.M. e avvocati) non hanno ancora “recepito” lo schema adversary come il miglior metodo epistemologico per l'accertamento di un fatto. Quotidianamente nelle aule di giustizia si “registrano” le violazioni alle (poche e) chiare regole che il codice prevede in materia e si “sperimentano” le (molte) soluzioni di compromesso. Quelle poche volte, poi, che le questioni sul “metodo di assunzione della prova” sono approdate al giudizio di legittimità, le risposte sono state insoddisfacenti se non addirittura esse stesse fonte di ulteriori equivoci applicativi. La sensazione è che tutti i professionisti del processo “guidino una fuoriserie” senza neppure essere “culturalmente” abilitati alla guida di un veicolo. In questo lavoro non ci occuperemo di rassegne giurisprudenziali né di commentare le decisioni prese in materia. Cercheremo invece di rispondere ai quesiti quotidiani nei processi – chi esamina? chi controesamina? – attraverso quattro domande ridondanti nei vari paragrafi: come, quando, perché, che cosa. Atti preliminari ed atti introduttivi superficiali: il processo nasce male e cresce peggio ovvero quando le cattive “compagnie” ne condizionano la “educazione”
Ciascuna parte ha una tesi da sviluppare probatoriamente: il thema probandum. Per “scrivere” il tema (probatorio) utilizza uno strumento: la lista dei testimoni, periti e consulenti (art. 468 c.p.p.). Come? Nel processo accusatorio non sono ammesse sorprese: è fair. La lista ex art. 468 c.p.p. oltre alla indicazione dei testimoni deve contenere anche l'indicazione delle “circostanze su cui deve vertere” il loro esame. Quando? La lista va depositata in cancelleria almeno sette giorni liberi (dunque: otto in totale) prima della data fissata per l'udienza dibattimentale. Perché? Due sono le “mosse” probatorie successive al deposito della lista: 1) le richieste di prova (art. 493 c.p.p.); e 2) l'eventuale articolazione di prove contrarie (art. 468 comma 4 c.p.p.). Tutto molto semplice, come si vede. Che cosa accade, invece, nella prassi? a) Le liste contengono spesso un'indicazione delle circostanze che fa rimando, per relationem, ai “fatti di cui alle imputazioni”, come se nel processo si dovesse discutere d'altro. Oppure come se l'etimologia non dimostrasse che si tratta di elementi che circum stant all'imputazione. b) Talvolta, la parte ha cura di indicare temi più specifici “nelle circostanze contenute nel verbale di sommarie informazioni”. Come se il giudice conoscesse quel verbale e ne potesse “valutare” il contenuto. c) Le parti articolano le richieste di prova con un mero richiamo alla lista depositata, omettendo di indicare i “fatti che intendono provare” (art. 493 c.p.p.). d) I meno consapevoli arrivano finanche al “turpiloquio giuridico”: chiedono di controesaminare, come se non si trattasse di un diritto senza il quale il processo non sarebbe giusto nel senso costituzionale del termine; oppure riservano le produzioni documentali, come se fosse dovuta l'assunzione di una riserva; per non sbagliare, chiedono anche l'esame dell'imputato “ove presente e vi consenta”, come se la scelta potesse essere imposta. e) A questa, sicuramente limitata, gamma di errori di grammatica processuale non intende chiamarsi fuori neppure il giudice: egli s'accontenta di (quasi) tutto, comprese le liste dei testimoni contenenti circostanze di mero rinvio all'imputazione (tanto è consentito dalla giurisprudenza di legittimità, chi mai potrà sindacare?). S'accontenta, dunque. E si prepara a complicarsi la vita nel prossimo futuro: l'istruzione dibattimentale. Il risultato di tanta sciatteria:se il cuore del processo, l'istruzione dibattimentale, fosse un intervento chirurgico, la fase “pre-operatoria” sarebbe così superficiale che l'equipe non avrebbe scampo: manifesta negligenza, imperizia, e imprudenza! Uno dei momenti vitali della sequenza processuale, quello che prepara ad un processo di qualità, s'è ormai trasformato in un mero passaggio burocratico. I verbali di causa riflettono queste “cattive abitudini” che abbassano la qualità del processo: in alcuni casi, i giudici e le parti soprassiedono sulle “eresie” del verbale (ad esempio ve ne sono alcuni con la richiesta di controesame in prestampato). La malpractise viene tollerata, quasi accettata, come il male minore: il troppo carico del ruolo impone di snellire le procedure successive all'apertura del dibattimento e di concentrare l'attenzione sugli affari che sono in istruttoria dibattimentale. Una contingenza ovviabile, diventa occasione per “somministrare” al processo un virus. Un virus che si svilupperà nel prosieguo della sequenza processuale e che “infetterà” gli altri processi paralleli (quelli che lo accompagneranno nella quotidianità del “ruolo di trattazione”) sottraendo tempo, attenzione, risorse (anche mentali) al giudice, ai testimoni e alle parti. Tendiamo ad accusare il sistema: tutti i reati, da quelli bagatellari a quelli di competenza della corte d'assise hanno la medesima disciplina processuale. È vero solo in parte. In ogni caso le nostre responsabilità di professionisti del processo sono ben maggiori. Il primo errore è trattare nella medesima udienza affari di “prima trattazione” ed affari ad istruzione in corso. Il secondo errore è non dare agli atti introduttivi del dibattimento i corretti “spazi” e “giudizi di valore”: i giudici dovrebbero dichiarare inammissibili le liste testi non circostanziate; non dovrebbero accontentarsi dei richiami per relationem; e pazienza se la maggioranza di liste testimoniali malconfezionate proviene dall'accusa. La rivendicazione concreta del ruolo di terzietà è la migliore risposta ad un'anomalia del processo di parti: la colleganza tra giudice e accusatore. Il terzo errore è di prospettiva: l'osservanza delle regole di premessa probatoria è il presupposto di una istruzione dibattimentale di qualità. S'istruisce il processo: forte, sano e di qualità?
Siamo arrivati al cuore del processo: l'istruzione dibattimentale. Le premesse, come spesso accade nella prassi, non hanno preparato il terreno ad un corretto contraddittorio per la prova. Possiamo sperare che un processo educato male nella sue fasi iniziali cresca bene? Proviamo a vedere. Chi esamina è la parte che ha chiesto l'assunzione del teste (art. 498 c.p.p.). Il rapporto di prossimità tra la fonte e il tema probatorio, cioè la strumentale vicinanza tra il narrato del teste e la tesi della parte che ne ha chiesto l'escussione, impone regole fair: l'esame diretto dev'essere “neutro” e non sono ammesse suggestioni. Come? L'esame diretto ha ad oggetto le circostanze indicate nella lista (art. 496, comma 1, c.p.p.). Quando? La sequenza è quella prevista dall'art. 496 c.p.p.: prima i testi di accusa esaminati dal pubblico ministero; a seguire il controesame dalla difesa con possibilità, in quest'ultimo caso, di un riesame da parte del pubblico ministero. Terminato il programma probatorio dell'accusa, si cambia sequenza: sarà il pubblico ministero, se vorrà, a controesaminare i testi di difesa e quest'ultima avrà diritto a “chiudere” col riesame. Perché? La scelta di controesaminare non va assunta a cuor leggero e dipende dall'obiettivo che ci si prefigge. In sintesi: “demolire” l'attendibilità del teste a carico oppure “indurlo” a fornire una lettura alternativa dei fatti narrati. La tecnica consentita dal codice è quella della suggestione, vietata nell'esame diretto, che può essere “somministrata” in chiave assertiva guidando la risposta dell'esaminato. Il vantaggio del controesaminatore (quello di poter indulgere in suggestioni) ha la funzione di compensare l'avversità del teste. A tutti (esaminatore e controesaminatore) è invece vietato porre domande nocive: sono quelle che impediscono al teste di essere sincero e di mantenere fede all'impegno di verità assunto. Il meccanismo della suggestione tende a “verificare” la “tenuta” del narrato: se il teste resiste al controesame sarà valutato affidabile. È ovvio quindi che l'arma del controesame spetti alla parte che ha “perduto” la mini battaglia sui fatti narrati del teste. Ne abbiamo conferma nel caso del teste ex art. 507 c.p.p.ammesso d'ufficio: è affidato dal giudice, dopo aver risposto alle sue domande, alla parte che ne ha tratto beneficio dalle risposte; sarà questa ad esaminarlo (con i vincoli di lealtà accennati) e la parte “perdente” lo controesaminerà (con le libertà da suggestione implicite al controinterrogatorio). Inspiegabilmente, la prassi giurisprudenziale vuole che il teste “507 del giudice” sia “affidato” alle parti nell'ordine del 496 c.p.p.: si tratta di un inutile orpello al rispetto dell'ordine di assunzione delle prove (si è già al “507” e l'istruttoria è terminata; può farsi a meno del meccanismo del 496 c.p.p.). Costituisce corollario alla funzione del controesame il divieto al giudice di porre domande suggestive. In effetti il ruolo imparziale del giudice ne elimina l'interesse a falsificare una tesi probatoria anziché un'altra ma la regola non è stata codificata e fa parte delle linee guida elaborate dal LAPEC (Laboratorio Permanente Esame e Controesame). Si tratta di una “regola” che alcuni giudici non condividono ritenendo che proprio a chi spetti di decidere la causa non sia preclusa la “verifica di resistenza” mediante la suggestione. L'argomento, sebbene logico, contrastata con tutte le regole del processo accusatorio, finanche con quello “ibrido” italiano. In un caso di testimonianza del minore, la giurisprudenza di legittimità ha censurato l'utilizzo della suggestione da parte del giudice (Cass. pen., Sez. III n. 7373/2012). La scelta di controesaminare va assunta con particolare diligenza, per evitare di radicare la forza probatoria del narrato testimoniale. Ma la scelta dipende anche da fattori strategici. Si supponga che il teste sia stato ammesso sulle circostanze alfa, beta e gamma indicate nella lista. L'esaminatore ha intrattenuto il teste sulle sole circostanze alfa e beta. Se l'avversario controesaminerà, il teste sarà riesaminabile anche sulle circostanze gamma. Un esaminatore accorto e strategicamente organizzato potrebbe rischiare di rinunciare nel suo esame ad alcune circostanze confidando nella superficialità dell'avversario. Se questi, anziché star in silenzio, deciderà di controesaminare, l'esaminatore potrà chiudere col riesame con la certezza che non vi saranno repliche. Nella prassi si somministrano nel processo organismi geneticamente modificati
La linearità del meccanismo e le strategie che esso sottende, vengono alterate dalle applicazioni pratiche quotidiane. Innanzitutto le liste senza l'indicazione delle circostanze impediscono di regolare il contraddittorio per la prova e ostacolano, nella pratica, la distinzione dei temi di esame. Si è così affermata una prassi errata che tende a limitare i temi del controesame ai “soli aspetti” esaminati dall'avversario. Ma non dovrebbe essere così. Il controesaminatore ha un'unica cartuccia nel suo pallottoliere: se decide di servirsene, deve poter mirare verso tutti gli obiettivi, cioè verso tutte le circostanze indicate nella lista dall'avversario. E pazienza se questi sarà stato “generico” ed avrà fatto riferimento all'imputazione: chi è causa del suo mal pianga se stesso; il controesame potrà spaziare su tutto il perimetro del fatto imputato. Sembrano barocchismi quegli orientamenti giurisprudenziali che “riaprono irritualmente” al controesame laddove in riesame vengano tratti temi che non avevano costituito oggetto di esame. Si tratta di palliativi: il riesame riguarda, per definizione, i temi nuovi (art. 498, comma 3, c.p.p.)! Una volta che, nelle fasi preliminari, il giudice abbia ammesso la testimonianza sulle “circostanze di cui all'imputazione” avrà dato facoltà alle parti di esaminare e controesaminare su tutto il perimetro del fatto imputato e avrà “appesantito” l'istruttoria dibattimentale. Ecco un esempio in cui la fretta delle fasi preliminari danneggia lo svolgimento del processo e crea le condizioni per soluzioni così articolate da risultare incomprensibili rispetto alla semplicità del metodo avversariale. La regola (frequente nella prassi) che vorrebbe limitati i temi del controesame a quelli dell'esame può aver senso solo in due casi:
Il primo non si svolge su circostanze “annunciate” in lista e il limite del controesame è rappresentato dai temi esaminati. Analogamente quando le parti abbiano testi in comune e nessuna di esse abbia indicato le circostanze in modo specifico. In casi simili, fermo l'ordine di assunzione di cui all'art. 496 c.p.p., la difesa controesaminerà sui temi dell'esame del pubblico ministero, che potrà riesaminare. E viceversa allorché sarà la difesa in “manovra” coi propri testi. Altrimenti, e laddove le parti concederanno di invertire l'ordine di assunzione, ciascuna parte dovrà “annunciare” se esamina o controesamina perché sia sempre chiaro se il tema tende stressare quello avversario oppure ad edificare autonomi temi di prova. E ciò sulla evidente considerazione che solo nel primo caso sarà ammissibile l'utilizzo della tecnica del controesame. Diversamente opinando, il controesaminatore “fittizio”, in prevalenza la difesa, beneficerà del vantaggio da “posizione controesaminante”; sarà tradito il meccanismo (etimologicamente la prova evoca un risultato probo); e sarà compromesso il percorso di persuasione tra la parte esaminante/controesaminante e il terminale comunicativo: il giudice. In conclusione
Le regole del codice sarebbero chiare se fossero applicate senza “ansie da risultato”, cioè con l'obiettivo di riparare agli errori commessi nelle fasi preliminari precedenti all'istruzione. Tuttavia, appena in vigore il nuovo codice, la giurisprudenza costituzionale inventò il “principio di non dispersione delle fonti di prova” e per metter mani ad un'evidente forzatura ideologica furono necessarie ben due riforme del codice ed una costituzionale. Come è stato osservato, il nostro è un processo che tende verso un modello accusatorio. Continuiamo però ad avere “l'accusatorio sulle labbra e l'inquisitorio nel cuore”. Esiste una resistenza culturale ad accettare come metodo epistemologico il processo avversariale che si accompagna ad un ritardo culturale sia della magistratura sia dell'avvocatura. Nelle università non si insegna il metodo; nel post-universitario neppure, con la conseguenza che la fuoriserie è in mano a chi non ha neppure la patente. E il talento isolato, non compensa il pressapochismo diffuso. |