Le poche luci e le tante ombre della riforma Orlando
19 Giugno 2017
Abstract
Quello che, ancor oggi, tanti si ostinano a definire nuovo codice di procedura, insieme a quello che è invece uno dei più antichi (o vecchi) codici in uso, vengono, da tempo e periodicamente, parzialmente modificati da fonti normative che pensate per dar risposta a fatti, eventi e problemi che si presentano con cadenza sempre più preoccupante. Parliamo di quella che è stata efficacemente definita legislazione emergenziale, che in quanto tale ha sempre dato l'impressione, o la prova, di voler rispondere più alla pancia del Paese che all'esigenza di fare un reale passo in avanti sulla strada della funzionalità dell'ordinamento. Le riforme sono intervenute ora su un punto ora sull'altro di codici che, in epoche assai lontane tra loro, furono pensati ciascuno in forma unitaria, furono studiati per creare una regolamentazione uniforme ed unidirezionale di quelle stesse materie che ancor oggi tentano difficoltosamente di affrontare; vennero, entrambi e ciascuno, redatti per rivoluzionare il sistema vigente. La parziarietà di tali “riforme”, l'approccio di Governi diversi tra loro per ispirazione politica e, soprattutto, per spinta ideale e, purtroppo, un'evidente inadeguatezza hanno prodotto il risultato di farci totalmente perdere l'unitarietà di ciascun codice e, con essa, la possibilità di dare interpretazioni che facciano sicuro affidamento sulla volontà del Legislatore, sui principi ispiratori, sul raffronto con principi sistemici e sistematici. Diritto Penale e Procedura Penale appaiono ormai, in effetti, più rimaneggiate che riformate. Senza che ciò possa andare a vantaggio di chi ne fa strumento giornaliero di lavoro o di chi ha tenuto condotte per le quali ne subirà un'applicazione a volte incomprensibile e, comunque, tutt'altro che certa. Così, uno dei principali problemi che si tenta oggi di affrontare è quello della prescrizione dei reati e non, invece, quello delle reali cause che hanno portato il processo italiano, penale e civile, a essere tanto lungo quanto inefficace. Certamente vero è che la prescrizione rappresenta, in sé e per sé, il fallimento dello Stato nella propria pretesa punitiva o, quantomeno, di corretta e completa valutazione delle condotte che sembrano esser state assunte in violazione di norme imperative. Ma altrettanto vero è che allungare il tempo, al cui decorso il fallimento è legato, è solo uno dei modi in cui il problema può essere affrontato. E non necessariamente il migliore. Gli altri modi, come ad esempio una seria e ulteriore depenalizzazione ed una più adeguata messa a disposizione di risorse, mezzi e personale, importerebbero una più approfondita analisi della situazione di fatto ed un più adeguato e consapevole utilizzo di scienze e conoscenze, che non possono dare risposte utili nei tempi contingentati a disposizione della politica. Anche nel caso della riforma in argomento, pur indiscutibili apparendo certamente tanto la volontà di trovare risposte adeguate quanto la necessità di dar soluzione a problemi veri e seri, le scelte operate non sembra possano rivelarsi funzionali alla pretesa iniziale. Rimandando l'analisi dei singoli capi della riforma alla trattazione che, di essi, ilPenalista.it offrirà a breve ai propri lettori, si vuol qui fare una disamina generale degli elementi che la compongono. Assolutamente evidente appare la finalità deflattiva della nuova causa di estinzione di reati, introdotta nel codice penale con l'art. 162-ter, che permette all'imputato di evitare il processo se, in fase preliminare al dibattimento di primo grado, operi restituzioni e risarcimento o ne faccia offerta in forma reale e in misura che possa esser valutata congrua dal giudice. Ove possibile, inoltre, l'imputato dovrebbe eliminare le conseguenze dannose o pericolose del reato per cui è processo. Seppur applicabile solo ai processi per reati perseguibili a querela rimettibile, la misura è, almeno potenzialmente, tale da comportare una notevole riduzione dei carichi attualmente gravanti sul sistema giustizia, notoriamente ridotto al collasso. Ancor più evidente diviene il fine deflattivo ove si consideri che la condotta virtuosa può essere adottata anche nel corso dei processi pendenti in qualunque stato, in primo o secondo grado, alla data di entrata in vigore della nuova disposizione; quindi, ben oltre il limite che diventerà insuperabile quando la riforma entrerà a regime; e ciò purché l'imputato si attivi durante (non viene indicato un termine diverso) la prima udienza successiva all'entrata in vigore della norma. La deflazione dei carichi che gravano su tutti gli uffici giudiziari e contribuiscono a rendere ingestibile il sistema è intento certamente apprezzabile. Tuttavia, la realizzazione, che di quest'intento si ipotizza, sembra poter sollevare più d'una perplessità. Innanzitutto, non si mancherà di sottolineare il fatto che il risarcimento del danno è prevalentemente economico, se non monetario; esso, pertanto, graverà in modo diverso su soggetti chiamati a rispondere del medesimo reato ed introdurrà, conseguentemente, una nuova ed intensa forma di discriminazione tra soggetti che, al cospetto della legge, dovrebbero avere medesima dignità, posizione e valutazione. Meno gravoso sarà la sforzo dell'imputato abbiente rispetto a quello cui si esporrà chi ha una posizione più umile. Addirittura impossibile sarà, invece, una spontanea attivazione virtuosa da parte degli imputati che hanno diritto al patrocinio a spese dello Stato (i quali, peraltro, non vorranno contraddire un'ordinanza di accoglimento eventualmente “generosa”). Eppure, il risultato cui tanta virtù dovrebbe tendere è uguale per tutti: sfuggire al processo, quantomeno nei casi in cui la condanna appaia probabile. Il risultato effettivo, invece, sarà che l'imputato abbiente potrà schivare con poco sforzo quella stessa condanna che, per fatti assolutamente sovrapponibili, colpirà chi non possa permettersi di fingere buona volontà. Risultato ulteriore, e francamente poco apprezzabile, rischia di essere quello di rendere evidente che la pena, almeno nei casi di reati procedibili a querela, non trova giustificazione nelle teorie classiche (retribuzione, mantenimento dell'integrità dell'ordinamento, minaccia) per essere invece uno spauracchio finalizzato al riequilibrio di posizioni private, turbate dalla condotta oggetto di rubrica penale ma non più valutabili dal giudice. Ulteriore titubanza fa sorgere la formulazione del testo, laddove non si chiarisce la differenza tra restituzioni e risarcimento, da un lato, ed eliminazione delle conseguenze dannose (basterà un solo adempimento o sarà necessaria la compresenza di tutti?); e si indica l'obbligo di eliminare queste ultime, stemperando però il tutto con la genericità di quell'ove possibile che può temersi darà adito a valutazioni caso per caso e, quindi, a qualche, probabile ed incolpevole arbitrio. La prescrizione
Altro intento che anima la riforma è, evidentemente, quello di contrastare l'ormai insostenibile e continua ricorrenza della prescrizione, che rappresenta certamente la chiara dimostrazione del fallimento del sistema. Anche in questo caso, sorgono perplessità. Innanzitutto va considerato che, da studi statistici meritevoli di credito, emerge che il 70% delle prescrizioni matura negli uffici della procure della Repubblica. E che il 65% dei processi che giungono alla sentenza di primo grado avanti il giudice monocratico si conclude con una assoluzione. L'uno e l'altro dato sembrano dimostrare che i numeri elevati non sono l'unica causa delle disfunzioni per cui si perviene alla resa. Si tratta, ben più probabilmente, di un problema di organizzazione del lavoro, che soffre peraltro delle conseguenze di una ormai cronica, grave carenza di personale. Mancano i magistrati; e manca anche chi li possa assistere. Per conseguenza, spesso forzata, non c'è modo di smaltire le enormi sopravvenienze che annualmente vanno a gravare gli uffici di chi deve dirigere le indagini, valutare pro e contro, istruire il processo, redigere i capi d'imputazione, presentare istanze di archiviazione e seguire, insomma, tutta la delicata e complessa attività demandata dalla legge. Il risultato sta tanto nei numeri delle assoluzioni, tanto rilevante da dimostrare che troppi processi vengono istruiti con distratta approssimazione, quanto nelle prescrizioni maturate ancor prima della fine delle indagini, che dimostrano invece come la giornata lavorativa non possa bastare a smaltire carichi che, spalmati sui un numero insufficiente di magistrati, funzionari e personale di cancelleria, non possono essere validamente affrontati. In quest'ottica, la parziale riforma del regime delle prescrizioni non potrà dare risultati apprezzabili. È ben vero che il termine è stato spostato più in là; ma ciò produce un risultato ben diverso da quello che si vorrebbe raggiungere. È stato, infatti, reso insostenibilmente lungo il periodo in cui l'imputato dovrà convivere con l'ansia da processo, con un carico pendente che può rendergli difficoltosa la ricerca di occupazione o un avanzamento di carriera, con un procedimento che, allungandosi a dismisura, diviene anche più costoso. Ma non si è risolto, e neppure affrontato, il problema delle prescrizioni in procura; né quello del tempo e della maggiore attenzione da dedicare ai procedimenti in fase iniziale. Ulteriore effetto, negativo, è quello di rendere l'istituto della prescrizione ancor più lontano dal principio ispiratore che dovrebbe sempre animarlo. La prescrizione è, infatti, istituto di natura probabilmente sostanziale (ma ciò è oggetto di un dibattito mai risolto) che nasce dall'esigenza di assegnare un termine massimo ed insuperabile alla pretesa punitiva dello Stato, comunque essa sia giustificata. Decorso un tempo “sufficiente”, lo Stato non ha più interesse a sanzionare la quasi totalità delle condotte che violano norme penali; vuoi perchè la punizione non costituisce più minaccia funzionale, vuoi perché non ha senso punire un soggetto che, proprio per il decorso di un termine solitamente piuttosto lungo, non è più quello che ha commesso la violazione. Vuoi perchè l'applicazione della sanzione non serve più a “pagare il fio” di ciò che si è commesso. Vuoi perchè una punizione tanto lontana dai fatti non ricompone l'ordine violato. Qualunque sia il motivo, la punizione applicata dopo troppo tempo dai fatti non dovrebbe più rientrare tra le cose cui il potere statuale possa avere interesse. E invece la riforma in argomento giunge ad allungare un termine già fin troppo lungo, senza minimamente por mano ai problemi che hanno determinato la sostanziale incapacità dell'ordinamento a tentare una risoluzione efficace. Più d'una disposizione ha per oggetto l'innalzamento della soglia minima di pena; la misura potrebbe avere il fine di minacciare severità come conseguenza di reati che, più di altri, creano allarme sociale e sono, quindi, più temuti dalla generalità dei consociati e più odiosi per lo Stato. In effetti, va detto che è certamente vero che il giudice, in moltissimi casi di reati commessi da incensurati o di fatti di reato che si rivelano non connotati da particolare gravità, prende a metro di comparazione la pena minima edittale, per poi commisurarla al fatto specifico con tutta quella nota serie di mezzi che ha a disposizione. L'innalzamento di tale soglia minima di pena produce, ovviamente, un aumento della severità minacciata al potenziale trasgressore. Ma è anche vero che l'innalzamento del minimo edittale rende impossibile o problematica la concessione della sospensione condizionale della pena. Ed ecco quindi che, anche in questo caso, la riforma sembra aver dato attenzione alla pancia del Paese. Le proteste di popolo, abbondantemente strumentalizzate ed amplificate dalla stampa, relative ai “troppi” arresti che si concludono con una remissione in libertà (magari per effetto della norma che impedisce comunque l'applicazione di misure a chi appaia poter godere proprio della sospensione di pena) trovano qui una risposta, più politica che altro, che non potrà risolvere un reale o supposto problema di recrudescenza dei reati; ma incontrerà – o creerà – consenso. È notorio, infatti, che la gravità della pena non costituisce deterrente funzionale e dissuasivo. Diversamente, tutti gli Stati che prevedono la pena di morte non dovrebbero registrare omicidi. Rendere meno agevole la sospensione della pena, invece, rende più probabile l'applicazione di misure e più difficile la remissione in libertà. Ciò costituisce risposta alla, peraltro fondata, preoccupazione che la società mostra sempre più spesso e sempre più intensamente. Va però in controsenso rispetto all'esigenza, costosamente e gravemente sanzionata all'Italia, di mantenere la popolazione carceraria entro limiti numerici che consentano di assicurare dignità a ciascun recluso. In buona sostanza, le contraddizioni sono molteplici e non facilmente dirimibili. È esperienza comune che il difensore d'ufficio, domiciliatario inconsapevole ed incolpevole, riceva notifiche per conto dell'assistito, il quale abbia eletto domicilio nel suo studio. Ciò ha creato problemi di non poco momento, in via quasi esclusiva proprio a quei difensori che intenderebbero esercitare nel migliore e più attento dei modi il delicatissimo ufficio, peraltro irrinunciabile. Accadeva infatti che il soggetto, appena sottoposto a procedimento, eleggesse domicilio nello studio del difensore senza mai averlo avvertito e, molto spesso, senza mai averlo neanche visto. Ciò accadeva – anche – per effetto di un invogliante invito rivolto dalle forze dell'ordine, a ciò ispirate dalla necessità di dare apparente, formale regolarità a un iter fatto di notifiche successive impossibili da portare a compimento per l'informale e sostanziale “irreperibilità” di moltissimi indagati, soprattutto stranieri. Il difensore non aveva, come non ha, strumenti per trovare chi si è nascosto o vive in situazioni precarie; e non ha, quindi, modo di preparare al meglio una strategia processuale, di conoscere la posizione e la versione dell'assistito. Non può farsi rilasciare procura speciale per un rito alternativo neppure nei casi in cui, senza abuso alcuno, ritenga in tutta onestà che rappresenti la scelta migliore e più adatta al caso. Tutto ciò in nome di una regolarità solo apparente, che consentiva – in quanto tale – la prosecuzione di un procedimento in cui, però, l'indagato prima e l'imputato poi non erano effettivamente in condizione di difendersi in modo funzionale. Perchè non poneva il difensore in condizioni di esercitare al meglio il proprio ufficio. A ciò pone rimedio l'integrazione dell'art. 162 del codice di rito, cui è stato aggiunto il comma 4-bis, a mente del quale la dichiarazione di elezione di domicilio nello studio del difensore d'ufficio ha effetto solo in presenza di un formale assenso del difensore medesimo. Ciò, per converso, offre al difensore la possibilità di non esporsi alla responsabilità, morale ma anche professionale, di affrontare un procedimento senza poter avere confronto alcuno con l'assistito, senza potergli suggerire le scelte più funzionali ai suoi interessi. Ovviamente, ciò comporterà un aumento delle difficoltà, già considerevoli, da affrontare per reperire soggetti che, per uno stato di fatto o per precisa volontà, vogliano eludere la pretesa punitiva e perfino l'instaurazione del processo; la risoluzione di tal problema passerà da altre strade. La durata massima delle indagini (art. 407 c.p.p.) non è stata modificata. Non era evidentemente possibile richiedere un'accelerazione a chi, almeno al momento attuale, non riesce già ad impedire il determinarsi della prescrizione per superamento di un termine più breve di altri (mediamente, sei anni invece dei sette e mezzo dibattimentali). Così, l'accelerazione – comunque da coltivare – viene pretesa dal nuovo comma 3-bis dell'art. 407 c.p.p. mediante la fissazione di un nuovo termine obbligatorio, decorrente dalla scadenza del termine massimo di durata delle indagini (18 mesi, prorogabili) o dalla scadenza dei termini fissati dall'art. 415-bis c.p.p. Entro tale termine, anch'esso prorogabile, il pubblico ministero dovrà necessariamente esercitare l'azione penale o chiedere l'archiviazione; in difetto, automaticamente, interverrà l'avocazione delle indagini da parte della procura generale. A quest'ultima non è stata concessa facoltà di scegliere se avocare o meno («Il procuratore generale […] dispone […] l'avocazione delle indagini preliminari») e, quindi, dovrà necessariamente intervenire (prevedibilmente, assai spesso) a porre “rimedio” a ciò che continua ad esser trattato come una semplice inattività degli inquirenti. Tutto ciò senza però aver previsto la possibilità di integrare quegli uffici, che pure hanno già altri compiti istituzionali, con nuovo personale, che possa sopperire a quello che sembra doversi prevedere come un corposo e gravoso ulteriore carico, che giungerà da ogni procura di ogni distretto con cadenze periodiche piuttosto intense. E, soprattutto, senza aver previsto un termine da assegnare alle procure generali, alle quali potrebbe esser stato semplicemente trasferito l'onere e la responsabilità di veder inutilmente trascorrere altri tempi lunghi, che condurranno poi, comunque, alla prescrizione. Ci si potrebbe chiedere come potranno fare, nelle procure generali, a vagliare quella stessa quantità di fascicoli e di posizioni che, nelle procure del distretto, un numero maggiore di magistrati non è riuscito a vagliare per tempo? La soluzione sarà la scelta, da parte delle procure generali, di mandare a giudizio più reati di quanti se ne possano, approfonditamente, vagliare? O, da parte delle procure, di iscrivere con ritardo nel registro notizie di reato? O, ancora, di ritardare il più possibile il 415-bis? Nessuno immagina che le procure d'Italia possano escogitare sistemi per aggirare la legge ma è davvero difficile immaginare soluzioni efficienti, che possano evitare l'intrapresa di sempre possibili azioni disciplinari nei confronti di chi, anche senza colpa alcuna, si vede scadere termini su termini e non riesce ad affrontare arretrati e sopravvenienze. Anche in questo caso, quindi, non sembra sia stata adottata una soluzione atta a risolvere il problema – sempre quello – dell'insufficienza degli organici. O dell'enorme numero di procedimenti penali. L'organizzazione può certamente esser migliorata e, probabilmente, a tal fine non sarebbe estraneo un ricorso all'esperienza ed alla capacità di di avvocati e magistrati, da coinvolgere nella partecipazione a organismi consultivi per lo studio dell'attuale situazione di collasso, nonché dei possibili rimedi da adottare in materia di organizzazione del lavoro di procure e tribunali. Deflattivo e acceleratorio sembra, con tutta evidenza, l'intento che ha portato alla reintroduzione dell'istituto del concordato in appello, presente nel nostro ordinamento fino alla sua, non recentissima, abrogazione. Si tratta, notoriamente, di un istituto per il quale le parti, avanti il giudice d'appello, possono concordemente proporre al giudice l'accoglimento di alcuni tra i motivi dell'impugnazione; nella versione odierna, ciò può farsi anche senza esprimere chiaramente una rinunzia agli altri motivi. Solo in caso di accoglimento di tale proposta, gli altri motivi si intenderanno come rinunciati. Si tratta di un aggiornamento positivo, che consente di limare gli effetti negativi della sentenza di condanna, adeguandola ad emergenze processuali non sufficientemente valutate o non accolte, relativamente alle quali anche il rappresentante della pubblica accusa dichiari di concordare con la prospettazione difensiva. Tale concorde valutazione, naturalmente, resta poi sottoposta al vaglio del giudice, comunque libero di rigettare la prospettazione e di disporre per la prosecuzione del dibattimento nella forma ordinaria. A differenza del comma di cui sopra (1-bis), il comma 3-bis introduce invece una reale novità nell'ordinamento processuale, derivante dal disposto della recente sentenza Dasgupta, emessa dalle Sezioni unite della Suprema Corte di cassazione in ordine al divieto di reformatio in peius: ove il pubblico ministero appelli una sentenza di assoluzione per motivi attinenti la valutazione della prova dichiarativa, il giudice deve disporre la rinnovazione dell'istruzione dibattimentale. In questo caso, nessuna accelerazione viene apportata al corso del procedimento, che subirà anzi un rallentamento dovuto alla necessità di ripetere la prova per testi al fine di valutare più attentamente e direttamente la portata delle dichiarazioni rese. Si tratta, com'è chiaro, di un'attenzione alle esigenze difensive dell'imputato nel caso in cui le dichiarazioni testimoniali, già vagliate dal primo giudice, debbano avere un vaglio finalizzato a una nuova e pretesamente diversa valutazione. Per la verità, la sentenza Dasgupta (28 aprile 2016, Pres. Canzio, rel. Conti) era andata oltre il contenuto letterale – e limitativo – della norma di legge. La sentenza aveva infatti meglio specificato che la rinnovazione dell'istruzione è necessaria quando si tratti di appello fondato sulla valutazione di prova dichiarativa ritenuta decisiva. Ciò in ragione di un'interpretazione convenzionalmente orientata dell'art. 603 c.p.p. ex art. 6, par. 3, lett. d) della Cedu. Una riforma di sentenza assolutoria, in difetto di rinnovazione dell'istruttoria, è stata infatti annullata per vizio di motivazione, deducibile ex art. 606, comma 1, lett. e) c.p.p. Stesso principio e stesse valutazioni, secondo la sentenza della Corte regolatrice, valgono per l'appello promosso dalla parte civile. La nuova formulazione dell'art. 602 non fa accenno alla decisività della prova da rinnovare, né all'appello della parte civile. È prevedibile che l'autorevolezza indiscussa della Suprema Corte e la nota funzione di nomofilachia si incaricherà di modellare le sentenze in materia secondo il più ampio disposto, in parte rimasto sconosciuto al Legislatore. Ancora a proposito dell'autorevolezza della Suprema Corte, ed in particolare delle sue Sezioni unite penali, viene addirittura ampliata la portata vincolante delle decisioni di queste ultime con il nuovo comma 1-bis dell'art. 618 c.p.p.: ove una sezione semplice della Corte non ritenga di condividere il principio di diritto enunciato dalle Sezioni unite, deve rimettere la questione alle stesse Sezioni; non può quindi decidere in difformità. Ciò ha il chiaro effetto di potenziare la stabilità di interpretazione dei principii di diritto, interpretabili dalla Corte dotata di nomofilachia e quindi, a maggior ragione, nella propria massima espressione. Da molto tempo, ormai, il Primo Presidente della Corte di cassazione, durante l'inaugurazione dell'anno giudiziario come in qualunque altra occasione pubblica, ha sollevato il grave problema in cui si trova la Corte stessa, enormemente appesantita da una quantità di ricorsi che non trova riscontro in altre Corti Supreme e non consente un funzionamento agevole. Naturalmente, non è neppure pensabile una effettiva limitazione alla facoltà di impugnazione da parte di chi ha subito condanna che ritiene ingiusta o illegittima. Oltretutto, consistenti limitazioni derivano già dalla necessità che l'impugnazione riguardi esclusivamente motivi di diritto, peraltro sussumibili nella ghiera prevista dall'art. 606 c.p.p. Con la riforma in argomento viene cancellata la possibilità, prevista dall'art. 613 c.p.p., che la parte provveda personalmente a sottoscrivere il ricorso, le memorie e i motivi nuovi. Tutto, da oggi in poi, potrà essere sottoscritto solo dal difensore iscritto all'albo speciale della Corte di cassazione. Il fine è chiaramente deflattivo: limitare il numero dei ricorsi da esaminare, già residuali rispetto al numero complessivo di impugnazioni che pervengono alla Corte ed il cui 50%, circa, viene dichiarato improcedibile dalla 7° Sezione della Corte di legittimità. La novità dovrebbe esser salutata con soddisfazione dalla classe forense, stante la indiscutibile spinta in pro di una maggiore professionalità e preparazione degli iscritti all'albo speciale, che si auspica non si abbasseranno a “firmare” ricorsi redatti direttamente dagli imputati e porti al legale per evidenti motivi economici. L'art. 146-bis delle norme di attuazione, coordinamento e transitorie del codice di procedura penale disponeva che l'imputato di un delitto previsto all'art. 51, comma 3-bis o all'art. 407 comma 2, lett. a), n. 4 del codice di rito, ove si fosse trovato a qualunque titolo in stato di detenzione in carcere, avrebbe dovuto partecipare a distanza al dibattimento solo in pochi e determinati casi. L'articolo in questione è stato riformato nel senso che, ove imputato di quei reati, deve partecipare a distanza a qualsiasi dibattimento, anche relativo a reati per i quali sia in stato di libertà. E perfino alle udienze, civili o penali, ove sia solo testimone. Si tratta, com'è chiaro, di una effettiva limitazione alla facoltà dell'imputato di partecipare al proprio dibattimento nel modo che ritenga più funzionale; e cioè, quasi sempre, godendo del diretto contatto con il proprio difensore e della conseguente possibilità di consultarsi con lui. Vero è che, nella situazione imposta dal codice, all'imputato va garantito un collegamento audio e video che gli consente di intervenire e di sentire perfettamente, di seguire tutto ciò che accade. Ma altrettanto vero è che il collegamento audio-video è solo un succedaneo della presenza e garantisce quindi un minor livello di partecipazione alle vicende processuali. Sul punto, com'è notorio, si è chiaramente espressa l'Unione delle Camere Penali Italiane, che ha deliberato più astensioni, finalizzate a paralizzare l'attività giudiziaria per protesta contro una iniziativa giudiziaria giudicata incongrua rispetto al livello della civiltà giuridica italiana. In conclusione
Probabilmente, come sostenuto dagli schieramenti politici che hanno osteggiato l'iter legislativo, l'importanza e la delicatezza delle questioni esaminate dal progetto di riforma, tutte relative alla funzionalità ed efficienza, anche ordinamentale, del nostro sistema giustizia, avrebbe meritato vaglio più attento ed approfondito ed un confronto d'aula che, con il voto di fiducia, è del tutto mancato. |