Configurabilità dei maltrattamenti in ambito lavorativo

Simone Bonfante
29 Luglio 2016

Le pratiche persecutorie realizzate ai danni dei lavoratore dipendente possono integrare il delitto di maltrattamenti in famiglia esclusivamente qualora il rapporto tra il datore di lavoro e il dipendente assuma natura para-familiare.
Massima

Le pratiche persecutorie realizzate ai danni dei lavoratore dipendente possono integrare il delitto di maltrattamenti in famiglia esclusivamente qualora il rapporto tra il datore di lavoro e il dipendente assuma natura para-familiare, ovvero sia caratterizzato da relazioni intense ed abituali, da consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell'altra, dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia.

Il caso

Tizio e Caio, titolari di un esercizio commerciale di tabacchi, venivano condannati in primo grado per il reato di maltrattamenti previsto dall'art. 572 c.p. perché, in concorso tra loro, sottoponevano una dipendente a continui atti di scherno, disprezzo e vilipendio sia dal punto di vista professionale che personale, anche in presenza dei clienti, al punto da fare insorgere nella stessa una patologia psichica.

Alla luce della pronuncia della Corte di appello territorialmente competente, che si era limitata a mitigare il trattamento sanzionatorio lasciando tuttavia inalterato il titolo del reato per il quale venivano condannati, proponevano ricorso per Cassazione entrambi gli imputati deducendo, tra gli altri motivi, violazione dello stesso articolo 572 c.p. poiché la fattispecie contestata non risulterebbe configurabile nell'ambito del rapporto lavorativo in esame, nel quale non era sussistente quel rapporto di stretta dipendenza necessario per renderlo equiparabile ad un rapporto familiare.

La sesta Sezione penale, con la sentenza in commento, accoglieva il ricorso proposto da Tizio e Caio, facendo proprie le considerazioni svolte dai ricorrenti nel summenzionato motivo di gravame precisando che, per potere estendere la fattispecie dei maltrattamenti famigliari di cui all'art. 572 c.p. anche al rapporto di lavoro, questo deve essere di natura para-familiare, ovverosia caratterizzato da relazioni intense ed abituali, da consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell'altra, dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia.

Presupposti questi non ritenuti sussistenti nel caso di specie, e cioè nel rapporto di lavoro subordinato instauratosi tra i titolari di una tabaccheria ed un dipendente.

La questione

La questione in esame è la seguente: può ritenersi configurato il delitto di maltrattamenti in famiglia anche quando questo non si consuma tra le mura domestiche, cioè tra conviventi legati da un rapporto di solidarietà economica ed affettiva, bensì sul posto di lavoro da parte di chi riveste una posizione di direzione nei confronti del dipendente?

Le soluzioni giuridiche

La questione è stata affrontata in più occasioni anche nel recente passato da parte della suprema Corte.

Con la sentenza in commento, la VI Sezione penale, si pone in linea con quell'orientamento che, pur fornendo risposta positiva al summenzionato quesito, ha fissato limiti ben precisi alla configurabilità della fattispecie di cui all'art. 572 c.p. al di fuori dell'ambito familiare.

Per meglio comprendere l'approdo a cui giungono i giudici di legittimità, è utile procedere con ordine, muovendo dalla corretta individuazione del bene giuridico tutelato dalla norma.

Sotto il vigore del codice Zanardelli il reato in parola era collocato tra i delitti contro la persona; è con il codice Rocco che trova l'attuale collocazione nei delitti contro la famiglia ed è per tale ragione che la pena edittale per esso prevista è più alta rispetto a quella stabilita per le singole fattispecie contro la persona cui lo stesso potrebbe corrispondere: attraverso un trattamento sanzionatorio più severo il legislatore ha voluto rimarcare il maggiore disvalore sociale delle condotte vessatorie perpetrate nei confronti dei componenti del nucleo famigliare piuttosto che nei confronti di terzi, considerato che è all'interno del primo che i rapporti dovrebbero essere particolarmente improntati alla collaborazione economica, umana ed affettiva.

Per rimanere al passo con i tempi, il Legislatore ha poi rimodulato il concetto di famiglia con legge 172/2012 aggiungendo nel testo dell'art. 572 c.p., dopo l'inciso chiunque … maltratta una persona della famiglia, l'espressione comunque convivente. Ciò al fine di estendere la tutela non solo alla famiglia di fatto ma anche a qualunque relazione sentimentale che, per la consuetudine dei rapporti creati, implichi l'insorgenza di vincoli affettivi e aspettative di assistenza assimilabili a quelli tipici della famiglia o della convivenza abituale (si confronti in proposito: Cass. pen., Sez. VI, 18 marzo 2014, n. 31121).

Infine, ancor più recentemente, la giurisprudenza di legittimità ha ulteriormente esteso l'ambito di applicazione della norma ritenendo meritevoli di tutela anche i rapporti tra familiari sebbene non legati da un grado di parentela diretto (come gli affini, per di più non conviventi) a condizione che la relazione sia di una intensità e caratteristiche tali da generare un rapporto stabile di affidamento e solidarietà reciproche (Cass. pen., Sez. II, 23 aprile 2015, n.20934).

È evidente pertanto che in ambito famigliare la tutela al bene giuridico protetto dall'art. 572 c.p. sia andata rafforzandosi per adeguarsi alla evoluzione che ha caratterizzato l'istituto della famiglia per così dire “tradizionale” negli ultimi anni, ricomprendendovi nuove forme di legami affettivi o di convivenza.

Tutela che, in assenza di una norma ad hoc nel nostro ordinamento, ci si è chiesti se potesse essere apprestata anche ai rapporti di carattere lavorativo.

La giurisprudenza in particolare ha ricondotto nel fuoco della norma in parola quei contesti caratterizzati da un rapporto di autorità da parte dell'agente, per esso intendendosi quello da cui origina un vincolo di soggezione, in astratto sussistente anche nel rapporto di lavoro subordinato.

In tale ottica la suprema Corte ha avuto modo di precisare che è necessario che il soggetto attivo si trovi in una posizione di supremazia, connotata dall'esercizio di un potere direttivo o disciplinare tale da rendere ipotizzabile una condizione di soggezione, anche solo psicologica, del soggetto passivo, che appaia riconducibile ad un rapporto di natura para-familiare, caratterizzato da relazioni intense ed abituali, da consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell'altra e dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione più forte (Cass., pen., Sez. VI, 29 settembre 2015, n. 45077 ed ancora: Cass. pen., Sez. VI, 10 ottobre 2011, n. 43100).

Con la sentenza in commento la Corte è stata chiamata a pronunciarsi su un caso di supremazia psicologica, dato che la dipendente soffriva in particolar modo le intemperanze verbali dei propri titolari, che la mettevano a disagio anche davanti agli avventori dell'esercizio commerciale, sino ad arrivare a patire una vera e propria patologia psichica.

Nella motivazione i giudici esemplificano gli ambiti in cui può ravvisarsi tale tipo di sudditanza: quest'ultima deve ritenersi propria dei rapporti tra il collaboratore domestico e le persone della famiglia presso la quale il primo presta attività lavorativa o in quelli intercorrenti tra il maestro d'arte e l'apprendista.

Sulla scorta di tale principio la Corte esclude pertanto che la fattispecie di cui all'art. 572 c.p. possa ravvisarsi nel caso della dipendente di una tabaccheria.

La sentenza in esame offre anche lo spunto per una ulteriore riflessione sul delitto di maltrattamenti in famiglia.

Un primo aspetto è quello che attiene all'eventuale assorbimento delle lesioni all'interno della fattispecie di cui all'art. 572 c.p.

Proprio alla luce dell'aggravante prevista dal secondo comma della fattispecie in esame vi sono casi in cui il reato di lesioni può ritenersi assorbito in quello (più grave) di maltrattamenti?

Per rispondere alla domanda occorre innanzitutto tenere presente la natura differente dei due reati.

Il primo è istantaneo, mentre il secondo è abituale e presentano una obbiettività giuridica diversa (reato contro la persona le lesioni, contro la famiglia i maltrattamenti) che lascerebbe intendere che non possa esservi assorbimento.

Il discrimine fondamentale deve individuarsi tuttavia dall'elemento psicologico: il dolo dei maltrattamenti è diretto, non già alla previa rappresentazione e volontà della intera serie di atti, ma nella coscienza e volontà, di volta in volta, di persistere nell'abuso dello stato di soggezione della vittima (MANTOVANI, 249, 260). Per qualche verso si può dire che il dolo di maltrattamenti, puntualizzato nel momento in cui il delitto è realizzato sul piano oggettivo, è insieme rappresentazione del presente e memoria del passato, in una complessiva consapevolezza del regime di vita imposto al soggetto passivo (COPPI, voce Maltrattamenti, 252; Id., Maltrattamenti, 277 s.).

Pertanto, si può affermare che il reato di lesioni concorre con quello di maltrattamenti quando sia sorretto dolo autonomo, espressione della volontà di commettere quel singolo e determinato fatto, mentre quando sono conseguenza meramente obbiettiva della condotta vessatoria, se lievi vengono assorbite, se gravi e gravissime ricadono nella circostanza di cui al capoverso dell'art. 572 c.p.

Osservazioni

Le conclusioni a cui perviene la sesta Sezione penale con la sentenza n. 26766/2016, peraltro in linea con l'orientamento giurisprudenziale consolidatosi negli ultimi anni, delimitano notevolmente la portata della tutela che l'art. 572 c.p. riconosce anche in ambito lavorativo.

E ciò per stessa ammissione della pronuncia in commento, laddove nella parte motiva si legge il passaggio poc'anzi riportato al di fuori di queste particolari situazioni di fatto o di diritto, nell'ambito di rapporti di natura professionale o di lavoro non è quindi configurabile il reato in esame. Dove all'aggettivo particolari potrebbe aggiungersi quello residuali riguardando di fatto quelle pochissime fattispecie del lavoro dipendente in cui il legame che si crea tra lavoratore e datore di lavoro è caratterizzato anche dalla fiducia del soggetto più debole.

Con la pronuncia in commento la Cassazione continua dunque a non riconoscere tutela penale al c.d. mobbing, fenomeno tipico di quelle realtà lavorative che presentano un minimo di organizzazione strutturale (che esulano dalla dimensione para-familiare di cui si è parlato poc'anzi) per il quale il datore di lavoro attua una condotta di emarginazione e di svilimento del dipendente mediante atti persecutori, vessazioni, molestie con carattere di abitualità al punto da ingenerare nello stesso un forte senso di frustrazione, se non vere e proprie patologie psichiche.

Tale fenomeno pertanto potrà essere sottoposto al vaglio del giudice penale solo qualora vegano (anche) integrate singole fattispecie di reato quali violenza sessuale, violenza privata, lesioni, minacce oltre che, nei limiti sopra descritti, i maltrattamenti di cui all'art. 572 c.p..