Lesioni colpose. Valutazione della congruità dell’offerta riparatoria per estinguere il reato
20 Settembre 2017
Il delitto di lesioni colpose, ex art. 582 c.p., è procedibile a querela di parte «se la malattia ha una durata non superiore ai venti giorni» e la competenza spetta dunque al giudice di pace. Nell'ipotesi in cui il pronto soccorso determini, inizialmente, una durata della malattia di dieci giorni ma, alla querela, venga allegata la prescrizione del “medico di famiglia” di prolungare la malattia di trenta giorni (per un totale di quaranta giorni di malattia), quali sono i giorni determinanti per stabilire la competenza? I dieci giorni stabiliti al pronto soccorso o occorre tener conto anche del prolungamento di trenta giorni da parte del medico di famiglia? Inoltre, che valore assumono le lesioni diagnosticate dal medico di famiglia? E quali sono i parametri per i quali il giudice di pace deve stabilire la congruità dell'offerta? Infine, nel caso l'imputato voglia avvalersi della nuova procedura di cui all'art. 162-ter codice penale, che prevede l'estinzione del reato per condotte riparatorie, secondo quali parametri il giudice di pace designato in quel giudizio dovrà ritenere congrua l'offerta riparatoria?
Com'è notorio, la recente Riforma Orlando ha introdotto notevoli modifiche al codice penale, tra le quali il nuovo istituto della estinzione del reato per effetto di una condotta riparatoria. Si tratta, com'è evidente e com'è stato sottolineato sin dai primi commenti dottrinari (vedi Speciale riforma giustizia penale) di una riforma che, almeno nella parte che riguarda l'oggetto del presente intervento, mira alla deflazione. Altrettanto evidente appare la somiglianza dell'istituto con la trita figura della remissione di querela per effetto di trattative tra le parti, che restano sempre sconosciute agli atti processuali e che abbiano portato, in un modo o nell'altro, alla tacitazione di ogni pretesa risarcitoria. In particolare, il nuovo strumento dell'estinzione del reato mira a favorire l'uscita dal processo – e quindi la riduzione delle pendenze negli uffici giudiziari e delle consequenziali spese – di quegli imputati che, dopo aver posto in essere condotte penalmente rilevanti ma di gravità limitata, pongono in essere attività riparatorie, anche nel caso in cui tali attività non siano state accettate dal danneggiato e non abbiano quindi procurato una remissione della querela. Il codice penale, all'art. 162-ter prevede infatti la possibilità di pervenire alla dichiarazione giudiziale di estinzione del reato in favore di chi ha interamente riparato il danno conseguente al reato, mediante restituzioni e/o risarcimento ed abbia eliminato, ove possibile ed al contempo, tutte le conseguenze dannose o pericolose del reato commesso. Tutto ciò, con i temperamenti di cui si dirà, anche contro la volontà di chi dal reato abbia subito danno. All'evidenza, siamo nel caso di procedimenti relativi a condotte che hanno una sicura rilevanza penale, seppur astratta, e che si pongono, quindi, un gradino al di sopra delle condotte irrilevanti, di quelle nulle e di quelle, non abituali, che si siano estrinsecate in un fatto di particolare tenuità e possano pertanto esser giudicate non punibili ex art. 131-bis codice penale. La riforma ha quindi per oggetto, in buona sostanza, condotte da cui derivi un reato procedibile a querela rimettibile; restano quindi esclusi dal novero i reati di violenza sessuale e quelli relativi ad atti sessuali con minorenni, la cui querela non è mai rimettibile. Appare a taluni, non al sottoscritto, controversa la questione per gli atti persecutori di cui all'art. 612-bis c.p. che prevede una “rimettibilità” solo processuale. La riforma non fa differenza tra remissioni semplici e remissioni da esperirsi al cospetto del giudice; non sembra possibile introdurne da parte dell'interprete. La nuova disciplina prevede che il giudice applichi la nuova figura di estinzione del reato sentite le parti e la persona offesa. La dizione letterale approntata dal Legislatore sembra doversi interpretare nel senso che il giudice deve sentire il parere sia delle parti processuali (quelle obbligatorie come P.M. ed imputato e quelle eventuali, che abbiano assunto la veste di parte costituendosi formalmente nel giudizio) che de la persona offesa, cioè del soggetto titolare del diritto leso dal reato, che spesso coincide con il soggetto che ha subito danno dalla condotta oggetto di contestazione penale e non ha ancora una veste processuale. Evidente appare dal testo la circostanza che la legge di riforma ha introdotto una sorta di parere obbligatorio non vincolante, per adempiere al quale il giudice deve sentire le ragioni delle parti e della persona offesa per poi valutare, come sempre in assoluta autonomia, la serie di circostanze che lo condurranno alla valutazione della possibilità di dichiarare l'estinzione del reato. Le parti potranno dare la loro versione, chiarendo al giudice tutte le circostanze che il processo, allo stato iniziale, non ha ancora potuto chiarire. In particolare, la parte offesa (o la parte civile, o la persona offesa) può naturalmente esprimere il proprio dissenso ed il proprio eventuale rifiuto nei confronti di un'offerta risarcitoria che, per avere effetto processuale, deve però essere formale; sembra consequenziale, anche se il testo della riforma non lo specifica, che all'offerta reale debba far seguito – in caso di rifiuto – anche il formale deposito delle somme o delle cose oggetto di offerta. Diversamente, una semplice ed inaccettabile offerta a chi si sa non accetterà produrrebbe un ingiustificato allungamento dei tempi processuali, senza peraltro fornire al giudice valida materia da giudicare. A quel punto, il gudice dovrà valutare i dati offerti alla sua cognizione ed esprimere il proprio convincimento circa la congruità dell'offerta risarcitoria; in caso di ritenuta sua congruità, dovrà dichiarare l'estinzione del reato. In caso contrario, ordinerà procedersi oltre ma, a quel punto, dovrà affrontarsi la questione di una possibile incompatibilità per aver conosciuto l'interezza degli atti processuali e del materiale probatorio. Di ciò, però, potrà discettarsi in altra sede.
Veniamo ora più strettamente all'oggetto dei quesiti. Va detto innanzitutto che, nel caso prospettato, la competenza è già stata fissata avanti il giudice di pace; si agisce, infatti, sulla base di un decreto di citazione a giudizio. Ciò significa che il Pubblico Ministero ha elevato un capo di imputazione per lesione personale ex art. 582, comma 1, c.p., dalla quale ha ritenuto sia derivata una malattia, nel corpo o nella mente, di durata non superiore ai venti giorni. È risaputo che titolare dell'azione penale è il pubblico ministero, il quale – nel caso in questione – potrebbe aver valutato non fondata o non riscontrabile, o non condivisibile la diagnosi espressa dal medico curante della persona offesa. In ogni caso, il giudice è ovviamente tenuto a osservare il fatto oggetto di imputazione e non può certo modificarlo. Non può, quindi, scegliere una delle due prognosi e porla a base dell'imputazione. Può però fare ben altro. Ogni diagnosi ha in astratto pari dignità e rilevanza: tanto quella “privata” che quella espressa dalla struttura pubblica; tant'è che il giudice investito della decisione ben potrebbe (artt. 21 e 23 c.p.p.), una volta rilevata l'esistenza di una diagnosi di malattia della durata di quaranta giorni, ritenere i limiti della propria competenza ed astenersi da ogni giudizio dichiarando che la competenza a giudicare appartiene semmai a un giudice diverso. Dichiarerà quindi la propria incompetenza e rimetterà gli atti al giudice che ritiene competente. In buona sostanza, il giudice di pace investito della questione potrebbe ritenere meritevole di approfondimento una diversa durata della malattia conseguente alla lesione oggetto di contestazione e ordinare un rinvio degli atti al tribunale. Il giudice competente, poi, resterà comunque libero di ritener fondata l'uno o l'altro (o anche nessuno dei due) giudizio diagnostico e prognostico. Tutto ciò potrebbe accadere anche a seguito di precisa indicazione della parte offesa che, munita di difensore, può nel corso del giudizio eccitare i poteri del giudice nel senso sopra indicato. Senza dire che l'iniziativa potrebbe anche esser presa dallo stesso pubblico ministero, il quale, avvedendosi di un fatto diverso da quello descritto nel decreto di citazione a giudizio, potrebbe chiedere di procedere a una modifica del capo di imputazione (artt. 516 e segg. c.p.p.) con contestuale richiesta al giudice di pace di dichiarare l'incompetenza con sentenza. Appare quindi chiaro che non esiste una gerarchia ufficiale di credibilità delle diagnosi e delle prognosi, espresse in relazione alla lesione oggetto di contestazione da diversi soggetti, pubblici e privati. Né può esservi obbligo per il giudice (il quale, fuori dal caso di prova legale, mai può esser tenuto ad una valutazione piuttosto che all'altra e giudica secondo il proprio convincimento, con il solo obbligo di esprimere corretta motivazione) di riconoscere fondatezza a un documento probatorio a seconda della sua provenienza. La diagnosi del medico curante, quindi, ha il medesimo valore probatorio di qualsiasi altra diagnosi. E, al pari di essa, abbisogna di valutazione istruttoria di fondatezza. Per venire alla seconda parte del quesito, è da osservare che la legge non dice alcunché circa i criteri da tener presenti per valutare la congruità della condotta e dell'offerta riparatoria. Sembra quindi necessario rifarsi a criteri generali. Innanzitutto, il giudice dovrà tener conto della proporzionalità tra danno e riparazione. Più semplice il caso della restituzione di oggetti sottratti, che vanno semplicemente restituiti integri. In un caso simile, il giudice potrebbe ritenere necessaria la riparazione del danno morale, che ben potrà essere rappresentato da una cifra proporzionale alla durata dello spossessamento, all'utilità che la cosa rappresentava per la persona offesa et similia. Nel caso in cui, invece, le restituzioni non siano possibili, la condotta riparatoria non potrà che prevedere il versamento di una somma a titolo di risarcimento. La somma dovrà naturalmente essere corrispondente al valore della cosa o al valore dell'esborso necessario per l'acquisto di una nuova cosa di pari utilità. Anche in questo caso, la somma dovrà essere addizionata da quella che rappresenta il danno morale, il c.d. pretium doloris, da valutarsi con criteri empirici, purtroppo sempre diversi da soggetto a soggetto. Opportuno sarebbe il ricorso ad un criterio “premiale” per il quale si ritenga concedibile l'estinzione del reato a fronte di uno sforzo serio e concreto dell'accusato in relazione alle sue effettive capacità economiche. Ciò, peraltro, sarebbe congruo anche rispetto alla ratio dell'istituto: premiare la condotta dell'imputato mirata a eliminare del tutto le conseguenze dannose del reato commesso, e non invece apprestare una nuova ed ulteriore tutela, civilistica e risarcitoria, al danneggiato. Nel caso del reato di lesioni, considerato che il Giudice può ben ricorrere a un perito nel caso voglia munirsi di una valutazione scientifica del danno inflitto, il criterio di valutazione della congruità non potrà che tener conto della quantità di incapacità fisica o mentale, e della sua durata, cagionata con la condotta penalmente rilevante; il ricorso alle tabelle per la liquidazione del danno da incapacità temporanea sarà consequenziale. Anche in questi casi, inoltre, danno da risarcire – e quindi da ricomprendere nella condotta riparatoria – sarà anche quello morale, che potrebbe agevolmente liquidarsi facendo ricorso alle medesime tabelle sopra richiamate. |