Ultimissime dalla Consulta in materia di custodia cautelare, incompatibilità dei giudici e corrispondenza dei detenuti
25 Gennaio 2017
Principi di diritto
Corte cost., 7 dicembre 2016 (dep. 24 gennaio 2017), n. 17 L'art. 275, comma 4, c.p.p. non contrasta con gli articoli 3, 13, 24, 31 e 111 Cost., nella parte in cui prevede che non possa essere disposta o mantenuta la custodia in carcere nei confronti degli imputati detenuti per reati gravi, che siano genitori di prole solo di età non superiore ai sei anni. La disposizione non preclude in assoluto alla madre, imputata per reati gravi, l'accesso alla misura più idonea a garantire il suo rapporto con il figlio minore in tenera età ma stabilisce che questo accesso trova un limite laddove il minore abbia compiuto il sesto anno di età. […] La scelta legislativa appare non irragionevolmente giustificata dalla considerazione che tale età coincide con l'assunzione, da parte del minore, dei primi obblighi di scolarizzazione e, dunque, con l'inizio di un processo di (relativa) autonomizzazione rispetto alla madre.
Corte cost., 7 dicembre 2016 (dep. 24 gennaio 2017), n. 18 È stata dichiarata non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 34, comma 2, c.p.p., sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24, 111 Cost., nella parte in cui non prevede l'incompatibilità alla funzione di giudice dell'udienza preliminare del giudice che, avendo ravvisato, nel corso della stessa udienza preliminare, un fatto diverso da quello contestato, abbia invitato il P.M. a procedere, nei confronti dello stesso imputato e per il medesimo fatto storico, alla modifica dell'imputazione, invito al quale P.M. abbia aderito. Affinché possa configurarsi una situazione di incompatibilità – nel senso dell'esigenza costituzionale della relativa previsione, in funzione di tutela dei valori della terzietà e dell'imparzialità del giudice – è necessario che la valutazione “contenutistica" sulla medesima regiudicanda si collochi in una precedente e distinta fase del procedimento, rispetto a quella della quale il giudice è attualmente investito. È del tutto ragionevole, infatti, che, all'interno di ciascuna delle fasi – intese come sequenze ordinate di atti che possono implicare accertamenti incidentali, anche di merito, su quanto in esse risulti, prodromici alla decisione conclusiva – resti, in ogni caso, preservata l'esigenza di continuità e di globalità, venendosi altrimenti a determinare una assurda frammentazione del procedimento, che implicherebbe la necessità di disporre, per la medesima fase del giudizio, di tanti giudici diversi quanti sono gli atti da compiere.
Corte cost., 7 dicembre 2016 (dep. 24 gennaio 2017), n. 19 La Corte costituzionale ha dichiarato manifestamente inammissibile, perché del tutto priva di motivazione in ordine alla non manifesta infondatezza, la Q.L.C. sollevata dal tribunale ordinario di Firenze relativa all'art. 34, comma 2, c.p.p., in relazione alla legge 28 aprile 2014, n. 67, nella parte in cui non prevede l'incompatibilità alla funzione di giudice del dibattimento, o del giudizio abbreviato, del giudice che abbia respinto la richiesta dell'imputato di sospensione del procedimento con messa alla prova sulla base dei parametri di cui all'art. 133 c.p., prospettando la possibile violazione degli artt. 3, 24 e 111 Cost.
Corte cost., 7 dicembre 2016 (dep. 24 gennaio 2017), n. 20 Le questioni di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3 e 112 Cost., dell'art. 266 c.p.p. e degli artt. 18 (nel testo anteriore alle modifiche introdotte dall'art. 3, commi 2 e 3, l. 95/2004) e 18-ter l. 354/1975, nella parte in cui non consentono di intercettare il contenuto della corrispondenza postale, impedendo così di captare il contenuto delle missive senza che il mittente e il destinatario ne vengano a conoscenza come invece avviene per le altre forme di comunicazione, sono da dichiararsi non fondate in quanto: al pari di ogni altro diritto costituzionalmente protetto, anche il diritto alla libertà e alla segretezza della corrispondenza è soggetto a limitazioni, purché disposte per atto motivato dall'autorità giudiziaria con le garanzie stabilite dalla legge […] in ragione dell'inderogabile soddisfacimento di un interesse pubblico primario costituzionalmente rilevante, sempreché l'intervento limitativo posto in essere sia strettamente necessario alla tutela di quell'interesse e sia rispettata la duplice garanzia della riserva assoluta di legge e della riserva di giurisdizione. Con particolare riferimento alle altre forme di comunicazione diverse dalla corrispondenza postale, la Consulta precisa altresì che la medesima esigenza di tutelare la libertà e segretezza delle comunicazioni interpersonali ben può tollerare, o persino richiedere, che la limitazione del diritto sia adeguatamente modulata, in ragione delle diverse caratteristiche del mezzo attraverso cui la comunicazione si esprime. Trattasi di delicate scelte discrezionali, non costituzionalmente necessitate, che, come tali, rientrano a pieno titolo nelle competenze e responsabilità del Legislatore e non in quelle della Consulta, il cui compito precipuo è vigilare affinché il bilanciamento, fissato dalla legge, tra contrapposti diritti e interessi costituzionali risponda ai principi di ragionevolezza e proporzionalità. Corte cost. n. 17/2017
SENTENZA N. 17 ANNO 2017
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: - Paolo GROSSI Presidente - Giorgio LATTANZI Giudice - Aldo CAROSI ” - Marta CARTABIA ” - Giancarlo CORAGGIO ” - Giuliano AMATO ” - Silvana SCIARRA ” - Daria de PRETIS ” - Nicolò ZANON ” - Augusto Antonio BARBERA ” - Giulio PROSPERETTI ”
ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 275, comma 4, del codice di procedura penale promosso dal Tribunale ordinario di Roma nei procedimenti penali riuniti (n. 12621/15 e n. 15385/15) a carico di C.M. e altri con ordinanza dell'11 novembre 2015, iscritta al n. 64 del registro ordinanze 2016 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 14, prima serie speciale, dell'anno 2016. Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nella camera di consiglio del 7 dicembre 2016 il Giudice relatore Nicolò Zanon.
Ritenuto in fatto 1.– Il Tribunale ordinario di Roma, con ordinanza dell'11 novembre 2015, iscritta al n. 64 del registro ordinanze 2016, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 13, 24, 31 e 111 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell'art. 275, comma 4, del codice di procedura penale, «nella parte in cui prevede che non possa essere disposta o mantenuta la custodia cautelare in carcere nei confronti di imputati, detenuti per gravi reati, che siano genitori di prole solo di età non superiore a sei anni». 1.1.– Le questioni di legittimità costituzionale sono state sollevate nell'ambito di due giudizi penali riuniti, nei quali si procede nei confronti anche di G.A., madre di una minore, detenuta agli arresti domiciliari per il reato, tra gli altri, di cui all'art. 416-bis del codice penale. Il giudice a quo riferisce altresì che il padre della minore si trova anch'egli detenuto in custodia cautelare in carcere per il medesimo reato. 1.2.– In punto di rilevanza, il rimettente ha evidenziato che, nei confronti di G.A., l'originaria misura della custodia cautelare in carcere (applicata in uno dei due processi, laddove nel secondo era stata applicata ab origine la misura degli arresti domiciliari) era stata sostituita con quella degli arresti domiciliari, in ragione della presenza di una figlia minore che, all'epoca dell'applicazione di tale misura più favorevole, non aveva ancora compiuto i sei anni. L'ufficio del pubblico ministero, in data 6 novembre 2015, sul presupposto del compimento dei sei anni di età da parte della minore, ha chiesto per G.A. il ripristino della custodia cautelare in carcere (mentre l'altro genitore rimane detenuto in custodia cautelare in carcere). Secondo il giudice a quo, permangono a carico di G.A. le esigenze che hanno determinato l'applicazione della misura cautelare; la soluzione delle questioni di legittimità costituzionale appare perciò pregiudiziale all'adozione di una decisione sull'istanza presentata dal pubblico ministero per l'inevitabile ripristino, a suo carico, della misura della custodia cautelare in carcere. 1.3.– In punto di non manifesta infondatezza, il giudice rimettente rileva che l'art. 275, comma 3, cod. proc. pen. prevede, per reati di particolare gravità (quale quello contestato a G.A.), «l'obbligo della custodia cautelare in carcere», mentre al comma 4 sono previste le deroghe (di carattere tassativo) a tale regime e, in particolare, quella connessa alla presenza di prole di età non superiore ai sei anni. Sulla base di tale formulazione normativa, a parere del giudice a quo, sussisterebbe l'obbligo di ripristinare la custodia cautelare in carcere per G.A., senza alcuna possibilità di apprezzare la particolare condizione della minore, che verrebbe a trovarsi privata di entrambi i genitori, detenuti per gravi reati nei medesimi procedimenti. Tale «automatismo» non sarebbe conforme al dettato costituzionale, in quanto contrasterebbe, in primo luogo, con l'art. 3 Cost., stante l'ingiustificata differenziazione tra minori di sei anni di età e soggetti di poco maggiori, anche considerando che l'ordinamento penitenziario assicura comunque tutela ai minori, figli di soggetti già condannati in via definitiva, sino al compimento dei dieci anni (ai sensi degli artt. 21-bis, 47-ter, 47-quinquies della legge 26 luglio 1975, n. 354, recante «Norme sull'ordinamento penitenziario e sull'esecuzione delle misure privative e limitative della libertà»). In secondo luogo, sarebbe violato l'art. 31 Cost., che, garantendo specifica protezione all'infanzia, intenderebbe impedire che la formazione del minore sia gravemente pregiudicata dall'assenza dei genitori (assenza che, nella specie, riguarderebbe entrambe le figure genitoriali). A sostegno dell'argomentazione, il giudice rimettente richiama la Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva in Italia con legge 27 maggio 1991, n. 176, e vincolante ai sensi dell'art. 10 Cost., la quale, all'art. 3, prevede che, in tutte le decisioni relative ai fanciulli, di competenza delle istituzioni pubbliche o private di assistenza sociale, dei tribunali, delle autorità amministrative o degli organi legislativi, l'interesse superiore del fanciullo deve avere una considerazione preminente. Ancora, secondo il giudice a quo, situazioni di «rigido automatismo», che determinano presunzioni di carattere assoluto, sono state valutate negativamente dalla stessa Corte costituzionale, poiché non consentono – irragionevolmente – al giudice alcuna valutazione di merito in relazione alle specificità del caso concreto: è richiamata, in proposito, la sentenza n. 185 del 2015 in tema di recidiva obbligatoria. Infine, per il giudice rimettente, «sembrerebbe inoltre lesa l'effettività dell'obbligo di motivazione dei provvedimenti giurisdizionali previsto in via generale dall'art. 111 Cost. e, in via particolare, dall'art. 13 Cost. in materia de libertate, con conseguenti riflessi anche sul diritto di difesa tutelato dall'art. 24 Cost.». 2.– Con atto depositato il 26 aprile 2016 è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, concludendo per la non fondatezza delle questioni di legittimità costituzionale sollevate. 2.1.– L'Avvocatura generale dello Stato evidenzia che la presunzione assoluta di adeguatezza della sola misura della custodia cautelare in carcere a soddisfare le esigenze cautelari, prevista dall'art. 275, comma 3, cod. proc. pen., con particolare riferimento al delitto di associazione di tipo mafioso, è stata ritenuta conforme a Costituzione, in quanto, sulla base di dati di esperienza generalizzati, riassunti nella formula dell'id quod plerumque accidit, la misura custodiale carceraria appare l'unica idonea a soddisfare le esigenze cautelari (viene richiamata la sentenza della Corte costituzionale n. 48 del 2015): e il legislatore, proprio in base ai dettami della giurisprudenza costituzionale, con l'art. 4 della legge 16 aprile 2015, n. 47 (Modifiche al codice di procedura penale in materia di misure cautelari personali. Modifiche alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di visita a persone affette da handicap in situazione di gravità), ha modificato il testo dell'art. 275, comma 3, cod. proc. pen., limitando ai reati di cui agli artt. 270, 270-bis e 416-bis cod. pen. l'operatività della presunzione assoluta di adeguatezza della sola misura della custodia cautelare in carcere. Pertanto, il dubbio di legittimità costituzionale sollevato in relazione agli artt. 13, 24 e 111 Cost. non sarebbe fondato. Quanto all'età di sei anni, considerata dalla norma censurata, l'Avvocatura generale dello Stato rileva che il riferimento a tale limite è giustificato dalla circostanza che, normalmente, tale età coincide con l'assunzione, da parte dei minori, dei primi obblighi di scolarizzazione e, conseguentemente, con l'inizio di una progressiva acquisizione di autonomia degli stessi. La norma sospettata di incostituzionalità, dunque, risulterebbe essere il frutto di una scelta discrezionale del legislatore, esente da irragionevolezza, connotata da un non arbitrario bilanciamento tra l'esigenza di tutela dell'interesse del minore a fruire in modo continuativo dell'affetto e delle cure materne, da un lato, e l'esigenza, pur costituzionalmente rilevante, di difesa sociale, dall'altro, nell'esercizio di una discrezionalità riconosciuta espressamente dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 239 del 2014.
Considerato in diritto 1.– Il Tribunale ordinario di Roma solleva questioni di legittimità costituzionale dell'art. 275, comma 4, del codice di procedura penale, «nella parte in cui prevede che non possa essere disposta o mantenuta la custodia cautelare in carcere nei confronti di imputati, detenuti per gravi reati, che siano genitori di prole solo di età non superiore a sei anni», per violazione degli artt. 3, 13, 24, 31 e 111 della Costituzione. Secondo il rimettente, la disposizione censurata, imponendo il ripristino della misura della custodia cautelare in carcere nei confronti di madre di prole di età superiore a sei anni, imputata per uno dei reati di cui al comma 3 dell'art. 275 cod. proc. pen., impedirebbe al giudice di apprezzare la particolare condizione della minore, la quale, nel caso di specie, verrebbe privata di entrambi i genitori, detenuti per gravi reati nei medesimi procedimenti. Tale «situazione di automatismo» si porrebbe anzitutto in contrasto con il principio di eguaglianza garantito dall'art. 3 Cost., stante l'ingiustificato diverso trattamento dei minori di sei anni, da una parte, e dei soggetti di poco maggiori, dall'altra, considerando che l'ordinamento penitenziario assicura comunque tutela ai minori, figli di soggetti già condannati in via definitiva, sino al compimento dei dieci anni. Sarebbe, inoltre, violato l'art. 31 Cost., che, assicurando specifica protezione all'infanzia, intenderebbe impedire che la formazione del minore sia gravemente pregiudicata dall'assenza dei genitori, anche alla luce della Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva in Italia con legge 27 maggio 1991, n. 176, e vincolante ai sensi dell'art. 10 Cost. Secondo il rimettente, vi sarebbe anche una violazione del principio di ragionevolezza, in considerazione del «rigido automatismo» determinato da presunzioni di carattere assoluto, che non consentirebbero al giudice alcuna valutazione in relazione alle specificità del caso concreto. La disposizione censurata si porrebbe, infine, in contrasto con gli artt. 13, 24 e 111 Cost., apparendo «lesa l'effettività dell'obbligo di motivazione dei provvedimenti giurisdizionali previsto in via generale dall'art. 111 Cost. e, in via particolare, dall'art. 13 Cost. in materia de libertate, con conseguenti riflessi anche sul diritto di difesa tutelato dall'art. 24 Cost.». 2.– Le questioni non sono fondate. 2.1.– L'art. 275, comma 3, secondo periodo, cod. proc. pen. prevede che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza a carico dell'imputato del delitto di cui all'art. 416-bis del codice penale, le esigenze cautelari siano soddisfatte attraverso l'applicazione della misura della custodia cautelare in carcere (e non di altra misura). Tuttavia, nel giudizio a quo, la presenza di una figlia infraseienne, convivente con la madre imputata, aveva comportato l'adozione, a favore di quest'ultima, della misura degli arresti domiciliari, ai sensi dell'art. 275, comma 4, cod. proc. pen., che, per la parte qui rilevante, stabilisce che non può essere disposta né mantenuta la custodia cautelare in carcere (salvo sussistano esigenze cautelari di eccezionale rilevanza) quando l'imputata sia «madre di prole di età non superiore a sei anni con lei convivente». Lamenta, dunque, il giudice a quo che il compimento del sesto anno d'età da parte della minore richiederebbe il rispristino della misura custodiale in carcere e pertanto censura, evocando i parametri costituzionali ricordati, l'irragionevole «situazione di automatismo» derivante dall'applicazione dell'art. 275, comma 4, cod. proc. pen., che impedirebbe al giudice di apprezzare le peculiarità del caso concreto, caratterizzato dalla contemporanea assenza dell'altro genitore, pure ristretto in custodia cautelare in carcere. 2.2.– Ragionando, a proposito della norma censurata (art. 275, comma 4, cod. proc. pen.), di una «presunzione assoluta» ovvero di una «situazione di automatismo», il giudice rimettente ne trae la conseguenza dell'impossibilità, derivante – a suo dire – dal tenore letterale della disposizione, di compiere una valutazione sulle specificità del caso concreto, con asserita lesione dell'effettività dell'obbligo di motivazione dei provvedimenti giurisdizionali (artt. 3, 13, 24 e 111 Cost.). Così posta, la questione non è fondata. Infatti, l'individuazione normativa del limite dei sei anni di età del minore per l'applicazione del divieto di custodia cautelare in carcere non può essere accostata alle presunzioni legali assolute che comportano l'applicazione di determinate misure o pene sulla base di un titolo di reato, con l'effetto di impedire al giudice di tenere conto delle situazioni concrete o delle condizioni personali del destinatario della misura o della pena. L'automatismo che il rimettente lamenta è, semmai, quello contenuto nell'art. 275, comma 3, cod. proc. pen., che, laddove sussistano esigenze cautelari, prevede – per gli imputati di alcuni gravi reati, fra i quali quello di cui all'art. 416-bis cod. pen. – che esse siano soddisfatte solo attraverso la custodia in carcere. È questa presunzione, in realtà, ad impedire al giudice di valutare la specifica idoneità di ciascuna misura in relazione alla natura e al grado delle esigenze cautelari. Ma tale presunzione è stata considerata non irragionevole da questa Corte, poiché i tratti tipici della criminalità mafiosa (qualificata da forte radicamento territoriale, fitta rete di collegamenti personali, alta capacità di intimidazione) forniscono un fondamento razionale alla valutazione legislativa – basata su dati di esperienza generalizzata, riassunti nella formula dell'id quod plerumque accidit – di adeguatezza della sola misura custodiale carceraria (sentenze n. 48 del 2015, n. 57 del 2013 e n. 265 del 2010; ordinanza n. 450 del 1995). La disposizione espressamente censurata, cioè il successivo comma 4 dell'art. 275 cod. proc. pen., invece, contiene un divieto di applicazione della custodia cautelare in carcere, riferito ad alcune categorie di imputati (tra i quali la madre di figli minori infraseienni con lei conviventi); un divieto, si osservi, di carattere generale, che prescinde, cioè, dal titolo di reato e non è riferibile, pertanto, alle sole ipotesi considerate all'art. 275, comma 3, cod. proc. pen. Soprattutto, non si è in presenza di una «situazione di automatismo», ma, al contrario, di una deroga (sia pur soggetta a condizioni e limiti) ai criteri che i commi precedenti del medesimo articolo dettano in tema di applicazione delle misure cautelari e, quindi, anche alla presunzione legale stabilita al comma precedente (in questo senso è la giurisprudenza di legittimità: Corte di cassazione, sezione sesta penale, 30 aprile-4 luglio 2014, n. 29355; Corte di cassazione, sezione seconda penale, 16-28 marzo 2012, n. 11714; Corte di cassazione, sezione prima penale, 16 gennaio-6 febbraio 2008, n. 5840). 3.– Il rimettente non appunta, in ogni caso, le proprie considerazioni critiche sul comma 3 dell'art. 275 cod. proc. pen.: ciò che contesta, in realtà, è proprio l'individuazione legislativa del limite dei sei anni di età, oltre il quale è impedita l'applicazione di misure diverse dalla custodia cautelare in carcere e non sarebbe consentita una valutazione del caso concreto. Da questo punto di vista, èposta esplicitamente in discussione, alla luce degli artt. 3 e 31 Cost., la valutazione che il legislatore ha compiuto in astratto, bilanciando le esigenze di difesa sociale, da un lato, e l'interesse del minore, dall'altro. 3.1.– Secondo la giurisprudenza di legittimità, la ratio del divieto legislativo di applicazione della misura cautelare carceraria, in presenza di minori di età inferiore ai sei anni, risiede nella necessità di salvaguardare la loro integrità psicofisica, dando prevalenza alle esigenze genitoriali ed educative su quelle cautelari (entro i limiti precisati), garantendo così ai figli l'assistenza della madre, in un momento particolarmente significativo e qualificante della loro crescita e formazione (Corte di cassazione, sezione sesta penale, 23 giugno-1° settembre 2015, n. 35806; Corte di cassazione, sezione sesta penale, 30 aprile-4 luglio 2014, n. 29355; Corte di cassazione, sezione prima penale, 12 dicembre 2013-31 gennaio 2014, n. 4748; Corte di cassazione, sezione quinta penale, 15-27 febbraio 2008, n. 8636). Il divieto in questione è dunque frutto del giudizio di valore operato dal legislatore, il quale stabilisce che, nei termini e nei limiti ricordati, sulla esigenza processuale e sociale della coercizione intramuraria deve prevalere la tutela di un altro interesse di rango costituzionale, quello correlato alla protezione costituzionale dell'infanzia, garantita dall'art. 31 Cost. (sentenze n. 239 del 2014 e n. 177 del 2009; ordinanza n. 145 del 2009). Il bilanciamento compiuto dal legislatore tra le esigenze di difesa sociale e l'interesse del minore ha conosciuto, nel tempo, varie modulazioni, caratterizzate dal progressivo ampliamento della tutela accordata a quest'ultimo. Originariamente, per la parte che qui rileva, l'art. 275, comma 4, cod. proc. pen., prevedeva non potersi disporre la custodia cautelare in carcere, salva la sussistenza di esigenze cautelari di eccezionale rilevanza, quando imputata fosse «una persona incinta o che allatta la propria prole». Già con l'art. 5, comma 2, della legge 8 agosto 1995, n. 332 (Modifiche al codice di procedura penale in tema di semplificazione dei procedimenti, di misure cautelari e di diritto di difesa), il confine dell'interesse del minore in tenera età al mantenimento di un rapporto continuativo con una figura genitoriale fu spostato in avanti, e il comma 4 dell'articolo in esame venne modificato nel senso che, fatte sempre salve le esigenze cautelari di eccezionale rilevanza, non potesse disporsi la custodia cautelare in carcere quando imputati fossero una donna incinta o madre di prole di età inferiore a tre anni con lei convivente, ovvero padre, qualora la madre fosse deceduta o assolutamente impossibilitata a dare assistenza alla prole. Da ultimo, è stata la legge 21 aprile 2011, n. 62 (Modifiche al codice di procedura penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, e altre disposizioni a tutela del rapporto tra detenute madri e figli minori), all'art. 1, comma 1, ad aver riformulato il comma 4 dell'art. 275 cod. proc. pen., ampliando ulteriormente la tutela dell'interesse del minore: attualmente, la custodia cautelare in carcere non può essere né disposta, né mantenuta, quando imputati siano una donna incinta o madre di prole di età non superiore a sei anni con lei convivente, ovvero padre, qualora la madre sia deceduta o assolutamente impossibilitata a dare assistenza alla prole. 3.2.– Questa Corte ha già avuto modo di porre in evidenza (sentenze n. 239 del 2014, n. 7 del 2013 e n. 31 del 2012) la speciale rilevanza dell'interesse del figlio minore a vivere e a crescere nell'ambito della propria famiglia, mantenendo un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori, dai quali ha diritto di ricevere cura, educazione e istruzione, ed ha riconosciuto che tale interesse è complesso ed articolato in diverse situazioni giuridiche. Queste ultime trovano riconoscimento e tutela sia nell'ordinamento costituzionale interno – che demanda alla Repubblica di proteggere l'infanzia, favorendo gli istituti necessari a tale scopo (art. 31, secondo comma, Cost.) – sia nell'ordinamento internazionale, ove vengono in particolare considerazione le previsioni dell'art. 3, comma 1, della già citata Convenzione sui diritti del fanciullo e dell'art. 24, comma 2, della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea del 7 dicembre 2000, adattata il 12 dicembre 2007 a Strasburgo. Queste due ultime disposizioni qualificano come «superiore» l'interesse del minore, stabilendo che in tutte le decisioni relative ad esso, adottate da autorità pubbliche o istituzioni private, tale interesse «deve essere considerato “preminente”: precetto che assume evidentemente una pregnanza particolare quando si discuta dell'interesse del bambino in tenera età a godere dell'affetto e delle cure materne» (così, in particolare, sentenza n. 239 del 2014). L'elevato rango dell'interesse del minore a fruire in modo continuativo dell'affetto e delle cure materne, tuttavia, non lo sottrae in assoluto ad un possibile bilanciamento con interessi contrapposti, pure di rilievo costituzionale, quali sono certamente quelli di difesa sociale, sottesi alle esigenze cautelari, laddove la madre sia imputata di gravi delitti (in senso analogo, si veda ancora la sentenza n. 239 del 2014). Lo dimostra, del resto, la stessa disposizione censurata, che fa comunque salve le esigenze cautelari di eccezionale rilevanza anche in presenza di un figlio minore di sei anni. In tale contesto, la disposizione non preclude in assoluto alla madre, imputata per gravi reati, l'accesso alla misura cautelare più idonea a garantire il suo rapporto col figlio minore in tenera età, ma stabilisce che questo accesso trova un limite, laddove il minore abbia compiuto il sesto anno d'età. Sulla base di dati di esperienza, tenuti in conto nei lavori preparatori della legge n. 62 del 2011 (Senato della Repubblica - Commissione II - giustizia, seduta n. 226 del 22 marzo 2011), la scelta legislativa appare non irragionevolmente giustificata dalla considerazione che tale età coincide con l'assunzione, da parte del minore, dei primi obblighi di scolarizzazione e, dunque, con l'inizio di un processo di (relativa) autonomizzazione rispetto alla madre. 3.3.– Se la descritta opera di bilanciamento tra esigenze di difesa sociale e interesse del minore, compiuta necessariamente in astratto dal legislatore, non appare manifestamente irragionevole ai sensi degli artt. 3 e 31 Cost., non può accogliersi la richiesta del giudice a quo, che domanda una declaratoria di illegittimità costituzionale dell'art. 275, comma 4, cod. proc. pen., «nella parte in cui prevede che non possa essere disposta o mantenuta la custodia cautelare in carcere nei confronti di imputati, detenuti per gravi reati, che siano genitori di prole solo di età non superiore ai sei anni». Con tale addizione, infatti, si vorrebbe dare prevalenza assoluta all'interesse del minore, a prescindere dalla sua età, a mantenere un rapporto continuativo con la madre, cancellando il bilanciamento compiuto dal legislatore. Non minori incongruità, del resto, produrrebbe una soluzione, pure suggerita nelle pieghe della motivazione dell'ordinanza di rimessione, che affidasse alla discrezionalità del giudice penale l'apprezzamento, caso per caso, della particolare condizione del minore. Questa soluzione – a sua volta da adottarsi al cospetto di un minore di qualsiasi età – restituirebbe l'incoerente condizione di un giudice penale chiamato ad applicare una misura nei confronti di un imputato, sulla base di valutazioni relative non già a quest'ultimo, ma a un soggetto terzo – il minore – estraneo al processo. Tutte le misure che i codici penale e di procedura penale, nonché la legge 26 luglio 1975, n. 354, recante «Norme sull'ordinamento penitenziario e sull'esecuzione delle misure privative e limitative della libertà», prevedono a tutela dei minori, in relazione alla condizione detentiva dei genitori, indicano al giudice un criterio oggettivo, calibrato sull'età del minore (oltre alla disposizione oggetto del presente giudizio e a quella, ad essa collegata, contenuta all'art. 285-bis cod. proc. pen., si ricordino gli artt. 146 e 147 cod. pen. e gli artt. 21-bis, 21-ter, 47-ter e 47-quinquies della legge n. 354 del 1975). E non può trascurarsi che tali criteri oggettivi – posti dal legislatore in riferimento alla condizione di un soggetto, il minore, estraneo al processo e non coinvolto nelle valutazioni sulla pericolosità dell'imputato – costituiscono anche un efficace usbergo della serenità del giudice, chiamato a delicate decisioni, in special modo nei casi relativi a gravi delitti di criminalità organizzata. Nei casi in cui questa Corte, attraverso proprie pronunce, ha consentito al giudice di derogare caso per caso a limiti o differenze di età fissati dal legislatore – ad esempio, nel ben diverso campo delle adozioni, al cospetto di previsioni legislative richiedenti una necessaria differenza d'età, stabilita in maniera “rigida”, fra adottante e minore adottato – ciò ha fatto perché tale differenza d'età è univocamente fissata a tutela del minore, affinché i genitori d'adozione non risultino troppo anziani. Sicché la valutazione più flessibile, consentita in determinate ipotesi al giudice, è condotta secondo modalità tutte interne al preminente interesse del minore, senza confliggere con altri, e opposti, interessi di rango costituzionale (sentenze n. 283 del 1999, n. 303 del 1996, n. 148 del 1992, n. 44 del 1990, n. 183 del 1988). 4.– Nella motivazione dell'ordinanza, ma non nel dispositivo, il Tribunale rimettente adombra una violazione del principio di eguaglianza, rilevando che varie disposizioni dell'ordinamento penitenziario assicurano tutela al preminente interesse dei minori, figli di soggetti già condannati in via definitiva, sino al compimento dei dieci anni, e non già solo fino al compimento del sesto anno d'età, come invece prevede l'art. 275, comma 4, cod. proc. pen. Anche tale questione non è fondata. Se riguardato dal solo punto di vista del preminente interesse del minore a mantenere un rapporto costante ed equilibrato con le figure genitoriali, potrebbe suscitare perplessità il diverso esito del bilanciamento compiuto dal legislatore, a seconda del titolo che legittima la restrizione della libertà personale del genitore (cautelare o esecutivo). Tale preminente interesse del minore, in effetti, resta il medesimo in entrambi i casi, e si mantiene egualmente inalterata la necessità di evitare che il “costo” della strategia di lotta al crimine venga traslato, secondo modalità irragionevoli, su un soggetto terzo, estraneo alle attività delittuose delle quali un genitore sia imputato, o in conseguenza delle quali sia stato condannato in via definitiva (con riferimento a condanne definitive, sentenza n. 239 del 2014). Tuttavia, quello che il giudice a quo chiede è un intervento di parificazione omogeneizzante, all'interno di un bilanciamento legislativo nel quale, se l'interesse del minore resta sempre uguale a sé stesso, mutano invece profondamente, a seconda del titolo di detenzione, le esigenze di difesa sociale. Questa Corte, al cospetto di fattispecie analoghe a quella ora in discussione, ha invero sempre considerato che le disposizioni in materia cautelare finalizzate alla tutela dell'interesse dei minori figli di genitori imputati non costituiscono idonei tertia comparationis rispetto a quelle analoghe dettate dall'ordinamento penitenziario per i genitori ristretti a seguito di condanna (ordinanza n. 260 del 2009). Essa ha anzi sottolineato, più in generale, la non assimilabilità, ai fini di uno scrutinio di eguaglianza, di status fra loro eterogenei, quello dell'imputato sottoposto ad una misura cautelare personale, da una parte, e quello del condannato in fase di esecuzione della pena, dall'altra. E, con riferimento alle ben diverse funzioni della pena e della custodia cautelare in carcere (sentenza n. 25 del 1979 e ordinanza n. 145 del 2009), ha rilevato come le misure cautelari, a differenza della pena, siano volte a presidiare i pericula libertatis, cioè ad evitare la fuga, l'inquinamento delle prove e la commissione di reati (ordinanza n. 532 del 2002). Se le rispettive esigenze di difesa sociale sono di natura profondamente diversa, ne consegue che il principio da porre in bilanciamento con l'interesse del minore è, nei due casi, differente. E non raggiunge, pertanto, il livello della irragionevolezza manifesta la circostanza che il bilanciamento tra tali distinte esigenze e l'interesse del minore fornisca esiti non coincidenti. 5.– Non sfugge, infine, a questa Corte la circostanza che, nel caso dal quale originano le questioni di legittimità costituzionale in esame, anche il padre, oltre alla madre, risulta assente, perché imputato dello stesso delitto (art. 416-bis cod. pen.) e ristretto in custodia cautelare in carcere. Questo elemento, peraltro, è semplicemente addotto dal giudice a quo, che non offre ulteriori informazioni sulla concreta condizione della minore e, soprattutto, non ne trae conseguenze in ordine al tipo di pronuncia richiesta. Del resto, anche a prescindere dalla mancanza di una specifica domanda calibrata sulle peculiarità del caso, l'assenza del padre non potrebbe comunque giustificare una pronuncia che affermi, in casi del genere, il divieto di disporre o mantenere la misura della custodia cautelare in carcere nei confronti della madre del minore, pur oltre il sesto anno d'età. Solo in apparenza, infatti, una tale soluzione gioverebbe alla continuità del rapporto tra madri imputate e figli minori. A ben vedere, invece, e con conseguenze sull'intero sistema dei benefici previsti a tutela dell'interesse del minore, una soluzione di questo tipo risulterebbe ispirata al principio dell'indispensabile presenza di uno dei due genitori, giustificando persino la custodia in carcere della madre se il padre è presente, secondo una ratio del tutto eccentrica rispetto al contesto normativo desumibile dalle disposizioni del codice di procedura penale e dell'ordinamento penitenziario, attualmente orientate nel senso di assicurare in via primaria il rapporto del minore con la madre.
per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 275, comma 4, del codice di procedura penale, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 13, 24, 31 e 111 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Roma, con l'ordinanza indicata in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 dicembre 2016.
F.to: Paolo GROSSI, Presidente Nicolò ZANON, Redattore Roberto MILANA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 24 gennaio 2017. Il Direttore della Cancelleria F.to: Roberto MILANA
Corte cots. n. 18/2017
SENTENZA N. 18 ANNO 2017
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: - Paolo GROSSI Presidente - Giorgio LATTANZI Giudice - Marta CARTABIA ” - Aldo CAROSI ” - Giancarlo CORAGGIO ” - Giuliano AMATO ” - Silvana SCIARRA ” - Daria de PRETIS ” - Nicolò ZANON ” - Franco MODUGNO ” - Augusto Antonio BARBERA ” - Giulio PROSPERETTI ”
ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 34, comma 2, del codice di procedura penale, promosso dal Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale ordinario di Napoli, nel procedimento penale a carico di C.F., con ordinanza del 10 luglio 2015, iscritta al n. 277 del registro ordinanze 2015 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 49, prima serie speciale, dell'anno 2015. Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nella camera di consiglio del 7 dicembre 2016 il Giudice relatore Franco Modugno.
Ritenuto in fatto 1.– Con ordinanza del 10 luglio 2015, il Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale ordinario di Napoli ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 34, comma 2, del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede l'incompatibilità alla funzione di giudice dell'udienza preliminare del giudice che, avendo ravvisato, nel corso della stessa udienza preliminare, un fatto diverso da quello contestato, abbia invitato il pubblico ministero a procedere, nei confronti dello stesso imputato e per il medesimo fatto storico, alla modifica dell'imputazione, invito cui il pubblico ministero abbia aderito. Il rimettente riferisce che, nel processo principale, il pubblico ministero aveva chiesto il rinvio a giudizio dell'imputato per i reati di divulgazione di materiale pornografico minorile (art. 600-ter, terzo comma, del codice penale) e di tentata violenza privata (artt. 56 e 610 cod. pen.). Con ordinanza emessa nell'udienza preliminare del 3 giugno 2015, il giudice a quo, ritenuto che i fatti accertati fossero diversi da come contestati, aveva fatto ricorso al «meccanismo correttivo» delineato dalle sezioni unite della Corte di cassazione nella sentenza 20 dicembre 2007-1° febbraio 2008, n. 5307, invitando il pubblico ministero a modificare l'imputazione. In adesione all'invito, il pubblico ministero aveva quindi contestato i reati di produzione di materiale pornografico minorile (art. 600-ter, primo comma, cod. pen.) e di atti persecutori (art. 612-bis, primo, secondo e terzo comma, cod. pen.). Nella successiva udienza, il difensore dell'imputato aveva eccepito la sopravvenuta incompatibilità del giudice rimettente ai sensi dell'art. 34 cod. proc. pen., in conseguenza del provvedimento adottato. A tale riguardo, il giudice a quo osserva che – secondo quanto affermato dalla giurisprudenza di legittimità e dalla stessa Corte costituzionale (sentenza n. 88 del 1994) – il giudice dell'udienza preliminare, ove ritenga che il fatto sia diverso da quello contestato, può disporre, in applicazione analogica dell'art. 521, comma 2, cod. proc. pen., la trasmissione degli atti al pubblico ministero, perché «la corrispondenza dell'imputazione a quanto emerge dagli atti è un'esigenza presente in ogni fase processuale e, quindi, anche nell'udienza preliminare». Il provvedimento di trasmissione degli atti non potrebbe essere, tuttavia, adottato – pena la sua abnormità – senza la previa attivazione del «meccanismo correttivo» individuato dalle sezioni unite con la decisione dianzi citata. Tanto premesso, il rimettente rileva che la Corte costituzionale, con la sentenza n. 455 del 1994, ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l'art. 34, comma 2, cod. proc. pen., nella parte in cui non prevede l'incompatibilità alla funzione di giudizio del giudice che abbia, all'esito di precedente dibattimento, riguardante il medesimo fatto storico a carico del medesimo imputato, ordinato la trasmissione degli atti al pubblico ministero a norma dell'art. 521, comma 2, cod. proc. pen. Nell'occasione, la Corte ha posto in evidenza che il giudice, quando accerta che il fatto è diverso da come descritto nel decreto che dispone il giudizio, compie una penetrante delibazione del merito della regiudicanda. Di conseguenza, un secondo dibattimento riguardante lo stesso fatto storico e il medesimo imputato non può non essere attribuito alla cognizione di altro giudice, alla luce della stessa esigenza di tutela dell'imparzialità e della serenità di giudizio che informa la regola posta dall'art. 34 cod. proc. pen., in punto di incompatibilità del giudice che abbia pronunciato sentenza in un precedente grado di giudizio nel medesimo procedimento. Con la sentenza n. 224 del 2001, la Corte costituzionale ha d'altro canto riconosciuto che, a seguito delle modifiche apportate alla sua originaria disciplina, l'udienza preliminare ricade ormai nel novero delle sedi suscettibili di essere pregiudicate dalla precedente valutazione in ordine alla medesima regiudicanda: orientamento confermato da successive pronunce, nelle quali si è ribadito che la nozione di «giudizio», utilizzata dal legislatore nell'art. 34 cod. proc. pen., comprende anche l'udienza preliminare (sono citate la sentenza n. 335 del 2002 e le ordinanze n. 20 del 2004 e n. 269 del 2003). In questa prospettiva, con l'ordinanza n. 269 del 2003 – pronunciando specificamente sull'ipotesi della reiterazione della trattazione dell'udienza preliminare da parte dello stesso magistrato che, all'esito di una precedente udienza preliminare riguardante lo stesso imputato e il medesimo fatto storico, abbia disposto la restituzione degli atti al pubblico ministero per ritenuta diversità del fatto – la Corte ha dichiarato la questione manifestamente infondata, ritenendo detta ipotesi già inclusa nel raggio d'azione dell'istituto dell'incompatibilità, alla luce di quanto chiarito dalla sentenza n. 224 del 2001. Infine, con la sentenza n. 400 del 2008, la Corte ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 34, comma 2, cod. proc. pen., nella parte in cui non prevede l'incompatibilità alla trattazione dell'udienza preliminare del giudice che abbia ordinato, all'esito di precedente dibattimento, riguardante il medesimo fatto storico a carico del medesimo imputato, la trasmissione degli atti al pubblico ministero a norma dell'art. 521, comma 2, cod. proc. pen. Ad avviso del giudice partenopeo, nel caso oggetto del giudizio a quo ricorrerebbe, in sostanza, la stessa situazione presa in considerazione dall'ordinanza n. 269 del 2003. Tuttavia, non potendo il giudice dell'udienza preliminare disporre l'immediata trasmissione degli atti al pubblico ministero, ma dovendo utilizzare il «meccanismo correttivo» delineato dalle sezioni unite, non sarebbe applicabile l'istituto dell'incompatibilità nei termini indicati dalla sentenza n. 224 del 2001, il quale presupporrebbe un nuovo svolgimento della funzione di giudice dell'udienza preliminare da parte dello stesso giudice-persona fisica a seguito di una «vicenda regressiva», nella specie non avutasi. Anche nell'ipotesi in esame, peraltro, sarebbe intervenuta una «piena delibazione del merito della regiudicanda», avendo l'ordinanza interlocutoria adottata dal rimettente un contenuto e una finalità del tutto analoghi a quelli dell'ordinanza prevista dall'art. 521, comma 2, cod. proc. pen. Il conseguente vizio di legittimità costituzionale non sarebbe superabile in via interpretativa, perché ciò equivarrebbe ad una estensione analogica delle cause di incompatibilità: operazione preclusa dal loro carattere tassativo. Neppure potrebbe farsi fronte alla situazione considerata mediante l'istituto dell'astensione, il quale – al pari di quello della ricusazione – mira a porre rimedio a comportamenti del giudice, anche estranei all'esercizio della funzione, che possono determinare un pregiudizio per l'imparzialità da apprezzare in concreto: mentre nel caso in discussione la configurabilità di un simile pregiudizio sarebbe riscontrabile già sul piano astratto, in conseguenza della decisione precedentemente adottata. Alla luce di tali considerazioni, il rimettente ritiene quindi di dover sollevare questione di legittimità costituzionale dell'art. 34, comma 2, cod. proc. pen., per contrasto con gli artt. 3, 24 e 111 Cost., nella parte in cui non prevede l'incompatibilità alla trattazione dell'udienza preliminare del giudice che, avendo ravvisato, nel corso della stessa udienza preliminare, un fatto diverso da quello contestato, abbia invitato il pubblico ministero a modificare l'imputazione nei confronti dello stesso imputato e per lo stesso fatto storico, conseguendo il risultato richiesto. La questione sarebbe rilevante nel giudizio a quo, giacché, allo stato, il rimettente dovrebbe «procedere alla celebrazione dell'udienza preliminare sull'imputazione “suggerita”, se non “imposta”, al pubblico ministero, nonostante la sussistenza della situazione pregiudicante». 2.– È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, il quale ha chiesto che la questione sia dichiarata inammissibile o infondata. Secondo l'interveniente, la questione sarebbe inammissibile, in quanto l'ordinanza di rimessione non indica i fatti storici oggetto di imputazione, né riporta le stesse imputazioni, prima e dopo l'invito del giudice a quo raccolto dal pubblico ministero, non consentendo così alla Corte di valutare la fondatezza della questione stessa e la sua rilevanza nella fattispecie concreta. La difesa dello Stato osserva, altresì, come analoga questione sia già stata esaminata e decisa nel senso della non fondatezza con la sentenza n. 177 del 2010. Nel frangente, la Corte costituzionale ha ritenuto che la diversa e più grave qualificazione giuridica del fatto, basata soltanto sulla valutazione degli atti del fascicolo, effettuata in sede di udienza di convalida dell'arresto e di applicazione di una misura cautelare, non determina alcuna menomazione dell'imparzialità del giudice, risolvendosi in una valutazione astratta delle risultanze processuali e non in una valutazione contenutistica della consistenza dell'ipotesi accusatoria. La questione risulterebbe infondata anche perché, nella specie, l'intervento sull'imputazione, assunto come atto pregiudicante, è avvenuto nell'ambito della medesima fase processuale. Troverebbe quindi applicazione il principio, affermato dalla giurisprudenza costituzionale, secondo il quale non è configurabile una menomazione dell'imparzialità del giudice che adotti decisioni, anche incidentali, preordinate al giudizio di cui è legittimamente investito: il processo, costituito per sua natura da una sequenza di atti, non può essere infatti frammentato, isolando ogni atto che comporti una decisione preordinata, accessoria o incidentale al giudizio di merito e attribuendo ciascuna decisione a un giudice diverso. L'intervento sull'imputazione in questione non avrebbe, inoltre, assunto carattere decisorio della regiudicanda, ma si sarebbe limitato ad ampliare la prospettazione accusatoria per una più compiuta analisi dei fatti oggetto di verifica processuale, sicché esso potrebbe rilevare, al più, quale causa di astensione.
Considerato in diritto 1.– Il Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale ordinario di Napoli dubita della legittimità costituzionale dell'art. 34, comma 2, del codice di procedura penale,nella parte in cui non prevede l'incompatibilità alla funzione di giudice dell'udienza preliminare del giudice che, avendo ravvisato, nel corso della stessa udienza preliminare, un fatto diverso da quello contestato, abbia invitato il pubblico ministero a procedere, nei confronti dello stesso imputato e per il medesimo fatto storico, alla modifica dell'imputazione, invito al quale il pubblico ministero abbia aderito. Ad avviso del rimettente, la norma censurata violerebbe gli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione, giacché – allo stesso modo dell'ordinanza, del tutto analoga per contenuti e finalità, che dispone la trasmissione degli atti al pubblico ministero ai sensi dell'art. 521, comma 2, cod. proc. pen. – l'atto in questione implicherebbe una piena delibazione del merito della regiudicanda, idonea a compromettere l'imparzialità e la serenità di giudizio del giudice che l'ha adottato. Secondo quanto chiarito dalla giurisprudenza costituzionale, d'altro canto, anche l'udienza preliminare rientra attualmente nel novero delle sedi processuali suscettibili di rimanere pregiudicate dalla precedente valutazione in eadem rem. 2.– L'eccezione di inammissibilità della questione per carente descrizione della fattispecie concreta, formulata dalla Presidenza del Consiglio dei ministri, non è fondata. Il giudice a quo riferisce che all'imputato erano stati contestati, con la richiesta di rinvio a giudizio, i reati di divulgazione di materiale pornografico minorile e di tentata violenza privata. Riferisce, altresì, che esso giudice rimettente, con ordinanza emessa nel corso dell'udienza preliminare, ritenendo che i fatti accertati fossero diversi da come contestati, aveva invitato il pubblico ministero a modificare l'imputazione e che il rappresentante dell'accusa, in adesione all'invito, aveva contestato i reati di produzione di materiale pornografico minorile e di atti persecutori. Tale esposizione della vicenda concreta, se pur sintetica, è comunque sufficiente a soddisfare l'onere di motivazione sulla rilevanza, essendo stata rappresentata la sussistenza della situazione che, ove la questione fosse accolta, determinerebbe l'insorgenza dell'incompatibilità nel giudizio principale. 3.– Quanto al merito, l'art. 521, comma 2, cod. proc. pen. stabilisce che il giudice disponga con ordinanza la trasmissione degli atti al pubblico ministero ove, a conclusione del dibattimento, accerti che il fatto è diverso da come descritto nel decreto che dispone il giudizio o nella nuova contestazione effettuata a norma degli artt. 516, 517 e 518, comma 2. Una previsione corrispondente non si rinviene, per converso, nell'ambito della disciplina dell'udienza preliminare. Escluso che il giudice di quest'ultima possa intervenire direttamente sul tema d'accusa (trattandosi di potere spettante solo al pubblico ministero, in quanto inerente all'esercizio dell'azione penale), sono state prospettate due possibili soluzioni, al fine di evitare che detto giudice si trovi costretto a pronunciare su una imputazione non coerente con le acquisizioni processuali. La prima è la trasmissione degli atti al pubblico ministero in applicazione analogica del citato art. 521, comma 2, cod. proc. pen.: soluzione “esterna” alla fase in corso, in quanto implicante la regressione del procedimento nella fase delle indagini preliminari. L'altra soluzione è che il giudice inviti il pubblico ministero ad esercitare il potere-dovere di modificare l'imputazione, previsto in capo all'attore pubblico dall'art. 423 cod. proc. pen. allorché nel corso dell'udienza preliminare emerga la diversità del fatto: soluzione che – ove il pubblico ministero aderisca all'invito – evita invece il fenomeno regressivo, rimanendo perciò “interna” alla fase. Con la sentenza n. 88 del 1994, questa Corte – senza prendere posizione a favore dell'una o dell'altra soluzione – ha rilevato che entrambe erano idonee ad assicurare la compatibilità costituzionale del sistema, impedendo che si producesse l'incongruo risultato dianzi indicato, ossia che il giudice si pronunci su una imputazione non coerente con le acquisizioni processuali. Sul tema sono successivamente intervenute le sezioni unite della Corte di cassazione, chiarendo che i due rimedi non sono alternativi, ma sequenziali. Facendo leva sul postulato teorico della “fluidità” dell'imputazione nell'udienza preliminare e su esigenze di concentrazione e ragionevole durata del processo, il giudice della nomofilachia ha ritenuto, cioè, che il giudice dell'udienza preliminare debba, in prima battuta, invitare il pubblico ministero a modificare l'imputazione: solo ove il rappresentante della pubblica accusa non si adegui all'invito, il giudice può ricorrere, come «extrema ratio», al rimedio “regressivo” della trasmissione degli atti ai sensi dell'art. 521, comma 2, cod. proc. pen. (la trasmissione non preceduta dall'invito è stata qualificata, in tale prospettiva, atto «abnorme»: Corte di cassazione, sezioni unite, sentenza 20 dicembre 2007-1° febbraio 2008, n. 5307). La pronuncia delle sezioni unite attiene, in verità, all'ipotesi in cui l'imputazione appaia al giudice dell'udienza preliminare generica o indeterminata. Risulta evidente, tuttavia, dalle relative cadenze argomentative (le quali prendono le mosse dalla citata sentenza n. 88 del 1994) come il principio in essa affermato sia riferibile anche al caso dell'accertamento della diversità del fatto, basandosi su un'applicazione estensiva o analogica di norme (gli artt. 423 e 521, comma 2, cod. proc. pen.) che fanno testuale riferimento proprio alla fattispecie che qui interessa. Di questo avviso è stata, del resto, la giurisprudenza di legittimità successiva. 4.– Ciò posto, la tesi dell'odierno rimettente è la seguente. Il giudice a quo rileva come questa Corte abbia riconosciuto che l'ordinanza di trasmissione degli atti al pubblico ministero ai sensi dell'art. 521, comma 2, cod. proc. pen. è provvedimento idoneo a pregiudicare, o a far apparire pregiudicata, l'imparzialità e la serenità di giudizio del giudice che l'ha emesso, in ragione della cosiddetta “forza della prevenzione” (ossia della naturale tendenza a confermare una decisione già presa o a mantenere un atteggiamento già assunto). Nel momento in cui accerta che il fatto è diverso da come descritto nell'imputazione, il giudice compie, infatti, una penetrante delibazione del merito della regiudicanda, non dissimile da quella che, in mancanza di una valutazione della diversità del fatto, conduce alla definizione con sentenza del giudizio di merito. Di qui, dunque, l'esigenza costituzionale – ricavabile dai parametri evocati dal rimettente – che il nuovo dibattimento (sentenza n. 455 del 1994) o la nuova udienza preliminare (sentenza n. 400 del 2008, ordinanza n. 269 del 2003), tenuti all'esito della predetta trasmissione per lo stesso fatto storico e nei confronti del medesimo imputato, siano attribuiti alla cognizione di altro giudice. Il giudice a quo evidenzia, altresì, come l'ordinanza che invita il pubblico ministero a modificare l'imputazione costituisca atto omologo, per contenuto e funzioni, alla trasmissione degli atti di cui all'art. 521, comma 2, cod. proc. pen. Il giudice dell'udienza preliminare non procede direttamente in tal modo solo per seguire il «percorso virtuoso» tracciato dalle sezioni unite: ma il presupposto (accertamento della discrepanza tra il fatto contestato e quello risultante dagli atti processuali) e l'obiettivo (adeguamento dell'imputazione a tali risultanze) sono i medesimi. Anche il suddetto invito andrebbe considerato, pertanto, atto “pregiudicante”: donde la denunciata illegittimità costituzionale della mancata previsione dell'incompatibilità a svolgere la funzione di giudice dell'udienza preliminare del giudice-persona fisica che lo ha formulato. 5.– La questione però non è fondata. Il ragionamento del giudice a quo non tiene conto, infatti, di una circostanza decisiva. Egli vorrebbe che il giudice dell'udienza preliminare, che ha sollecitato il pubblico ministero a modificare l'imputazione per ritenuta diversità del fatto, divenga – una volta accolto l'invito – incompatibile a continuare a trattare la stessa udienza preliminare. La giurisprudenza di questa Corte è, tuttavia, costante nell'affermare che, affinché possa configurarsi una situazione di incompatibilità – nel senso dell'esigenza costituzionale della relativa previsione, in funzione di tutela dei valori della terzietà e dell'imparzialità del giudice –, è necessario che la valutazione “contenutistica” sulla medesima regiudicanda si collochi in una precedente e distinta fase del procedimento, rispetto a quella della quale il giudice è attualmente investito. È del tutto ragionevole, infatti, che, all'interno di ciascuna delle fasi – intese come sequenze ordinate di atti che possono implicare apprezzamenti incidentali, anche di merito, su quanto in esse risulti, prodromici alla decisione conclusiva – resti, in ogni caso, preservata l'esigenza di continuità e di globalità, venendosi altrimenti a determinare una assurda frammentazione del procedimento, che implicherebbe la necessità di disporre, per la medesima fase del giudizio, di tanti giudici diversi quanti sono gli atti da compiere (ex plurimis, sentenze n. 153 del 2012, n. 177 e n. 131 del 1996; ordinanze n. 76 del 2007, n. 123 e n. 90 del 2004, n. 370 del 2000, n. 232 del 1999). In questi casi, «il provvedimento non costituisce anticipazione di un giudizio che deve essere instaurato, ma, al contrario, si inserisce nel giudizio del quale il giudice è già correttamente investito senza che ne possa essere spogliato: anzi è la competenza ad adottare il provvedimento dal quale si vorrebbe far derivare l'incompatibilità che presuppone la competenza per il giudizio di merito e si giustifica in ragione di essa» (sentenza n. 177 del 1996). In tale prospettiva, l'invito a modificare l'imputazione non risulta affatto assimilabile all'ordinanza di trasmissione degli atti al pubblico ministero. Come già ricordato, quest'ultima determina la regressione del procedimento: la fase in corso davanti al giudice che l'ha emessa si chiude, e la fase che si aprirà all'esito delle iniziative del pubblico ministero – il quale dovrà esercitare novamente l'azione penale, sempre che ne ravvisi i presupposti – sarà, in ogni modo, anche se omologa, una fase distinta e ulteriore, rispetto alla quale la valutazione di merito insita nel precedente provvedimento potrà assumere una valenza “pregiudicante”. All'opposto, l'invito a modificare l'imputazione rappresenta un rimedio “endofasico”: dalla sua formulazione non deriva, dunque, alcuna incompatibilità del giudice all'ulteriore trattazione della medesima fase. L'invito con cui il giudice si fa promotore di una mutatio libelli – la quale non prelude necessariamente ad una pronuncia sfavorevole per l'imputato – viene, tra l'altro, impartito, in via di principio, a conclusione dell'udienza preliminare, dopo che il confronto dialettico fra le parti e l'eventuale attività di integrazione probatoria si sono già svolti. È vero bensì che, sollecitando il pubblico ministero a modificare l'imputazione per diversità del fatto, il giudice esterna un convincimento sul merito della regiudicanda: ma lo fa come momento immediatamente prodromico alla decisione che è – legittimamente – chiamato ad assumere in quello stesso contesto; segnatamente, per evitare di doversi pronunciare su una imputazione che reputa non aderente alla realtà storica emersa dagli atti processuali. Resta dunque esclusa la configurabilità di una menomazione dell'imparzialità del giudice, atta a rendere costituzionalmente necessaria l'applicazione dell'istituto dell'incompatibilità. 6.– Alla luce delle considerazioni che precedono, la questione va dichiarata non fondata.
per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 34, comma 2, del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione, dal Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale ordinario di Napoli con l'ordinanza indicata in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 dicembre 2016.
F.to: Paolo GROSSI, Presidente Franco MODUGNO, Redattore Roberto MILANA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 24 gennaio 2017. Il Direttore della Cancelleria F.to: Roberto MILANA Corte cost. n. 19/2017
[ELG:SOMMARIO] ORDINANZA N. 19 ANNO 2017 [ELG:COLLEGIO] REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: - Paolo GROSSI Presidente - Giorgio LATTANZI Giudice - Marta CARTABIA ” - Aldo CAROSI ” - Giancarlo CORAGGIO ” - Giuliano AMATO ” - Silvana SCIARRA ” - Daria de PRETIS ” - Nicolò ZANON ” - Franco MODUGNO ” - Augusto Antonio BARBERA ” - Giulio PROSPERETTI ”
ha pronunciato la seguente ORDINANZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 34, comma 2, del codice di procedura penale, in relazione alla legge 28 aprile 2014, n. 67 (Deleghe al Governo in materia di pene detentive non carcerarie e di riforma del sistema sanzionatorio. Disposizioni in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova e nei confronti degli irreperibili), promosso dal Tribunale ordinario di Firenze, nel procedimento penale a carico di F. M., con ordinanza del 19 maggio 2015, iscritta al n. 236 del registro ordinanze 2015 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 46, prima serie speciale, dell'anno 2015. Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nella camera di consiglio del 7 dicembre 2016 il Giudice relatore Franco Modugno.
Ritenuto che, con ordinanza del 19 maggio 2015, il Tribunale ordinario di Firenze, in composizione monocratica, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 34, comma 2, del codice di procedura penale, in relazione alla legge 28 aprile 2014, n. 67 (Deleghe al Governo in materia di pene detentive non carcerarie e di riforma del sistema sanzionatorio. Disposizioni in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova e nei confronti degli irreperibili), nella parte in cui non prevede l'incompatibilità alla funzione di giudice del dibattimento, o del giudizio abbreviato, del giudice che abbia respinto la richiesta dell'imputato di sospensione del procedimento con messa alla prova sulla base dei parametri di cui all'art. 133 del codice penale; che il giudice a quo – investito del processo penale nei confronti di una persona imputata del reato di guida in stato di ebbrezza – riferisce di aver respinto l'istanza dell'imputato di sospensione del procedimento con messa alla prova (istituto introdotto dalla legge n. 67 del 2014) in base ai criteri di cui all'art. 133 cod. pen. concernenti la gravità del fatto e i precedenti penali dell'imputato, il quale era già stato condannato in precedenza per lo stesso reato; che, con memoria depositata prima della successiva udienza, il difensore dell'imputato aveva chiesto che fosse sollevata questione di legittimità costituzionale dell'art. 34, comma 2, cod. proc. pen. per contrasto con gli artt. 3, 24 e 111 Cost., «nella parte in cui non prevede l'incompatibilità a procedere al dibattimento (ovvero al giudizio abbreviato) per il giudice che abbia respinto la richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova dell'imputato sulla base dei parametri di cui all'art. 133 c.p.»; che l'istanza era stata integrata dal difensore in udienza nei seguenti termini: «valutarsi altresì l'incostituzionalità dell'art. 34 c.p.p. comma 2 in relazione alla legge 67/2014 nella parte in cui non prevede l'incompatibilità di procedere al dibattimento o a giudizio abbreviato, per il Giudice che abbia precedentemente respinto la richiesta di messa alla prova sulla base dei parametri di cui all'art. 133 c.p.p. [recte: c.p.]»; che, ad avviso del Tribunale rimettente, il giudizio non potrebbe essere definito indipendentemente dalla risoluzione della questione prospettata dalla difesa, la quale risulterebbe, altresì, «non manifestamente infondata attesi i dubbi interpretativi sollevati in sede di applicazione della norma»; che la questione, «anche alla luce della recentissima entrata in vigore della norma e delle differenze sostanziali con l'analogo istituto della messa alla prova nell'ambito del procedimento minorile» (artt. 28 e 29 del d.P.R. 22 settembre 1988, n. 448, recante «Approvazione delle disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni»), apparirebbe inoltre «di interesse, se non altro nell'ambito della eventuale futura valutazione delle questioni da altri sollevate in relazione all'art. 168-bis c.p., come introdotto dall'art. 3 e 4 [recte: dall'art. 3] Legge 67/2014»; che il giudice a quo ha disposto, quindi, la trasmissione dell'ordinanza di rimessione, dell'istanza del difensore dell'imputato e di copia del verbale di udienza recante l'integrazione del quesito alla Corte costituzionale, «affinché la stessa, ove lo ritenga […] utile e/o opportuno nell'ambito di eventuali giudizi di costituzionalità dell'art. 168-bis c.p., come introdotto dall'art. 3 Legge 67/2014, vagli le argomentazioni» contenute nell'ordinanza; che è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, il quale ha chiesto che la questione sia dichiarata inammissibile sotto un duplice profilo: da un lato, per totale difetto di motivazione sulla non manifesta infondatezza, essendosi il rimettente limitato a richiamare le argomentazioni della difesa dell'imputato, senza tuttavia riprodurle e vagliarle criticamente; dall'altro, per il carattere ipotetico del quesito, la cui rilevanza resterebbe legata – nella prospettazione del giudice a quo – all'instaurazione, futura ed eventuale, di giudizi di legittimità costituzionale sull'art. 168-bis cod. pen. Considerato che il Tribunale ordinario di Firenze dubita della legittimità costituzionale dell'art. 34, comma 2, del codice di procedura penale, in relazione alla legge 28 aprile 2014, n. 67 (Deleghe al Governo in materia di pene detentive non carcerarie e di riforma del sistema sanzionatorio. Disposizioni in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova e nei confronti degli irreperibili), nella parte in cui non prevede l'incompatibilità alla funzione di giudice del dibattimento, o del giudizio abbreviato, del giudice che abbia respinto la richiesta dell'imputato di sospensione del procedimento con messa alla prova sulla base dei parametri di cui all'art. 133 del codice penale, prospettando la possibile violazione degli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione; che l'ordinanza di rimessione si presenta del tutto priva di motivazione in ordine alla non manifesta infondatezza; che il rimettente si limita, infatti, a richiamare genericamente l'eccezione formulata dal difensore dell'imputato in una memoria (integrata poi in udienza) e ad evocarne i parametri, affermando di ritenere la questione «non manifestamente infondata attesi i dubbi interpretativi sollevati in sede di applicazione della norma»; che, per costante giurisprudenza di questa Corte, nei giudizi incidentali di legittimità costituzionale non è ammessa la cosiddetta motivazione per relationem: stante il principio di autosufficienza dell'ordinanza di rimessione, il giudice a quo deve rendere, infatti, esplicite le ragioni per le quali ritiene la questione non manifestamente infondata, facendole proprie, senza potersi limitare al mero rinvio a quelle evidenziate dalle parti in corso di giudizio (ex plurimis, sentenze n. 22 del 2015 e n. 7 del 2014, ordinanze n. 20 del 2014 e n. 175 del 2013); che la questione va dichiarata, pertanto, manifestamente inammissibile, rimanendo assorbita l'ulteriore eccezione di inammissibilità formulata dalla difesa dello Stato, inerente all'asserito difetto di rilevanza attuale del dubbio di legittimità costituzionale prospettato. Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 1, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell'art. 34, comma 2, del codice di procedura penale, in relazione alla legge 28 aprile 2014, n. 67 (Deleghe al Governo in materia di pene detentive non carcerarie e di riforma del sistema sanzionatorio. Disposizioni in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova e nei confronti degli irreperibili), sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Firenze con l'ordinanza indicata in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 dicembre 2016.
F.to: Paolo GROSSI, Presidente Franco MODUGNO, Redattore Roberto MILANA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 24 gennaio 2017. Il Direttore della Cancelleria F.to: Roberto MILANA Corte cost. n. 20/2017
SENTENZA N. 20 ANNO 2017
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: - Paolo GROSSI Presidente - Giorgio LATTANZI Giudice - Aldo CAROSI ” - Marta CARTABIA ” - Giancarlo CORAGGIO ” - Giuliano AMATO ” - Silvana SCIARRA ” - Daria de PRETIS ” - Nicolò ZANON ” - Augusto Antonio BARBERA ” - Giulio PROSPERETTI ”
ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 266 del codice di procedura penale e degli artt. 18 (nel testo anteriore alle modifiche introdotte dall'art. 3, commi 2 e 3, della legge 8 aprile 2004, n. 95, recante «Nuove disposizioni in materia di visto di controllo sulla corrispondenza dei detenuti») e 18-ter della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), promosso dalla Corte di assise d'appello di Reggio Calabria, nel procedimento penale a carico di C.T., con ordinanza dell'8 febbraio 2016 iscritta al n. 67 del registro ordinanze 2016 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 14, prima serie speciale, dell'anno 2016. Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nella camera di consiglio del 7 dicembre 2016 il Giudice relatore Marta Cartabia.
Ritenuto in fatto 1.– Con ordinanza dell'8 febbraio 2016 (r.o. n. 67 del 2016), la Corte di assise d'appello di Reggio Calabria ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 112 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell'art. 266 del codice di procedura penale e degli artt. 18 (nel testo previgente le modifiche introdotte dall'art. 3, commi 2 e 3, della legge 8 aprile 2004, n. 95, recante «Nuove disposizioni in materia di visto di controllo sulla corrispondenza dei detenuti») e 18-ter della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà). 1.1.– La Corte rimettente ha premesso di essere investita del processo penale a carico di C.T., fondato su una serie di intercettazioni telefoniche e ambientali, nonché di missive spedite e ricevute in carcere dall'imputato, dalle quali il giudice di primo grado ha inferito l'esistenza di un progetto criminoso volto a consolidare il potere della famiglia dello stesso imputato sul territorio di Siderno e a consumare una serie di specifici fatti delittuosi. La Corte di assise d'appello ha precisato che la corrispondenza non è stata sequestrata ai sensi dell'art. 254 cod. proc. pen., ma solo copiata dalla polizia giudiziaria, previa autorizzazione del giudice per le indagini preliminari, senza quindi che i destinatari potessero conoscere l'attività investigativa compiuta. La Corte rimettente ha riferito che, in un primo tempo, la Corte di cassazione (sentenza 18 ottobre 2007 – 23 gennaio 2008, n. 3579) ha ritenuto utilizzabili i risultati di tali indagini, in base alla considerazione che il provvedimento autorizzatorio del giudice sia in questi casi parificabile a quello, di cui agli artt. 266 e seguenti cod. proc. pen., in materia di intercettazioni telefoniche. Successivamente, tuttavia, la questione relativa all'intercettabilità della corrispondenza è stata rimessa alle sezioni unite della medesima Corte di cassazione, le quali hanno ritenuto, con sentenza 19 aprile – 18 luglio 2012, n. 28997, inapplicabile in via analogica la disciplina prevista per le intercettazioni o comunicazioni di cui agli artt. 266 e seguenti cod. proc. pen. alle operazioni di intercettazione della corrispondenza e ha, di conseguenza, affermato l'inutilizzabilità, ex art. 191 del codice di rito, delle missive illegittimamente intercettate. L'ordinanza di rimessione riferisce che il primo giudice di appello ha, peraltro, considerato utilizzabili le dichiarazioni degli imputati relative al contenuto di alcune lettere, di cui era stata data lettura dal pubblico ministero in sede di interrogatorio dibattimentale, e ha condannato gli imputati per i delitti di tentata estorsione aggravata, associazione mafiosa, associazione finalizzata al narcotraffico, omicidio volontario aggravato e connessi reati in materia di armi. La Corte di cassazione ha poi annullato la sentenza di condanna, limitatamente al delitto di omicidio volontario e ai reati in materia di armi, rinviando il giudizio dinanzi alla procedente Corte di assise d'appello di Reggio Calabria. 1.2.– Ciò premesso, il giudice a quo ha ritenuto non manifestamente infondate le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 266 cod. proc. pen. e 18 (nel testo previgente le modifiche introdotte dall'art. 3, commi 2 e 3, della legge n. 95 del 2004) e 18-ter della legge sull'ordinamento penitenziario, nella parte in cui non consentono la intercettazione della corrispondenza epistolare del detenuto, diversamente da quanto avviene per le comunicazioni telefoniche e le altre forme di telecomunicazione. L'esclusione della corrispondenza epistolare dalle intercettazioni, prosegue il rimettente, risulta dall'impossibilità di applicare analogicamente alle missive postali le disposizioni dettate dal codice di rito in materia di intercettazioni telefoniche, così come rilevato dalle sezioni unite della Corte di cassazione, con la citata sentenza, e come risulta inevitabile in materia presidiata da doppia riserva (di legge e di giurisdizione) ai sensi dell'art. 15 Cost. Prova ne sarebbe anche la circostanza che, per includere nella disciplina delle intercettazioni anche la corrispondenza, nel corso della XV legislatura è stato presentato un apposito disegno di legge, mai approvato dal Parlamento. Riguardo alla corrispondenza, infatti, secondo il giudice a quo è possibile il solo sequestro ai sensi degli artt. 254 e 353 cod. proc. pen., ma non l'intercettazione all'insaputa del mittente e del destinatario, consentita invece dagli artt. 266 e seguenti del medesimo codice solo per le comunicazioni telefoniche e le altre telecomunicazioni. Ad avviso del rimettente, simile limitazione determina una irragionevole disparità di trattamento censurabile ai sensi dell'art. 3 Cost., non giustificabile ex art. 15 Cost., giacché quest'ultima disposizione costituzionale si riferisce non solo alla corrispondenza, ma «ad ogni altra forma di comunicazione», tra le quali rientrano perciò anche le comunicazioni telefoniche. La rilevata irragionevolezza della disparità di trattamento sarebbe accentuata nel caso di corrispondenza di detenuti, per i quali l'art. 18-ter dell'ordinamento penitenziario prevede, in caso di controllo, l'apposizione di un visto, che rende i soggetti che intrattengono corrispondenza edotti dell'attività investigativa. In questo modo, secondo il rimettente, lo stato detentivo, da ritenersi irrilevante ai fini investigativi, si porrebbe quale fattore ulteriormente limitativo delle indagini, in quanto imporrebbe all'autorità procedente, per la corrispondenza, oneri comunicativi incompatibili con la necessità di assicurare la segretezza delle indagini, che non sono richiesti per i soggetti non privati della libertà personale. L'irragionevolezza della disciplina relativa alla corrispondenza risulterebbe ancor più evidente a fronte del fatto che la legislazione in vigore consentirebbe le intercettazioni ambientali di colloqui con persone in visita al detenuto, video-riprese che permettano di cogliere segni occulti o altri gesti comunicativi, non meno invasivi della privatezza e della segretezza delle comunicazioni. La Corte rimettente ritiene, dunque, che sussista una violazione del principio di uguaglianza presidiato dall'art. 3 Cost., per irragionevole disparità di disciplina tra le intercettazioni telefoniche e quelle epistolari, nonché per lo status privilegiato che verrebbe riconosciuto all'indagato detenuto rispetto a quello non detenuto. 1.3.– Il giudice a quo ritiene poi violato anche l'art. 112 Cost., in quanto l'impossibilità di intercettare le comunicazioni epistolari dei detenuti renderebbe ineffettivo il principio di obbligatorietà dell'azione penale in relazione alle ipotesi considerate. Il rimettente ricorda che, secondo la giurisprudenza costituzionale (viene citata la sentenza n. 121 del 2009), l'esercizio dell'azione penale può essere subordinato a specifiche condizioni, purché non foriere di irragionevoli disparità di trattamento, come avverrebbe invece nella specie. Inoltre, la completa individuazione degli elementi e delle fonti di prova – che sarebbe compromessa dall'esclusione dell'intercettazione epistolare – costituisce, secondo la Corte di assise d'appello, il «precipitato naturale» del principio codificato dall'art. 112 Cost., che ne risulterebbe quindi parimenti compromesso. 1.4.– Ritenuta la non manifesta infondatezza delle questioni, in punto di rilevanza il giudice a quo ha precisato che l'inutilizzabilità, nella loro completezza, delle missive copiate, ma non sottoposte a sequestro, né alle formalità prescritte dagli artt. 18 e 18-ter dell'ordinamento penitenziario, determinerebbe una lacunosità del materiale probatorio relativo alla fattispecie omicidiaria e ai reati in materia di armi, con conseguente rilievo delle questioni sollevate nel giudizio. 2.– Con atto depositato il 26 aprile 2016, è intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili. In particolare, la difesa dello Stato ha rilevato che l'ordinanza di rimessione risulta del tutto carente di motivazione in punto di rilevanza delle questioni, mancando la benché minima descrizione tanto della fattispecie concreta, quanto delle evidenze documentali ritenute non utilizzabili. Tale carenza precluderebbe alla Corte costituzionale ogni verifica della rilevanza, con conseguente inammissibilità delle questioni sollevate.
Considerato in diritto 1.– Con ordinanza dell'8 febbraio 2016 la Corte di assise d'appello di Reggio Calabria ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 112 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell'art. 266 del codice di procedura penale e degli artt. 18 (nel testo previgente le modifiche introdotte dall'art. 3, commi 2 e 3, della legge 8 aprile 2004, n. 95, recante «Nuove disposizioni in materia di visto di controllo sulla corrispondenza dei detenuti») e 18-ter della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà). L'art. 266 cod. proc. pen. prevede, nei procedimenti relativi ai reati da esso elencati, la possibilità di sottoporre a intercettazione le conversazioni, le comunicazioni telefoniche e le altre forme di telecomunicazione, mentre gli impugnati artt. 18 – nel testo anteriore alle modifiche di cui alla legge n. 95 del 2004 – e 18-ter della legge n. 354 del 1975 prevedono, come unica forma di controllo della corrispondenza epistolare del detenuto, quella tramite apposizione di un visto. Il rimettente ritiene che le citate disposizioni siano illegittime nella parte in cui non consentono di intercettare il contenuto della corrispondenza postale, impedendo così di captare il contenuto delle missive senza che il mittente e il destinatario ne vengano a conoscenza, come avviene invece per le altre forme di comunicazione. 1.1.– In particolare, il giudice a quo ha premesso di essere investito del giudizio sulla responsabilità dell'imputato C.T., limitatamente a delitti di omicidio volontario e in materia di armi, a seguito di sentenza di annullamento con rinvio da parte della Corte di cassazione. Ha quindi precisato che, per valutare adeguatamente la responsabilità dell'imputato nel giudizio di rinvio, è necessario l'integrale esame del contenuto della corrispondenza postale da questi inviata e ricevuta in carcere. Tale corrispondenza è stata copiata all'insaputa del mittente e dei destinatari in forza di un provvedimento di autorizzazione emesso dal giudice procedente, senza sottoporla a sequestro ai sensi dell'art. 254 cod. proc. pen., né a visto di controllo ai sensi degli artt. 18 e 18-ter dell'ordinamento penitenziario. Ai fini della condanna sono state utilizzate le sole dichiarazioni rese dai coimputati sul contenuto di alcune di tali missive, di cui è stata data loro lettura in dibattimento, per le contestazioni nel contraddittorio delle parti. La corrispondenza epistolare non sarebbe tuttavia utilizzabile, direttamente e nella sua integralità, ai sensi dell'art. 191 cod. proc. pen., in quanto acquisita mediante una forma di intercettazione da considerarsi vietata dalla legge. Infatti, come chiarito dalle Sezioni unite della Corte di cassazione (sentenza 19 aprile – 18 luglio 2012, n. 28997), la corrispondenza epistolare non è soggetta alla disciplina delle intercettazioni di conversazioni o comunicazioni, dovendosi invece, per tale forma di comunicazione riservata, seguire le forme del sequestro ovvero, nel caso di corrispondenza di detenuti, la disciplina del visto di controllo. Tale conclusione ermeneutica si impone ineluttabilmente, in quanto la materia delle intrusioni investigative sulla corrispondenza postale è regolata dall'art. 254 cod. proc. pen. – che ha ad oggetto il sequestro della corrispondenza presso gestori di servizi postali o in luoghi accessori – e, nel caso dei detenuti, dai citati artt. 18 (nel testo previgente le modifiche introdotte dall'art. 3, commi 2 e 3, della legge n. 95 del 2004) e 18-ter dell'ordinamento penitenziario, che prevedono una procedura mediante apposizione di visto di controllo. Il sequestro e il visto di controllo si atteggiano, quindi, quale disciplina speciale incidente su aspetti presidiati dalla riserva di legge prevista dall'art. 15 Cost., così da impedire l'applicazione analogica delle disposizioni di cui all'art. 266 cod. proc. pen. in materia di intercettazioni, ovvero l'applicazione dell'art. 189 dello stesso codice in materia di prove atipiche. 1.2.– Secondo il rimettente, l'assetto normativo sopra descritto, risultante dall'art. 266 cod. proc. pen. e dai citati artt. 18 (nel testo previgente le modifiche introdotte dall'art. 3, commi 2 e 3, della legge n. 95 del 2004) e 18-ter dell'ordinamento penitenziario, sarebbe costituzionalmente illegittimo nella parte in cui non consente l'intercettazione della corrispondenza postale in genere e, in particolare, di quella del detenuto. In primo luogo, sarebbe violato il principio di uguaglianza, presidiato dall'art. 3 Cost., sotto un duplice profilo. Anzitutto perché si sottopongono a una irragionevole disparità di trattamento le comunicazioni telefoniche, informatiche e telematiche rispetto alle comunicazioni epistolari mediante servizio postale; in secondo luogo, perché si attribuisce uno status privilegiato all'indagato detenuto rispetto a quello non detenuto. Inoltre, verrebbe violato l'art. 112 Cost., in quanto l'attività investigativa sarebbe ostacolata e resa ineffettiva dall'impossibilità di accedere a determinate fonti di prova, accesso che, secondo il rimettente, costituisce il «precipitato naturale» dell'obbligatorietà dell'azione penale. 2.– Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, ha eccepito l'inammissibilità delle sollevate questioni, in quanto l'ordinanza di rimessione risulterebbe del tutto carente di motivazione sulla rilevanza delle questioni, mancando la benché minima descrizione tanto della fattispecie concreta, quanto delle evidenze documentali ritenute non utilizzabili. Tale carenza precluderebbe alla Corte costituzionale ogni verifica della rilevanza, con conseguente inammissibilità delle questioni sollevate. 2.1.– L'eccezione non è fondata. Il rimettente ha descritto le fattispecie in termini sufficienti a consentire alla Corte il necessario controllo sull'applicabilità nel procedimento principale degli impugnati artt. 266 cod. proc. pen. e 18 (nel testo previgente le modifiche introdotte dall'art. 3, commi 2 e 3, della legge n. 95 del 2004) e 18-ter dell'ordinamento penitenziario, come risultanti dalla modifica richiesta a questa Corte con le sollevate questioni di legittimità costituzionale. L'ordinanza riferisce, infatti, l'andamento del complesso procedimento, all'esito del quale la Corte rimettente è stata investita, in qualità di giudice del rinvio, del giudizio a carico di C.T., limitatamente al delitto di omicidio volontario e ai reati in materia di armi. Lo stesso rimettente ha poi compiutamente motivato sull'inutilizzabilità delle prove raccolte tramite “intercettazione” della corrispondenza epistolare dell'imputato detenuto e sulle ragioni per le quali le impugnate disposizioni, senza le addizioni richieste, costituiscano l'ostacolo a detta utilizzabilità. Non pare invero necessario, ai fini del controllo sulla rilevanza, che il giudice a quo enunci specificamente e dettagliatamente i contenuti delle comunicazioni epistolari illegittimamente intercettate, avendo egli comunque riferito che in esse passano gli elementi per l'organizzazione della fattispecie omicidiaria sub iudice con i connessi reati in materia di armi. L'ordinanza di rimessione, del resto, espone le ragioni logiche e giuridiche per le quali il giudice deve poter procedere a una valutazione integrale delle predette comunicazioni epistolari ai fini della decisione di merito in sede di rinvio, e illustra i motivi per i quali l'attuale assetto normativo non lo consente. 2.2.– Quanto all'assetto normativo che impedisce l'utilizzazione del contenuto di missive postali non sottoposte né a sequestro ex art. 254 cod. proc. pen., né a visto di controllo ex art. 18-ter della legge n. 354 del 1975 (e, prima delle modifiche introdotte dalla legge n. 95 del 2004, ex art. 18), neppure può rimproverarsi al rimettente di non avere sperimentato una interpretazione costituzionalmente conforme delle disposizioni denunciate. La Corte di assise d'appello ha infatti articolato le ragioni testuali, sistematiche e di ordine costituzionale che impongono tale conclusione, in linea con il “diritto vivente”, quale risultante dalla sentenza delle Sezioni unite della Corte di cassazione 19 aprile – 18 luglio 2012, n. 28997. Infatti, la materia delle intrusioni investigative sulla corrispondenza epistolare è regolata dall'art. 254 cod. proc. pen., che ha ad oggetto il sequestro presso i gestori di servizi postali o in luoghi accessori e che, rispetto alla normativa generale in tema di sequestri (art. 253 cod. proc. pen.), si atteggia quale disciplina speciale, in quanto incidente su aspetti presidiati dall'art. 15 Cost. Inoltre, per quanto riguarda la corrispondenza postale dei detenuti, l'ordinamento penitenziario prevede una speciale procedura mediante visto di controllo, ai sensi dell'art. 18-ter dell'ordinamento penitenziario (e, prima delle modifiche introdotte dalla legge n. 95 del 2004, dell'art. 18). In presenza di tale specifica regolamentazione e vertendosi in materia presidiata dalle riserve di legge e di giurisdizione di cui all'art. 15 Cost., non è, dunque, consentita l'applicazione in via analogica alla corrispondenza epistolare della disciplina dettata per le intercettazioni dagli artt. 266 e seguenti del codice di rito. Pertanto il rimettente ha argomentato in modo non implausibile – e anzi conforme a criteri ermeneutici anche di ordine costituzionale – che, essendo la materia compiutamente disciplinata, non sussiste, in base al quadro normativo vigente e al “diritto vivente”, la possibilità di utilizzare forme di captazione della corrispondenza postale diverse dal sequestro o, per i detenuti, dalla procedura mediante visto di controllo: ciò non sarebbe possibile neppure ricorrendo alla categoria della prova atipica ex art. 189 cod. proc. pen., che presuppone la formazione lecita della prova, come risulta dal “diritto vivente” in proposito espresso da altra sentenza delle sezioni unite della Corte di cassazione (sentenza 28 marzo – 28 luglio 2006, n. 26795) in tema di riprese visive. Infatti, l'acquisizione della copia della corrispondenza deve ritenersi vietata ove non avvenga con le modalità stabilite dall'ordinamento penitenziario per l'apposizione del visto di controllo, quanto alla corrispondenza dei detenuti, e con quelle del sequestro ex art. 254 cod. proc. pen. per la generalità della corrispondenza postale. 3.– Nel merito le questioni non sono fondate. 3.1.– La «libertà» e la «segretezza» della «corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione» sono oggetto del diritto «inviolabile» tutelato dall'art. 15 Cost., che garantisce «quello spazio vitale che circonda la persona e senza il quale questa non può esistere e svilupparsi in armonia con i postulati della dignità umana» (sentenza n. 366 del 1991, ripresa dalla sentenza n. 81 del 1993). Nondimeno, al pari di ogni altro diritto costituzionalmente protetto, anche il diritto alla libertà e alla segretezza della corrispondenza è soggetto a limitazioni, purché disposte «per atto motivato dell'autorità giudiziaria con le garanzie stabilite dalla legge». Se così non fosse, «si verificherebbe l'illimitata espansione di uno dei diritti, che diverrebbe “tiranno” nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette» (sentenza n. 85 del 2013). Per questo, la «Costituzione italiana, come le altre Costituzioni democratiche e pluraliste contemporanee, richiede un continuo e vicendevole bilanciamento tra princìpi e diritti fondamentali, senza pretese di assolutezza per nessuno di essi», nel rispetto dei canoni di proporzionalità e di ragionevolezza (sentenza n. 85 del 2013). Pertanto, anche il diritto inviolabile protetto dall'art. 15 Cost. può subire limitazioni o restrizioni «in ragione dell'inderogabile soddisfacimento di un interesse pubblico primario costituzionalmente rilevante, sempreché l'intervento limitativo posto in essere sia strettamente necessario alla tutela di quell'interesse e sia rispettata la duplice garanzia» della riserva assoluta di legge e della riserva di giurisdizione (sentenza n. 366 del 1991). 3.2.– Non v'è dubbio che l'amministrazione della giustizia e la persecuzione dei reati costituiscano interessi primari, costituzionalmente rilevanti, idonei a giustificare una normativa limitativa del diritto alla libertà e alla segretezza della corrispondenza e della comunicazione. Ciò avviene, appunto, attraverso la previsione legislativa di mezzi di ricerca della prova, disciplinati dal Libro III, Titolo III, Capo III, del codice di procedura penale, che consentono all'autorità giudiziaria di prendere conoscenza dei contenuti delle comunicazioni interpersonali rilevanti ai fini dell'accertamento dei reati e di utilizzarli come evidenze processuali. La vigente normativa sulla ricerca dei mezzi di prova distingue gli strumenti applicabili alla corrispondenza da quelli esperibili nei confronti delle comunicazioni telefoniche, telematiche e informatiche. Per le prime è possibile procedere a sequestro (art. 254 cod. proc. pen.), mentre per le seconde la ricerca delle prove può avvenire a mezzo di intercettazione (artt. 266 e 266-bis cod. proc. pen.), applicabile anche alle comunicazioni tra presenti. Si tratta invero di strumenti diversi per modalità ed efficacia. Il sequestro della corrispondenza ha per oggetto il supporto (lettera, plico, pacco, telegramma) di cui comporta l'apprensione materiale, con la conseguenza di impedire che esso giunga a destinazione. L'intercettazione, che può avvenire anche all'insaputa degli interessati, ha per oggetto la comunicazione in sé e non ne interrompe il flusso; essa richiede operazioni talora articolate di registrazione e trascrizione perché le informazioni possano essere utilizzate a fini processuali, secondo modalità puntualmente disciplinate dalla legge (artt. 268 e ss. cod. proc. pen). Il rimettente ravvisa, nella vigente normativa, un'ingiustificata asimmetria tra la disciplina concernente le comunicazioni epistolari (in particolare postali) e quella applicabile alle altre forme di comunicazione (conversazioni e comunicazioni telefoniche, telematiche o informatiche, ovvero gestuali), in quanto per le prime non sarebbe prevista l'intercettazione, ma solo il sequestro. Tale asimmetria determinerebbe una violazione del principio di uguaglianza sancito dall'art. 3 Cost. 3.3.– Vero è che il diritto di cui all'art. 15 Cost. comprende tanto la «corrispondenza» quanto le «altre forme di comunicazione», incluse quelle telefoniche, elettroniche, informatiche, tra presenti o effettuate con gli altri mezzi resi disponibili dallo sviluppo della tecnologia. È altresì vero, tuttavia, che la tutela del medesimo diritto – nella specie, a comunicare liberamente e riservatamente – non esige di necessità l'uniformità della disciplina delle misure restrittive ad esso applicabili. Al contrario, la medesima esigenza di tutela della libertà e segretezza delle comunicazioni interpersonali ben può tollerare, o persino richiedere, che la limitazione del diritto sia adeguatamente modulata, in ragione delle diverse caratteristiche del mezzo attraverso cui la comunicazione si esprime. Ciò che rileva, ai fini del controllo esercitato da questa Corte, è che le disposizioni limitative della libertà di comunicazione siano rispettose della riserva assoluta di legge e di giurisdizione e siano volte alla tutela di un altro diritto o al perseguimento di un altro interesse costituzionalmente rilevante, in ossequio ai principi di idoneità, necessità e proporzionalità. In altri termini, ciò che questa Corte è chiamata a verificare, nel caso di specie, è che il legislatore abbia operato in concreto un bilanciamento tra il principio costituzionale della tutela della riservatezza nelle comunicazioni e l'interesse della collettività, anch'esso costituzionalmente protetto, alla repressione degli illeciti penali, senza imporre limitazioni irragionevoli o sproporzionate dell'uno o dell'altro (sentenza n. 372 del 2006). 3.4.– Nella normativa vigente, la libertà e la riservatezza della corrispondenza epistolare (postale) non sono esenti dai sacrifici necessari ad assicurare un efficace svolgimento delle indagini e dell'amministrazione della giustizia. Il sequestro di cui all'art. 254 cod. proc. pen., infatti, consente all'autorità giudiziaria di prendere conoscenza dei contenuti della corrispondenza dell'imputato rilevante per l'accertamento di reati, per mezzo della diretta acquisizione coattiva della res in cui si sostanzia l'atto di comunicazione, rappresentata dalla missiva cartacea. In tal modo, il sequestro determina altresì un'interruzione del flusso informativo, impedendo che la comunicazione scritta giunga al destinatario, così da esplicare anche effetti preventivi, specie quando la corrispondenza epistolare si sostanzi in direttive o mandati criminosi. Il sequestro, individuato dal legislatore come strumento volto a dotare l'ordinamento di mezzi di indagine utili alla repressione degli illeciti penali, costituisce una tra le possibili forme di restrizione alla libertà e alla segretezza della corrispondenza idonee a contemperare, in modo non irragionevole, anche alla luce delle peculiari caratteristiche del mezzo comunicativo disciplinato, interessi costituzionali contrapposti. 3.5.– Non può d'altra parte ritenersi che la specifica disciplina applicabile alla corrispondenza determini una distinzione giuridica irragionevole e perciò lesiva del principio di eguaglianza, sulla base del solo raffronto con la normativa applicabile a mezzi strutturalmente eterogenei quali sono, appunto, le comunicazioni telefoniche, informatiche e telematiche. La specificità della regolamentazione del sequestro di corrispondenza epistolare e la inapplicabilità ad essa della normativa sulle intercettazioni risultano, del resto, dalla stessa giurisprudenza di legittimità delle Sezioni unite (sentenza 19 aprile – 18 luglio 2012, n. 28997). La diversità del mezzo comunicativo utilizzato – segnatamente il suo diverso grado di materializzazione – ha orientato il legislatore verso differenti modalità di ricerca della prova, secondo scelte non irragionevoli, in base alle quali ha previsto il sequestro per la comunicazione realizzata attraverso un mezzo cartaceo – in linea con gli strumenti tradizionali per l'acquisizione di cose pertinenti al reato (art. 253 cod. proc. pen. e, con specifico riguardo alla corrispondenza postale, art. 254 cod. proc. pen.) – e l'intercettazione per la comunicazione realizzata attraverso mezzi visivi, acustici o elettronici. Non è dunque di per sé irragionevole che la restrizione del diritto alla segretezza delle comunicazioni, giustificata da esigenze di prevenzione e repressione dei reati, possa comportare la previsione di differenti mezzi di ricerca della prova, tecnicamente confacenti alla diversa natura del medium utilizzato per la comunicazione. 4.– Per quanto riguarda più specificamente la corrispondenza postale del detenuto, deve inoltre ricordarsi che la disciplina dettata dall'art. 18-ter della legge n. 354 del 1975, come modificata dalla legge n. 95 del 2004, rappresenta un delicato punto di equilibrio raggiunto dal legislatore, anche a seguito di numerose decisioni della Corte europea dei diritti dell'uomo in cui l'Italia veniva ripetutamente condannata per violazione degli artt. 8 e 13 CEDU (ex multis, sentenze 21 ottobre 1996, Calogero Diana contro Italia; 15 novembre 1996, Domenichini contro Italia; 6 aprile 2000, Labita contro Italia; 26 luglio 2001, Di Giovine contro Italia; 14 ottobre 2004, Ospina Vargas contro Italia). 4.1.– Non è superfluo ribadire il costante orientamento della giurisprudenza di questa Corte, secondo il quale la tutela costituzionale dei diritti fondamentali opera anche nei confronti di chi è stato sottoposto a legittime restrizioni della libertà personale, sia pure con le limitazioni imposte dalla particolare condizione in cui versa: «Chi si trova in stato di detenzione, pur privato della maggior parte della sua libertà, ne conserva sempre un residuo, che è tanto più prezioso in quanto costituisce l'ultimo ambito nel quale può espandersi la sua personalità individuale» (sentenza n. 349 del 1993, nonché sentenze n. 26 del 1999 e n. 212 del 1997). In relazione alla libertà di corrispondenza, deve osservarsi che i colloqui personali dei detenuti e, se autorizzate, le loro comunicazioni telefoniche sono soggetti a contingentamenti e regolazioni da parte dell'ordinamento penitenziario (art. 18 della legge n. 354 del 1975). Per quanto riguarda la corrispondenza epistolare, di norma il detenuto deve avere a disposizione gli strumenti necessari, ma per la sua stessa condizione è comunque tenuto ad affidarsi all'amministrazione penitenziaria, che smista la posta diretta ai detenuti o da loro spedita. In questo contesto, di per sé limitativo della libertà di comunicare riservatamente, si inserisce l'art. 18-ter, introdotto con la legge n. 95 del 2004, che prevede la possibilità di ulteriori restrizioni:«Per esigenze attinenti le indagini o investigative o di prevenzione dei reati, ovvero per ragioni di sicurezza o di ordine dell'istituto, possono essere disposti, nei confronti dei singoli detenuti o internati, per un periodo non superiore a sei mesi, prorogabile per periodi non superiori a tre mesi: a) limitazioni nella corrispondenza epistolare e telegrafica e nella ricezione della stampa; b) la sottoposizione della corrispondenza a visto di controllo; c) il controllo del contenuto delle buste che racchiudono la corrispondenza, senza lettura della medesima». 4.2.– La procedura mediante visto di controllo della corrispondenza postale dei detenuti di cui all'art. 18-ter dell'ordinamento penitenziario si affianca, dunque, ad ulteriori limitazioni e condizionamenti a cui la comunicazione con soggetti esterni è sottoposta. Unitamente agli altri strumenti contemplati dal medesimo art. 18-ter, l'apposizione del visto di controllo realizza, nello specifico ambito della detenzione in carcere, un bilanciamento tra le esigenze investigative legate alla prevenzione o alla repressione dei reati e i diritti dei detenuti, tra i quali la possibilità di intrattenere rapporti con soggetti esterni riveste una particolare importanza affinché le modalità di esecuzione della pena siano rispettose dei principi costituzionali e, segnatamente, dell'art. 27 Cost. 5.– D'altra parte, la normativa impugnata attiene ad istituti processuali e, segnatamente, ai mezzi di ricerca della prova, ambito in cui debbono essere preservati adeguati margini di discrezionalità legislativa, soggetti solo a controllo di manifesta irragionevolezza o arbitrarietà da parte di questa Corte (da ultimo, ex plurimis, sentenze n. 152 del 2016, n. 138 del 2012 e n. 141 del 2011). Per le considerazioni che precedono, relative alle caratteristiche del mezzo utilizzato e della particolare posizione del detenuto, deve escludersi la manifesta irragionevolezza o arbitrarietà delle scelte discrezionali del legislatore nella regolazione dei mezzi di ricerca della prova che possono essere adottati in relazione alla corrispondenza postale in genere (attraverso il sequestro ex art. 254 cod. proc. pen.) e del detenuto in particolare (attraverso la procedura mediante visto di controllo prevista dall'ordinamento penitenziario). Ciò non vuol dire che lo stesso legislatore, nel rispetto delle riserve di legge e di giurisdizione previste dall'art. 15 Cost. e in osservanza dei canoni di ragionevolezza e di proporzionalità, non possa prevedere forme di captazione occulta dei contenuti che non interrompano il flusso comunicativo, come già accaduto per le comunicazioni telematiche e informatiche, introdotte attraverso gli artt. 11 e 12 della legge 23 dicembre 1993, n. 547 (Modificazioni ed integrazioni alle norme del codice penale e del codice di procedura penale in tema di criminalità informatica). Si tratta di delicate scelte discrezionali, non costituzionalmente necessitate, che, come tali, rientrano a pieno titolo nelle competenze e nelle responsabilità del legislatore e non in quelle di questa Corte, il cui compito precipuo è vigilare affinché il bilanciamento, fissato dalla legge, tra contrapposti diritti e interessi costituzionali risponda a principi di ragionevolezza e proporzionalità. 6.– Dalle osservazioni che precedono discende l'infondatezza delle censure relative alla violazione degli artt. 3 e 112 Cost. Infatti – a prescindere da ogni considerazione sull'affermazione del rimettente relativa alla completezza investigativa quale «precipitato naturale» del principio di obbligatorietà dell'azione penale – una volta ritenuta non illegittima, per la corrispondenza epistolare, la restrizione a taluni mezzi di ricerca della prova, risultano altrettanto non illegittime le conseguenti limitazioni del materiale probatorio utilizzabile.
per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 266 del codice di procedura penale e degli artt. 18 (nel testo anteriore alle modifiche introdotte dall'art. 3, commi 2 e 3, della legge 8 aprile 2004, n. 95, recante «Nuove disposizioni in materia di visto di controllo sulla corrispondenza dei detenuti») e 18-ter della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), sollevate dalla Corte di assise di appello di Reggio Calabria, in riferimento agli artt. 3 e 112 della Costituzione, con l'ordinanza in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 dicembre 2016.
F.to: Paolo GROSSI, Presidente Marta CARTABIA, Redattore Roberto MILANA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 24 gennaio 2017. Il Direttore della Cancelleria F.to: Roberto MILANA
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