La “mafia silente”. Un cambio di rotta della Cassazione sulla necessità dell’esternazione del metodo mafioso
26 Maggio 2017
A breve distanza dal provvedimento restitutorio con cui il Primo Presidente della Cassazione ha affermato non sussistere un contrasto giurisprudenziale sulla necessità o meno di esteriorizzazione del metodo mafioso ai fini dell'integrazione del delitto ex art. 416-bis c.p. – essendo pacifico che l'associazione di tipo mafioso implichi la capacità di sprigionare, per il solo fatto della sua esistenza, una capacità di intimidazione attuale, effettiva ed obiettivamente riscontrabile – la seconda Sezione della Cassazione penale afferma, con sentenza n. 24851 (depositata il 18 maggio 2017), che «Richiedere ancora oggi la prova di un'effettiva estrinsecazione del metodo mafioso potrebbe tradursi nel configurare la mafia solo all'interno di realtà territoriali storicamente o culturalmente permeabili dal metodo mafioso o ignorare la mutazione genetica delle associazioni mafiose che tendono a vivere e prosperare anche “sott'acqua”, cioè mimetizzandosi nel momento stesso in cui si infiltrano nei gangli dell'economia produttiva e finanziaria e negli appalti di opere e servizi pubblici». «Poco importa» secondo il Supremo Collegio «che l'impiego della forza intimidatoria del vincolo associativo e delle condizioni di assoggettamento e di omertà abbia avuto maggiore o minore successo, successo che è in proporzione inversa alla capacità di resistenza civile e culturale delle comunità che della forza di intimidazione siano state destinatarie: in realtà tale impiego, munito della connotazione finalistica delineata dall'art. 416-bis c.p., comma 3 è già di per sé sufficiente ad integrare il delitto in discorso. Piuttosto, meglio sarebbe ridefinire la nozione di c.d. mafia silente non già come associazione criminale aliena dal c.d. metodo mafioso o solo potenzialmente disposta a farvi ricorso, bensì come sodalizio che tale metodo adopera in modo silente, cioè senza ricorrere a forme eclatanti (come omicidi e/o attentati di tipo stragistico), ma avvalendosi di quella forma di intimidazione – per certi aspetti ancor più temibile – che deriva dal non detto, dall'accennato, dal sussurrato, dall'evocazione di una potenza criminale cui si ritenga vano resistere». La Cassazione ha così annullato la sentenza della Corte d'appello di Genova e rinviato ad altra Sezione per un nuovo giudizio. I giudici di seconde cure avevano confermato la sentenza di assoluzione, ad esito di giudizio abbreviato, pronunciata nei confronti di alcuni membri dell'associazione mafiosa denominata ndrangheta operante in Liguria, collegata con le strutture organizzative calabresi e costituita in articolazioni territoriali denominate locali di Genova, Lavagna, Ventimiglia e Sarzana, coordinate da una camera di controllo della Liguria. Il primo giudice era giunto ad esito assolutorio basandosi sulla considerazione che, nonostante l'associazione mafiosa possa esistere anche senza la commissione di reati, questa comunque non può prescindere dalla esteriorizzazione della sua forza intimidatrice in considerazione del carattere strumentale del metodo mafioso rispetto ai fini illeciti indicati dalla legge, sicché, nel caso di specie, pur essendo tutti gli imputati legati alla ndrangheta, riproducendone riti e segretezza, non sarebbero produttivi in Liguria ossia, per usare le parole della Cassazione «pur essendo ndranghetisti non si comporterebbero come tali al di fuori della Calabria». La Corte territoriale, inoltre, sosteneva che l'interpretazione giurisprudenziale secondo cui esistono articolazioni territoriali di organizzazioni mafiose storiche che sono a queste ultime legate da un rapporto organico e ne condividono il metodo mafioso che non ha necessità di autonoma esternazione (sentenza Albachiara) si tradurrebbe in una sorte di presunzione iuris et iure dell'esistenza di una condizione di assoggettamento in presenza di un'articolazione territoriale di una mafia storia. La seconda Sezione penale della Cassazione oltre a rifiutare tale lettura del fenomeno mafioso per le ragioni suindicate, indica come proprio con riferimento alla c.d. mafia silente sia fondamentale il rispetto di uno standard probatorio che tenga presente che «l'esternazione del metodo in ipotesi di strutture delocalizzate e di mafie atipiche non debba essere parametrata in termini giuridicamente necessitati alla valutazione dell'impatto ambientale determinato dal radicamento territoriale». Simile interpretazione, prosegue la Corte, non «si presta ad essere tacciata di irragionevolezza giacché la condizione di assoggettamento e di omertà costituisce il riflesso sociologico della metodologia associativa (storicamente ricorrente ma non causalmente obbligato) e la permeabilità del contesto sociale all'uso strumentale dell'intimidazione mafiosa è una variabile fortemente condizionata – in tempi recenti anche nelle stesse aree originarie del fenomeno – dai settori di interesse malavitoso, dal più o meno spiccato senso civico e dallo sviluppo di un adeguato senso della legalità che portano ad un inevitabile scollamento tra l'obiettiva espressione intimidatoria dell'associazione e la concreta penetrazione sociale sicché il postulato di una necessaria incisione della realtà in termini macroscopici non appare rispondente ai parametri di concreta offensività della fattispecie […] In sintesi, l'esternazione del metodo trova difforme declinazione e differente manifestazione a seconda della direzione finalistica delle condotte dei sodali e non può essere valutato secondo unitari e aprioristici moduli ermeneutici». |