La direttiva Pif: un ulteriore passo nel processo di sviluppo del diritto penale europeo o un’occasione persa?

Andrea Venegoni
27 Luglio 2017

È giunto a conclusione l'iter legislativo della direttiva per la protezione degli interessi finanziari dell'Unione attraverso il diritto penale, la c.d. direttiva Pif, approvata in via definitiva dal Parlamento europeo nella seduta del 5 luglio 2017. Si tratta di una tappa importante per la crescita del diritto penale dell'Unione, anche se meno incisiva di quanto avrebbe potuto essere.
Abstract

Partendo dalla recente approvazione finale, da parte delle Istituzioni legislative dell'Unione, della direttiva per la protezione degli interessi finanziari dell'Unione attraverso il diritto penale, la c.d. direttiva Pif, lo scritto si propone, prima di tutto, di chiarire il contesto nel quale la stessa è maturata, atteso che la stessa è il frutto più recente di un percorso di nascita e di sviluppo del diritto penale europeo, una materia un tempo quasi misconosciuta e che oggi sta, invece, influenzando in maniera rilevante il nostro ordinamento.

Tuttavia, una analisi del contenuto della stessa rivela come le aspettative che la proposta aveva suscitato, in termini di possibile raggiungimento di un livello di armonizzazione dei sistemi penali nazionali fino ad ora mai conseguito, sono state in gran parte deluse. Resta, però, l'importanza del documento, quanto meno per il suo collegamento con il prossimo strumento legislativo in materia, il regolamento istitutivo della procura europea, che dovrebbe vedere la luce nei prossimi mesi, e di cui la presente direttiva disegna la competenza.

Premessa

È giunto a conclusione l'iter legislativo della direttiva per la protezione degli interessi finanziari dell'Unione attraverso il diritto penale, la c.d. direttiva Pif, approvata in via definitiva dal Parlamento europeo nella seduta del 5 luglio 2017. Si tratta di una tappa importante per la crescita del diritto penale dell'Unione, anche se meno incisiva di quanto avrebbe potuto essere. Il suo significato, però, resta rilevante e, proprio per comprenderlo appieno, si è pensato di compiere in questa sede – oltre ad una analisi dei principali contenuti della stessa – una preliminare e sintetica incursione a ritroso – chiedendo venia fin d'ora per le eccessive semplificazioni – per capire il contesto in cui la stessa si inserisce nello sviluppo di una materia, il diritto penale europeo appunto, che si proporrà sempre più come attuale nel nostro sistema, come dimostra una vicenda come quella del noto caso Taricco, che con questo provvedimento presenta fortissimi legami.

La nascita della potestà sanzionatoria della Comunità europea

La direttiva, infatti, non è un atto isolato, frutto di una iniziativa estemporanea, ma si inserisce in un contesto ultraventennale di nascita e sviluppo della potestà legislativa dell'Unione in diritto penale, un percorso che, per essere chiari, non solo non è ancora concluso, ma è anzi agli inizi e riserverà nel prossimo futuro interventi ben più pregnanti.

Come già messo in luce più volte dagli studiosi della materia, per lunghi anni dopo l'istituzione della Comunità economica europea, il problema dell'esistenza di una competenza della stessa a legiferare in materia penale non si era posto come urgente o come primario. Semplicemente, ne mancavano le basi legali nel trattato Cee del 1957, così come nell'Atto unico del 1986.

Questo, ben inteso, con riferimento ad una potestà legislativa diretta, cioè alla possibilità per la Comunità di emettere direttamente norme di diritto penale o di farle emettere agli Stati.

Come spesso è avvenuto ed avviene tuttora nel campo del diritto penale europeo, un primo sommovimento in materia si verificò ad opera della Corte di giustizia in una materia particolare, relativa ad un interesse tipicamente comunitario, quello della tutela delle finanze proprie della Cee.

Fin dagli anni ‘70, infatti, la Comunità si era dotata di alcune risorse tipiche per finanziarie il proprio bilancio e conseguire i propri scopi; queste erano, in particolare, i dazi doganali, i prelievi agricoli ed una quota dell'Iva. Le prime due voci erano riscosse dai funzionari doganali degli Stati membri e confluivano direttamente nel bilancio comunitario. La repressione e prevenzione di condotte che tendessero a sottrarre le risorse al bilancio comunitario era quindi essenziale per la vita della Comunità. La Corte di giustizia si trovò, nel 1989, ad affrontare un caso in cui la Commissione portò in giudizio uno Stato membro per farne accertare la negligenza ed il suo mancato controllo sui propri funzionari doganali che, in occasione dell'importazione di partite di mais da uno Stato extra Cee, non avevano riscosso puntualmente ed adeguatamente i diritti doganali, causando così un mancato introito alle finanze comunitarie.

In occasione della decisione di tale caso, la Corte di giustizia affermò alcuni importanti principii: quello per cui gli Stati sono obbligati a tutelare le finanze della allora Cee come le proprie nazionali, e quello per cui, in virtù dell'obbligo di garantire l'efficacia del diritto comunitario, gli Stati sono obbligati ad assicurare, per sanzionare le violazioni dello stesso, sanzioni che abbiano il carattere di effettività, di proporzionalità e di capacità dissuasiva.

Con questa sentenza, quindi, per la prima volta la Comunità europea, tramite un proprio organo, dava indicazioni agli Stati in merito all'adozione di sanzioni per tutelare un proprio interesse. Successivamente tale percorso fu completato con altre decisioni in cui, ribadendo tale principio, la Corte precisava esplicitamente che tali sanzioni, nei casi più gravi, potevano essere anche di natura penale.

L'Unione europea ed il terzo pilastro

Si era, nel frattempo giunti ai primi anni '90. Nel 1992 la Comunità economica europea si trasforma, con il trattato di Maastricht, in Unione europea. L'ambizione è di creare una struttura, una istituzione, più politica, forse il primo passo verso uno Stato federale. Per questo le sue competenze devono essere più ampie di quelle relative al solo mercato unico della Cee. Così, pur senza abbandonare queste, che vanno a rappresentare un primo campo di azione della neonata Ue (il c.d. primo pilastro), la nuova istituzione si dota di una competenza anche in sicurezza e difesa comune (secondo pilastro) e, necessariamente, nel campo della cooperazione tra le autorità giudiziarie, non potendo una struttura che non è solo più economica, ma tende ad essere anche politica, avere al suo interno sistemi giuridici non solo differenti, ma neppure cooperanti tra loro.

Il terzo campo di azione della Ue (terzo pilastro) diventa, allora, quello della cooperazione giudiziaria, sia in campo civile che penale.

Tra i vari “pilastri”, però, esistono differenze istituzionali profonde: tralasciando il secondo pilastro che ha sempre avuto una vita a sé, il primo pilastro opera con il c.d. metodo comunitario, la procedura legislativa ordinaria che prevede il ruolo della Commissione Europea come proponente, ed il Consiglio della Ue e il Parlamento europeo con il compito di discutere ed approvare le proposte. Gli atti legislativi tipici di tale settore sono i regolamenti, atti ad efficacia diretta, le direttive, in genere vincolanti nello scopo ma non aventi efficacia diretta e bisognose di una legge nazionale di attuazione, le raccomandazioni, i pareri.

Nel terzo pilastro, invece, il metodo legislativo è quello intergovernativo: non vi è una proposta della Commissione discussa da Consiglio e Parlamento ma le norme sono discusse e approvate direttamente dal Consiglio, cioè dagli Stati, sebbene alle discussioni partecipi anche la Commissione. Gli atti tipici di questo settore non sono mai ad efficacia diretta, e sono le convenzioni, tipici strumenti di diritto internazionale tra Stati, e le posizioni quadro; col tempo, queste saranno sostituiti dalle decisioni quadro.

Il terzo pilastro riguarda, quindi, anche la cooperazione tra gli Stati in diritto penale (dal 1997, poi, esclusivamente la cooperazione in diritto penale). Inizia così a delinearsi una competenza dell'unione in materia. La competenza non comporta, ovviamente, il potere di emettere norme penali ad effetto diretto o norme sulla parte generale del diritto penale ma consiste nel tentativo di armonizzare le fattispecie penali con atti non vincolanti che devono essere attuati nei singoli ordinamenti, per tutelare determinati beni; in sostanza, ciò che la Corte di giustizia aveva detto nel 1989.

In quale materia l'Unione può iniziare a rivolgere tali inviti agli Stati? La domanda è retorica, la risposta quasi ovvia: in una materia che rappresenti un interesse tipico dell'unione, un interesse sovranazionale. La sentenza della Corte del 1989 riguardava la lotta alle frodi contro gli interessi finanziari della Comunità, la tutela del bilancio della Comunità; questo è l'interesse tipico anche dell'Unione, conservando la stessa il medesimo bilancio, e non degli Stati, su cui si inizia ad eserciate la potestà legislativa penale dell'Unione nei limiti sopra detti. L'atto con cui ciò avviene è dunque una convenzione, un tipico atto di terzo pilastro. Lo spirito di questo atto è il seguente: gli Stati e l'Unione prendono atto del fatto che il bilancio dell'Unione è compromesso da alcune condotte che ne diminuiscono le entrate o ne disperdono le spese; queste condotte vengono identificate nelle fattispecie di frode, corruzione e riciclaggio. Gli stessi si accordano allora affinché si abbia una definizione comune, a livello dell'Unione, di tali condotte, per favorire la cooperazione delle autorità giudiziarie dei vari Stati nelle indagini transnazionali. Nel 1995, in seno all'Unione si conclude quindi una convenzione, denominata appunto Convenzione per la tutela degli interessi finanziari delle Comunità europee, con alcuni protocolli, nella quale l'Unione detta definizioni comuni di tali reati ed invita gli Stati a recepire tali definizioni nei propri sistemi giuridici.

La Convenzione viene recepita nei vari ordinamenti; l'Italia la ha attuata con legge 300 del 2000 che ha approntato alcune modifiche al codice penale.

Intanto le competenze penali dell'Unione hanno una lenta evoluzione; gli atti legislativi mutano natura; a partire dai primi anni 2000, le convenzioni sono sostituite dalle decisioni quadro. In tale momento, gli eventi mondiali rivelano la necessità per l'Unione di occuparsi non solo della lotta alle frodi del proprio bilancio, ma di fronteggiare fenomeni di rilievo penale transnazionale come il terrorismo, in particolare dopo i fatti dell'11 settembre 2001. Nel frattempo, poi, anche in virtù della approvazione nel 2000 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea e del notevole sviluppo che inizia ad acquistare l'altro sistema di diritto penale europeo, quello della Convenzione europea dei diritti umani (Cedu) e della relativa Corte di Strasburgo – sistema che, è sempre bene precisare, è del tutto distinto da quello della Unione europea –, l'Unione inizia sempre più a rivolgere la propria attenzione anche alla tutela delle parti del processo penale. Da un lato, così, si incrementano gli atti legislativi per favorire sempre più una stretta collaborazione tra autorità inquirenti: basti pensare al riguardo alle decisioni quadro sul mandato di arresto europeo ed a quella sulla creazione dell'organismo di cooperazione Eurojust, entrambe del 2002. Dall'altro, l'Unione inizia a redigere piani pluriennali di azione per la tutela dei diritti all'interno del processo penale e ad adottare decisioni quadro sui singoli aspetti.

Il diritto penale dell'Unione inizia così ad assumere nei primi anni 2000 una sua definita fisionomia, nasce l'idea di Unione europea come spazio giuridico comune, anche in diritto penale, ma sconta sempre il limite di una base legale non particolarmente incisiva; non esiste infatti sia nel Trattato di Maastricht del 1992, che in quello di Amsterdam del 1997 che in quello di Nizza del 2000 una chiara base legale che permetta all'Unione di avere poteri espliciti in materia penale. L'Unione non può quindi che, attraverso atti non vincolanti e che necessitano sempre di normative nazionali di recepimento, invitare gli Stati ad adottare provvedimenti ma contro l'eventuale inadempimento degli Stati, i poteri dell'Unione sono scarsissimi. È la debolezza del terzo pilastro.

Il campo della lotta alle frodi ed il Corpus iuris

La lotta alle frodi ai danni del bilancio comunitario, tuttavia, continua ad essere il campo di elezione per lo sviluppo del diritto penale. Proprio in tale ambito tra la fine degli anni ‘90 ed i primi anni 2000 un gruppo di accademici, coordinati dalla prof. Mireille Delmas Marty, ipotizza la creazione di un mini sistema europeo di diritto penale, sia sostanziale che processuale; è il c.d. corpus iuris, che preconizza la definizione comune di una serie di reati, oltre ai tre reati “classici” di frode, corruzione e riciclaggio indicati sopra, prevedendo anche altre fattispecie che arrecano danno al bilancio dell'Unione e l'istituzione di una procura europea. La previsione di quest'ultima avrebbe dovuto essere inserita nelle modifiche ai Trattati in occasione del Consiglio europeo di Nizza nel 2000 ma così non avvenne. Peraltro, l'art. 280 del Trattato, pur continuando a sancire l'obbligo degli Stati di tutelare le finanze comunitarie come le proprie e di adottare misure sanzionatorie per garantire l'osservanza del diritto dell'Unione, esclude espressamente gli interventi in diritto penale. Il campo della lotta alle frodi, essendo anche una “politica propria” della vecchia Comunità economica, si sviluppa quindi molto anche nell'ambito del primo pilastro ma in campo extra penale. Attraverso una serie di regolamenti, si definisce la nozione di irregolarità che arreca danno alle finanze dell'Unione (1995), si prevedono indagini amministrative per l'accertamento di tali irregolarità con la disciplina espressa di una misura di accertamento tipica, il “controllo sul posto” (1996) e, nel 1999, si giunge alla creazione di un vero e proprio ufficio investigativo dell'unione per condurre indagini amministrative in tutto il territorio della stessa per proteggerne gli interessi finanziari. Si tratta dell'Ufficio europeo per la lotta antifrode (Olaf), i cui risultati investigativi, tra l'altro, sono trasferibili anche alle autorità giudiziarie penali nazionali.

Il ruolo della Corte di giustizia ed il trattato di Lisbona

Tuttavia, il cammino verso la creazione di un vero diritto penale dell'Unione non si arresta. Nel 2005, alcuni nuovi rilevantissimi interventi della Corte di giustizia danno una svolta a questa materia. Nel caso Pupino la Corte afferma che qualora le disposizioni penali nazionali non siano in linea con decisioni quadro già vigenti, anche se non ancora trasposte nell'ordinamento nazionale, il giudice nazionale può interpretare le disposizioni penali nazionali in conformità a tali decisioni quadro (interpretazione conforme). Si tratta quindi di una sorta di riconoscimento di primato della normativa europea in materia penale rispetto a quella interna.

In un secondo caso, molto più attinente all'assetto istituzionale dell'Unione ma di rilevanza fondamentale, la Corte afferma che quando una materia appartiene ad una delle politiche proprie dell'Unione (primo pilastro), il procedimento legislativo degli atti che la riguardano, anche in materia penale, deve essere quello del metodo comunitario proprio del primo pilastro, con ruolo preminente delle istituzioni comunitarie, anziché quello intergovernativo del terzo pilastro. La sentenza è di capitale importanza perché anticipa un fenomeno che si verificherà da lì a poco, e cioè il superamento della struttura dell'Unione in pilastri e l'unificazione del procedimento legislativo.

Questo è ciò che avviene nel 2007 con l'approvazione del trattato di Lisbona, entrato in vigore nel 2009, che rivoluziona la struttura dell'Unione: sparisce, appunto, la suddivisione in pilastri; il quadro istituzionale diventa omogeneo e vi è una sostanziale unificazione del procedimento legislativo, nel senso di rendere generale quello che nel preesistente sistema era il metodo comunitario, con la proposta della Commissione e l'approvazione del Consiglio e del Parlamento. È superata anche la distinzione degli atti legislativi: gli stessi sono unificati nelle forme del regolamento e della direttiva.

Ma, soprattutto, in materia penale il trattato di Lisbona prevede ora una competenza espressa ed esplicita dell'Unione negli artt. 82 e 83 T.F.Ue, sia in campo sostanziale che processuale. Una competenza a dettare, con direttiva, norme minime comuni per ravvicinare le legislazioni degli Stati.

Anche nel trattato di Lisbona, però, il campo della lotta alle frodi si presenta come speciale. Esso è disciplinato in una norma esplicita, l'art. 325 T.F.Ue. La stessa, oltre a prevedere gli obblighi già esistenti nei precedenti trattati, non contiene più la esclusione degli interventi in diritto penale che era contenuta nel suo predecessore, l'art. 280. Secondo alcuni, ciò significa che tale norma rappresenta una base legale specifica per interventi legislativi nel campo della lotta alle frodi anche in diritto penale, che sarebbero sottratti quindi alle basi legali generali degli artt. 82 e 83 T.F.Ue.

In questo contesto, allora, si viene ad inserire la direttiva oggetto del presente commento, basata su una proposta adottata dalla Commissione europea nel luglio 2012 ai sensi dell'art. 325 T.F.Ue, secondo il nuovo quadro derivante dal trattato di Lisbona visto sopra.

La direttiva Pif: significato “politico”

La direttiva si propone, in primo luogo, di superare la Convenzione Pif del 1995 sopra ricordata, in base alle nuove potenzialità del trattato di Lisbona: intanto è proposta dalla Commissione europea, e non dagli Stati, e poi, in caso di inadempimento di questi, permette alla Commissione di fare rilevare tale mancanza davanti alla Corte di giustizia. La proposta di direttiva si presenta quindi, come un atto molto più “europeo” della Convenzione del 1995.

Ma le novità non finiscono qui.

La proposta di direttiva si propone un maggiore livello di armonizzazione anche di istituti di parte generale, ed in relazione ad un numero più ampio di reati considerati lesivi degli interessi finanziari dell'Unione.

Infine, la stessa rappresenta anche lo strumento legislativo di diritto penale sostanziale che definisce la competenza della procura europea, in base ad un rinvio contenuto in una norma della proposta di regolamento C(2013)534 del 17 luglio 2013. Un anno dopo l'adozione della proposta di direttiva, infatti, la Commissione europea, sempre facendo uso delle nuove competenze del trattato di Lisbona, ha messo in campo anche l'altra rilevante proposta legislativa per tutelare gli interessi finanziari dell'Unione, quella appunto sulla creazione della procura europea, ai sensi dell'art. 86 T.F.Ue. Tale proposta, per delimitare la competenza del nuovo organismo investigativo, compie, dunque, un rinvio proprio alla direttiva Pif del 2012.

In sostanza, circa quindici anni dopo lo studio denominato Corpus Iuris, la Commissione europea ha di fatto cercato, appena l'esistenza di chiare basi legali glielo ha consentito, di tradurre in realtà quella particolare ed importantissima esperienza, così rilevante nell'ottica della creazione di quella famosa “area di giustizia comune” europea che almeno da 20 anni rappresenta uno degli obiettivi dell'Unione.

Questo è, quindi, uno dei significati “politici” della direttiva Pif che ne fanno, perciò, un documento assai importante e meritevole di attenzione.

La direttiva Pif: contenuto

Purtroppo, però, oggi, nel momento in cui la proposta del 2012 è stata, finalmente, approvata dopo cinque anni, bisogna constatare che l'estenuante ricerca del compromesso nei negoziati in Consiglio ed in Parlamento e l'emergere di tendenze eccessivamente “conservatrici” delle potestà nazionali in diritto penale ha prodotto un risultato finale che è certamente più povero delle premesse rappresentate dalla proposta della Commissione del 2012.

Queste tendenze si sono manifestate, innanzi tutto, a partire dalla individuazione della base legale dello strumento legislativo. Il testo finale, infatti, ha disatteso l'utilizzo dell'art. 325 T.F.Ue ed ha basato la direttiva sull'art. 83 T.F.Ue, norma che limita notevolmente il contenuto dello strumento legislativo perché prevede l'adozione solo di norme minime comuni, oltre a vincolare l'atto legislativo nella forma della direttiva, non direttamente applicabile negli ordinamenti nazionali.

E tuttavia non può non rimarcarsi come un nuovo intervento della Corte di giustizia nel 2015 abbia in realtà confermato la bontà della scelta originaria della proposta della Commissione. Nel notissimo caso Taricco in tema di prescrizione delle frodi Iva, la Corte di giustizia ha infatti riconosciuto efficacia diretta allo stesso art. 325 T.F.Ue, stabilendo l'obbligo per i giudici penali nazionali di disapplicare le norme penali in tema di prescrizione, per contrasto proprio con tale norma, quando – come nel caso di specie – le stesse non consentono una efficace tutela degli interessi finanziari della Ue – di cui l'Iva è parte – non permettendo al processo di giungere ad una pronuncia di merito per la previsione di termini troppo brevi in tema di prescrizione, o meglio, di meccanismo di proroga della stessa a seguito di atti interruttivi. Così facendo al Corte ha attribuito uno straordinario valore all'art. 325 T.F.Ue perché se lo stesso è il parametro, avente anche efficacia diretta, in base al quale valutare la rispondenza della normativa nazionale ai principi di effettività e deterrenza delle sanzioni penali, se ne dovrebbe concludere che lo stesso non può non essere, a questo punto, anche la base legale per iniziative dell'Unione in diritto penale. In questo senso, quindi, la posizione del Consiglio e del Parlamento appare superata da quella della Corte che, come ha confermato l'avvocato generale nelle sue conclusioni del 18 luglio 2017 nell'ulteriore procedimento che la vicenda Taricco ha determinato in seguito al rinvio pregiudiziale compiuto dalla Corte costituzionale italiana, tende ad assicurare il primato del diritto dell'Unione che non può essere messo in discussione neppure di fronte alla prospettazione di contrarietà dello stesso a determinati principi costituzionali nazionali, come, del resto, la Corte di giustizia aveva già affermato nel caso Melloni. Il primato del diritto dell'Unione è il requisito essenziale per la costruzione di quella area comune di giustizia penale europea che, come si è visto sopra, è uno degli obiettivi fondamentali dell'Unione e non può recedere neppure di fronte a principi nazionali di rango costituzionale.

Nel contenuto, poi, la direttiva contiene luci ed ombre.

Gli elementi positivi sono:

una chiara definizione del concetto di interessi finanziari dell'Unione (art. 2, comma 1,); la materia è, infatti, caratterizzata da un forte tecnicismo, essendo il sistema finanziario della Ue assai complesso; con esso, infatti, non si fa riferimento solo al bilancio generale comunitario ma anche a bilanci di origine non comunitaria sebbene gestiti dalle Comunità, come il Fondo europeo di sviluppo, così come esistono bilanci gestiti per conto delle Comunità, quali quelli relativi ai fondi strutturali. È positivo, quindi, che si sia dato in primo luogo una definizione della nozione e, in secondo luogo, che la stessa sia sufficientemente ampia, perché una definizione troppo ristretta avrebbe rischiato di non includere nello scopo della direttiva impegni finanziari che, invece, sono rilevanti per l'Unione;

la previsione di un maggior numero di fattispecie penali, rispetto alle classiche di frode, corruzione e riciclaggio, quali condotte che ledono gli interessi finanziari della Ue, e quindi il tentativo di una armonizzazione del diritto penale più estesa rispetto a quella Convenzione del 1995, essendo contemplata anche la frode in appalti e l'appropriazione indebita (artt. 3 e 4);

la consacrazione espressa e definitiva dell'iva come imposta di rilievo comunitario, in linea con la posizione della Corte di giustizia in varie sentenza tra cui Commissione vs Germania del 2011, i casi Fransson e Taricco, a fronte del movimento di pensiero che si stava facendo strada soprattutto tra gli Stati, tendente a considerarla solo come imposta nazionale e tendente quindi ad escludere le frodi iva dal novero delle condotte che attentano agli interessi finanziari della Ue;

un ampliamento del concetto di pubblico ufficiale, spettando ora lo stesso non solo a chi ricopre formalmente una carica pubblic, ma anche a qualunque altra persona – e quindi anche ad un privato – a cui siano state assegnate o che eserciti funzioni di pubblico servizio che implichino la gestione degli interessi finanziari dell'Unione, o decisioni che li riguardano, negli Stati Membri o in paesi terzi (art. 4, comma 4, lett. b));

la espressa previsione della responsabilità delle persone giuridiche anche per le frodi fiscali, in particolare in tema di Iva, atteso che la Convenzione del 1995, pur enunciando il principio, prevedeva una disposizione nei confronti dei dirigenti delle imprese (art. 6 ed art. 9 per le sanzioni)

un maggior livello di armonizzazione in tema di sanzioni, con la previsioni di espressi termini di durata delle stesse, anziché l'utilizzo di formule, come quelle della Convenzione del 1995, di sanzioni penali effettive proporzionate e dissuasive o tali da consentire l'estradizione nei casi gravi (art. 7);

un maggior livello di armonizzazione in tema di prescrizione, atteso che la direttiva prevede ora, per i casi più gravi, un termine minimo (cinque anni) al di sotto del quale le legislazioni nazionali non possono prevedere un termine di prescrizione inferiore (art. 12). È vero che il termine è piuttosto contenuto anche rispetto a quanto prevedeva la proposta della Commissione del 2012, e, di fatto, è già vigente in tutti gli ordinamenti nazionali, ma si tratta di un primo passo verso un livello di armonizzazione certamente più elevato di quello che, in strumenti precedenti, invitava gli Stati a prevedere semplicemente termini sufficienti per permettere ai processi nazionali di giungere a sentenze di merito;

il fatto di rappresentare la competenza della futura procura europea, il cui regolamento è anch'esso in dirittura di arrivo e dovrebbe essere approvato nella seconda parte dell'anno in corso.

Non si possono però sottacere alcuni aspetti che certamente e si presentano come deteriori non solo rispetto alla proposta del 2012 della Commissione ma, per certi versi, anche rispetto alla Convenzione Pif del 1995.

In particolare, oltre alla questione – peraltro non di poco conto – della base legale già analizzato sopra:

in tema di Iva, oggi, in base alla direttiva, ledono gli interessi finanziari dell'unione solo alcune condotte attinenti a frodi riguardanti tale imposta, in particolare quelle che hanno aspetti transnazionali e comportano una evasione di almeno 10 milioni di euro. La Convenzione Pif invece considerava tutte le frodi Iva rilevanti;

le definizione dei reati di corruzione e della responsabilità degli enti non hanno nulla di innovativo rispetto alle definizioni dei decenni passati; in questo senso, si è forse persa un'occasione per dare una definizione a livello europeo di queste fattispecie più moderna.

In conclusione

Come si vede, la direttiva presenta alcuni aspetti innovativi ma, in particolare se confrontata con la proposta presentata dalla Commissione europea nel 2012, la stessa non sembra avere sfruttato appieno le potenzialità che il nuovo quadro legislativo dell'Unione offriva in materia.

Si è, infatti, certamente persa un'occasione per affermare in via legislativa il ruolo in diritto penale dell'art. 325 T.F.Ue (come aveva previsto la proposta del 2012). È vero che a ciò ha provveduto successivamente la Corte di giustizia nel caso Taricco ma è evidente che il riconoscimento in uno strumento legislativo avrebbe avuto un significato ancora più pregnante.

Si è persa l'opportunità per un vero ed efficace livello di armonizzazione dei diritti penali nazionali anche in tema di sanzioni e di altri istituti che determinano la punibilità dei fatti, come la prescrizione.

In tema di iva, addirittura, deve ritenersi che si sia compiuto un passo indietro nella protezione degli interessi finanziari dell'Unione non solo rispetto alla proposta della Commissione del 2012 ma addirittura rispetto alla Convenzione del 1995. Secondo la nuova direttiva, infatti, attengono alla materia in questione solo le frodi iva aventi determinate caratteristiche di dimensione e gravità. Le altre frodi iva sono escluse dallo scopo della stessa. La Convenzione del 1995, invece, non conteneva alcuna distinzione al riguardo. Non è difficile prevedere che tale disposizione sarà fonte di notevoli problemi nell'applicazione pratica a proposito delle indagini della istituenda procura europea.

Se, quindi, la direttiva presenta indubbiamente una serie di luci, la stessa è densa però anche di molte ombre che fanno riflettere sul fatto che se lo sviluppo del diritto penale europeo è uno specchio della volontà politica di maggiore integrazione all'interno dell'Unione, allora tale risultato non solo è ancora lontano, ma, come si vede anche in altre questioni di maggiore attenzione per l'opinione pubblica, vi sono seri dubbi che sia raggiungibile in un prossimo futuro.

Guida all'approfondimento

S. ALLEGREZZA, Verso una Procura europea per tutelare gli interessi finanziari dell'Unione. Idee di ieri, chances di oggi, prospettive di domani, in Dir pen cont;

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A. BERNARDI, La competenza penale accessoria della Unione Europea: problemi e prospettive, in Dir Pen Cont, 2011;

G. GRASSO, La “competenza penale” dell'Unione Europea nel quadro del Trattato di Lisbona, pubblicazioni del Centro di Diritto Penale Europeo di Catania, ed. Giuffrè, 2011, pag. 683;

L. PICOTTI, Limiti garantistici delle incriminazioni penali e nuove competenze europee alla luce del Trattato di Lisbona, in L'evoluzione del diritto penale nei settori di interesse europeo alla luce del Trattato di Lisbona, pubblicazioni del Centro di Diritto Penale Europeo di Catania, ed. Giuffrè, 2011, pag. 212 e ss.;

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R. SICURELLA, “Prove tecniche” per una metodologia dell'esercizio delle nuove competenze concorrenti dell'Unione Europea in materia penale, pubblicazioni del Centro di Diritto Penale Europeo di Catania, ed. Giuffrè, 2011, pag. 15 e ss.;

R. SICURELLA, Il diritto penale applicabile dalla procura europea: diritto penale sovrannazionale o diritto nazionale armonizzato? Le questioni in gioco, in Dir pen cont, 2013

A. VENEGONI, Prime brevi note sulla proposta di direttiva della Commissione europea per la protezione degli interessi finanziari della unione attraverso la legge penale - COM(2012)363 (c.d. direttiva Pif) in Dir pen cont;

A. VENEGONI, La definizione del reato di frode nella legislazione dell'Unione dalla Convenzione Pif alla proposta di direttiva Pif, in Dir pen cont, ottobre 2016;

A. VENEGONI, Il difficile cammino della proposta di direttiva per la protezione degli interessi finanziari dell'unione europea attraverso la legge penale (c.d. direttiva Pif): il problema della base legale, in Cass. pen., n. 6/2015;

F. VIGANÒ Verso una parte generale europea?, in GRASSO– ILLUMINATI–SICURELLA–ALLEGREZZA (a cura di), Le sfide dell'attuazione di una Procura europea: definizione di regole comuni e loro impatto sugli ordinamenti interni, Milano, 2013.

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