Le dichiarazioni eteroaccusatorie captate nel corso di attività di intercettazione

20 Gennaio 2016

Al fine di valutare le dichiarazioni di persone che conversino tra loro – captate nel corso di attività di intercettazione regolarmente autorizzata ed a loro insaputa – le quali presentino valenza accusatoria nei confronti di terzi che avrebbero concorso in reati commessi dagli stessi dichiaranti o commesso reati a questi connessi o collegati, trova applicazione la regola di cui al comma 3 dell'art. 192 c.p.p.?

Al fine di valutare le dichiarazioni di persone che conversino tra loro – captate nel corso di attività di intercettazione regolarmente autorizzata ed a loro insaputa – le quali presentino valenza accusatoria nei confronti di terzi che avrebbero concorso in reati commessi dagli stessi dichiaranti o commesso reati a questi connessi o collegati, trova applicazione la regola di cui al comma 3 dell'art. 192 c.p.p.?

Le indicazioni di reità provenienti da conversazioni intercettate non sono assimilabili alle dichiarazioni che il coimputato del medesimo reato o la persona imputata in procedimento connesso rende in sede di interrogatorio dinanzi all'autorità giudiziaria e, conseguentemente, per esse vale la regola generale del prudente apprezzamento del giudice e non deve applicarsi il canone di valutazione di cui all'art. 192, comma 3, c.p.p. (Cass. pen., Sez. I, 23 settembre 2010, n. 36218; Cass. pen., Sez. VI, 3 maggio 2006, n. 29350; Cass. pen., Sez. V, 7 febbraio 2003, n. 38413).

Tale principio di diritto è stato più di recente ribadito dalla giurisprudenza di legittimità, la quale ha dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 192, 195, 526 e 271 c.p.p., per contrasto con gli artt. 3, 24 e 111 Cost. e con l'art. 6 CEDU, nella parte in cui non prevedono che le indicazioni di reità e correità, rese nell'ambito di conversazioni intercettate, debbano essere corroborate da altri elementi di prova che ne confermino l'attendibilità, come avviene per le chiamate in reità o correità rese dinanzi all'autorità giudiziaria o alla polizia giudiziaria (Cass. pen., Sez. VI; 20 febbraio 2014, n. 25806). Il supremo Collegio, in particolare, ha escluso la possibilità di equiparare, ai fini che qui rilevano, il chiamante in reità o correità – ovvero un soggetto che, nel rendere dichiarazioni accusatorie nel corso di un interrogatorio, può essere mosso da intenti calunniatori od opportunistici – al conversante, il quale è animato dalla volontà di scambiare liberamente opinioni con il proprio interlocutore, salvo che non risulti accertata l'intenzione dei loquenti, nella consapevolezza dell'intercettazione in corso, di far conoscere all'autorità giudiziaria informazioni finalizzate ad accusare taluno di un reato (ivi).

La Corte di cassazione ha, infatti, chiarito che le dichiarazioni accusatorie, rese nel corso di conversazione soggetta a captazione, provenienti da un soggetto cosciente di essere intercettato, presentano omogeneità ontologica e strutturale rispetto alle chiamate in reità o correità quando l'accusato sia indicato come concorrente nello stesso reato (ovvero in reato connesso o collegato) con la conseguenza che ai fini della loro utilizzazione processuale, è necessario il ricorso ai criteri di valutazione previsti dall'art. 192, commi 3 e 4, c.p.p. (Cass.pen.,Sez. VI, 2 luglio 2014, n. 45065).

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