L'“eterna emergenza” che giustifica il regime di 41-bis
28 Agosto 2017
Abstract
Nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 41-bis, comma 2-quater, lett.a) e c), della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), promosso dal magistrato di sorveglianza di Spoleto, la Corte costituzionale ha dichiarato non fondate le questioni sollevate con riferimento alla parte in in cui – secondo il “diritto vivente” – «consente all'Amministrazione Penitenziaria di adottare, tra le misure di alta sicurezza interne ed esterne volte a prevenire contatti con il detenuto in regime differenziato con l'organizzazione criminale di appartenenza o di attuale riferimento, il divieto di ricevere dall'esterno e di spedire all'esterno libri e riviste a stampa». Premessa
Al lettore va immediatamente chiarito che chi scrive è impegnato in prima persona, anche e non solo quale Responsabile dell'Osservatorio carcere dell'Unione camere penali, per l'abolizione o, comunque, per la corretta applicazione dell'art. 41-bis dell'ordinamento penitenziario. Tema che, da sempre, ha costituito una delle tante battaglie che i penalisti italiani hanno affrontato e affrontano per il rispetto dei diritti umani. Oltre al dato tecnico, strettamente giuridico, non potrà, pertanto, mancare nell'esposizione quello di politica giudiziaria, nella convinzione che le due prospettive devono camminare di pari passo. Già dal titolo – Situazioni di emergenza – l'articolo 41-bis ord. pen. circoscrive il suo ambito di applicazione che è fuori dalla “normalità” e all'interno di un “pericolo”. Il principio è ben sviluppato nel testo: al comma 1, si legge «In casi eccezionali di rivolta o di altre gravi situazioni di emergenza [...]», al comma 2 «Quando ricorrano gravi motivi di ordine pubblico e di sicurezza pubblica [...]». Il comma 2, introdotto dal decreto legge 8 giugno 1992, n. 306, convertito in legge 7 agosto 1992, n. 356, fu giustificato dalla strage di Capaci del 23 maggio 1992. Non è possibile ritenere che uno Stato sia perennemente in “emergenza”, altrimenti si determina la sfiducia nelle istituzioni, incapaci di trovare effettivi rimedi che possano ripristinare la normalità. Il 41-bis ord. pen. nasce, infatti, come istituto provvisorio, con una scadenza temporale fissata alla data dell'8 agosto 1995. Ma sarà poi prorogato fino al 31 dicembre 2002, per divenire, con la legge n.279/2002, definitivo. L'esistenza, da 25 anni, dell'art. 41-bis nel nostro ordinamento è la prova dell'inefficacia di una politica repressiva che mira esclusivamente a punire, abbandonando la strada del recupero delle persone all'interno del carcere e quella della sicurezza dei cittadini all'esterno, che deve fondarsi su politiche sociali e del lavoro con concrete riforme, incentivi e risorse. La norma andrebbe riformata e vanno eliminati gli ostacoli al trattamento che essa prevede e tutti quegli elementi che minano, spesso in maniera irreversibile, la salute dei detenuti. È necessario ispirarsi ad un vero corso riformatore della giustizia in senso liberale, evoluto e democratico. Non lo impone solo il senso di umanità ma anche e soprattutto il fatto che lo Stato deve dimostrare che è proprio il rispetto della persona a renderlo più forte della criminalità. Tra coloro che in questi anni hanno chiesto l'abolizione del regime del c.d. carcere duro, citiamo per tutti Papa Francesco, che toccando i temi fondamentali del sistema penale, in modo coraggioso e schietto, senza alcuna possibilità di fraintendimento, con un monito straordinario per le coscienze, la politica e gli operatori del diritto, ha affermato che le condizioni di detenzione carceraria devono rispettare la dignità umana del detenuto e, infine, che le carceri di massima sicurezza per "certe categorie di detenuti" rappresentano "a volte forme di tortura". Le parole del Santo Padre mettono l'uomo, la sua individualità e la sua dignità personale al centro come valore fondante ed imprescindibile di ogni sistema sociale. Principi che, a maggior ragione, devono essere ricordati ed attuati nel sistema penale che può dirsi degno di questo nome solo se opera in ragione ed all'interno in un corpus di regole che rispettino una legalità sostanziale e non solo formale. Principi a volte scomodi e spesso non compresi e impopolari, ma il giustizialismo non porta ad alcuna sicurezza sociale e coltiva solo le paure dell'opinione pubblica. Il fine dichiarato dell'art. 41-bis ord. pen. è impedire che i capi e i gregari delle associazioni criminali possano continuare a svolgere, benché in stato di detenzione, funzioni di comando e direzione in relazione ad attività criminali eseguite all'esterno del carcere, ad opera di altri criminali in libertà. Tale scopo è quello indicato nel documento conclusivo approvato il 18 luglio 2002 dalla Commissione parlamentare d'inchiesta sul fenomeno della criminalità organizzata. Occorre, dunque, verificare se tutte le limitazioni introdotte dall'art. 41-bis ord. pen. rispondono a tale esigenza o ve ne sono alcune che sono meramente afflittive. Su queste è necessario intervenire perché esse rivelano una finalità incoffessata e incoffesabile solo dissimulata da quella ufficiale. «Il carcere duro non può essere un aggravio di pena. Esso dovrebbe essere inteso come una particolare modalità di esecuzione di quella sanzione, gestita dall'Amministrazione Penitenziaria, esclusivamente per le finalità stabilite dalla legge. Ciò significa – come la Cassazione prima, la Corte Costituzionale poi hanno più volte affermato – che il carcere duro non può stravolgere della pena né la qualità, né la quantità, né la finalità, né la natura» (PUGIOTTO, Quattro interrogativi (e alcune considerazioni) sulla compatibilità costituzionale del 41-bis) La circostanza che il decreto di applicazione del 41-bis ord. pen. sia disposto dal Ministro della Giustizia, anche a richiesta del Ministro dell'Interno, ne aumenta il suo presunto valore di difesa sociale agli occhi dell'opinione pubblica. Sarebbe auspicabile una riforma del 41-bis ord. pen. che possa limitare gli ostacoli al trattamento e alla stessa vita detentiva esclusivamente per i fini propri della norma, affidando al solo giudice il potere di applicazione del regime previsto, su richiesta della procura della Repubblica, nel contraddittorio delle parti. Ma la norma è ormai un “totem” della sicurezza e della legalità ed è intoccabile. Addirittura vi sono autorevoli fonti che vorrebbero che il regime di detenzione venisse ulteriormente aggravato. Non a caso, nella delega al Governo per la riforma dell'ordinamento penitenziario in questi giorni approvata definitivamente, ricorrendo alla “fiducia” sia al Senato che alla Camera, viene premesso che la detenzione prevista dal 41-bis è inviolabile. L'ordinanza ha sollevato, in riferimento agli artt. 15, 21, 33, 34 e 117, primo comma, della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell'art. 41-bis, comma 2-quater, lett. a) e c), dell'ordinamento penitenziario, nella parte in cui – secondo il “diritto vivente” – «consente all'Amministrazione Penitenziaria di adottare, tra le misure di alta sicurezza interne ed esterne volte a prevenire contatti con il detenuto in regime differenziato con l'organizzazione criminale di appartenenza o di attuale riferimento, il divieto di ricevere dall'esterno e di spedire all'esterno libri e riviste a stampa». Il magistrato di sorveglianza era stato investito del reclamo con il quale un detenuto, sottoposto a regime differenziato ai sensi dell'art. 41-bis ord. pen., aveva chiesto di poter ricevere dai propri familiari libri e riviste a stampa tramite corrispondenza o pacco postale, ovvero mediante consegna in occasione dei colloqui, previa disapplicazione della circolare del dipartimento dell'amministrazione penitenziaria n. 3701/2014 dell'11 febbraio 2014, che aveva ripristinato le disposizioni preclusive già contenute nella precedente circolare n. 8845/2011 del 16 novembre 2011. Le predette circolari stabiliscono che l'acquisto di quotidiani, riviste e libri, possa essere effettuato dai detenuti esclusivamente nell'ambito dell'istituto penitenziario, anche per quanto riguarda gli abbonamenti, i quali debbono essere sottoscritti dalla direzione o dall'impresa di mantenimento onde evitare che terze persone vengano a conoscenza dell'istituto di assegnazione del detenuto. È vietata, pertanto, la ricezione di libri e riviste provenienti dai familiari, anche tramite pacco consegnato in sede di controllo o spedito per posta, come pure l'invio del predetto materiale, da parte del detenuto, all'esterno. È altresì impedito avere un numero eccessivo di libri nelle camere di detenzione, anche al fine di agevolare le operazioni di perquisizione ordinaria. Va evitato, inoltre, lo scambio di libri e riviste tra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità. L'ordinanza prende atto dell'ormai consolidata giurisprudenza della Cassazione, recepita anche dal tribunale di sorveglianza di Perugia, con la quale si ritiene che l'art. 41-bis ord. pen. assume un carattere di specialità derogante, laddove il comma 2-quater, alla lett. a), consente di adottare misure idonee a prevenire contatti del detenuto con l'organizzazione criminale di appartenenza e, alla lett. c), di limitare gli oggetti (quindi anche libri e riviste) che possono essere ricevuti dall'esterno. Tale “specialità” supera il disposto dell'art. 18-ter dell'ordinamento penitenziario, che disciplina le limitazioni e i controlli della corrispondenza epistolare e telegrafica e della stessa stampa destinata ai detenuti, conferendo tale potere alla sola autorità giudiziaria. Per tale potere conferito all'amministrazione penitenziaria e non all'autorità giudiziaria, per i detenuti sottoposti al regime differenziato previsto dall'art. 41-bis, il magistrato di sorveglianza di Spoleto ritiene che l'art. 41-bis, comma 2-quater lett. a) e c), sia incostituzionale. La norma sarebbe in contrasto, innanzitutto, con l'art. 15 della Costituzione, che prevede che la libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili e che la loro limitazione può avvenire soltanto per atto motivato dell'autorità giudiziaria con le garanzie stabilite dalla legge. Tale principio costituzionale troverebbe applicazione, nel caso di specie, proprio alla luce di quanto disposto dalla circolare dell'amministrazione penitenziaria che non dispone il divieto di possedere libri, ma di riceverli o inviarli esclusivamente perché tale possibilità potrebbe costituire veicolo di comunicazioni illecite. Dovrebbe, pertanto, intervenire uno specifico provvedimento dell'autorità giudiziaria, secondo quanto disciplinato dall'art. 15 della Costituzione. Intervento, tra l'altro, che permetterebbe di adottare la soluzione più idonea al caso specifico, dal divieto di ricezione alla mera sottoposizione al visto di censura, consentendo un congruo contemperamento delle esigenze di sicurezza con l'esercizio dei diritti costituzionalmente tutelati. Vi sarebbe, altresì, la violazione dell'art. 21 della Costituzione, che tutela il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero ed il diritto d'informare ed essere informati. Né si potrebbe ritenere che, poiché la circolare dell'amministrazione penitenziaria consente di acquistare libri e riviste tramite l'organizzazione dell'istituto, tale diritto sarebbe tutelato. Tale affermazione non terrebbe in alcun conto la realtà della vita carceraria, afflitta da carenze di risorse di ogni genere. Ancora sarebbero violati gli artt. 33 e 34 della Costituzione che assicurano il diritto allo studio, che sarebbe incompatibile con i tempi lunghi richiesti per l'acquisto di libri mediante l'amministrazione penitenziaria. Si ritiene violato anche l'art. 117, primo comma, della Costituzione, che prevede il rispetto dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali. L'art. 41-bis, comma 2-quater, lett. a) e c), infatti, si porrebbe in contrasto con gli artt. 3 e 8 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali del 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848. La detenzione non sopprime il diritto al mantenimento di relazioni esterne e della vita affettiva. Considerato che il detenuto in regime differenziato subisce una drastica limitazione dei colloqui personali con i familiari (video registrati, uno solo al mese, della durata di un'ora e con vetro divisorio a tutt'altezza, che impedisce ogni contatto fisico) e delle telefonate (registrate, una al mese della durata di dieci minuti, solo per i detenuti che non effettuano colloqui), la possibilità di ricevere libri e riviste dall'esterno costituirebbe un prezioso elemento affettivo. La sentenza della Corte costituzionale
La Corte evidenzia innanzitutto che, dal tenore complessivo dell'ordinanza di rimessione, il magistrato di sorveglianza ritiene possibile, per esigenze di ordine e sicurezza, limitazioni in materia di acquisizione e di scambio di libri e riviste da parte dei detenuti in regime speciale. Le censure mosse investono le modalità di tali restrizioni. Ad avviso del rimettente, esse non dovrebbero essere disposte dall'amministrazione penitenziaria ma solo dal giudice, con intervento modulato sui singoli casi, secondo quanto stabilito dall'art. 18-ter dell'ordinamento penitenziario. Fatta questa premessa, la Corte dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale. Quanto all'art. 21 della Costituzione, esso trova specifica attuazione nell'art. 18, comma 6, ord. pen. («i detenuti e gli internati sono autorizzati a tenere presso di sé i quotidiani, i periodici e i libri in libera vendita all'esterno e ad avvalersi di altri mezzi d'informazione») e nel correlato disposto dell'art. 18-ter, comma 1, lett. a) dell'ordinamento penitenziario, in forza del quale le limitazioni nella ricezione della stampa possono essere disposte solo dall'autorità giudiziaria. L'amministrazione penitenziaria, pertanto, secondo la Corte, non può operare alcuna censura sul tipo di pubblicazione richiesta dal detenuto, che può scegliere con piena libertà i testi con cui informarsi, mentre la garanzia costituzionale non investe i mezzi mediante i quali gli viene garantito il diritto di entrare in possesso di quanto richiesto. Il divieto imposto dalle circolari di ricevere da parenti ovvero inviare agli stessi libri e/o riviste non è in contrasto con i principi costituzionali. Analogo discorso la Corte fa, in merito al diritto allo studio, che trova specifico riconoscimento in ambito penitenziario, quale componente primaria del percorso rieducativo, in base all'art. 19 dell'ordinamento penitenziario e artt. 41 e ss. del regolamento (d.P.R. 30 giugno 2000, n. 230). L'eventuale lesione dei diritti dei detenuti deriverebbe non dalla norma ma dal non corretto comportamento dell'amministrazione penitenziaria chiamata ad applicarla, esulando perciò dalla prospettiva del sindacato di legittimità costituzionale. Non fondata, ad avviso della Corte, anche la censura di violazione della libertà di corrispondenza (art. 15 Cost.), sia che la trasmissione di libri e riviste venga ritenuta rientrante nella nozione di corrispondenza, sia che essa venga ritenuta come veicolo di comunicazione di un pensiero proprio del mittente (vicinanza, affetto, sostegno) indirizzato in modo specifico ed esclusivo al destinatario. Nel primo caso, è indiscusso, rileva la Corte, che la tutela dell'art. 15 riguarda le comunicazioni che abbiano ad oggetto la trasmissione di idee, sentimenti e notizie da una persona a una o più altre persone determinate. Se i destinatari sono indeterminati – come nel caso dei libri e delle riviste – si ricade in una diversa sfera di tutela costituzionale, quella della libertà di manifestazione del pensiero (art. 21 Cost.). Nel secondo caso, i libri e le riviste, verrebbero considerati “oggetti” e, in quanto tali, evidenzia la Corte, rientrerebbero nella disciplina che la trasmissione di essi ha per esigenze di sicurezza e quindi vigerebbe l'esclusione di un'illimitata libertà del detenuto di riceverli e/o scambiarli. Anche la censura di violazione dell'art. 117, primo comma, della Costituzione, in relazione agli artt. 3 e 8 della Cedu, non è, per la Corte, fondata. Se si versasse nell'ipotesi di trattamenti inumani e degradanti, neppure l'auspicato intervento del gudice – così come ritiene il magistrato di sorveglianza rimettente – varrebbe a rendere convenzionalmente legittime le misure. Inoltre la circostanza che il detenuto debba servirsi dell'istituto penitenziario per l'acquisizione della stampa e non possa trasmetterla all'esterno, non determina livelli di sofferenza e di svilimento della sua persona. Quanto all'art. 8 della Cedu, che riconosce ad ogni persona il diritto al rispetto della sua vita privata e familiare, del suo domicilio e della sua corrispondenza, la Corte rileva che tale diritto non è assoluto, in quanto lo stesso articolo, al paragrafo 2, consente ingerenze della pubblica autorità – non necessariamente quella giudiziaria – nel suo esercizio, quando sono previste dalla legge e perseguono lo scopo della sicurezza nazionale e dell'ordine pubblico, nella proporzionalità del sacrificio del diritto rispetto alla finalità perseguita. Su tale proporzionalità, la Corte costituzionale ricorda come la Corte europea dei diritti dell'uomo abbia ritenuto opportune e proporzionate rispetto allo scopo legittimo di mantenere l'ordine pubblico e la sicurezza, restrizioni legate al regime detentivo speciale molto più incisive, come le limitazioni inerenti ai colloqui personali con i familiari. Il magistrato di sorveglianza di Spoleto, nel rimettere gli atti alla Corte costituzionale ha fatto riferimento al c.d. diritto vivente. Nel caso di specie all'interpretazione, ormai consolidata, dell'art. 41-bis, comma 2-quater, lett. a) e c), ord. pen. e alle circolari dell'amministrazione penitenziaria che ad esso fanno riferimento, nel vietare ai detenuti sottoposti a tale regime differenziato di ricevere dall'esterno e di spedire all'esterno libri e riviste a stampa. Egli, prendendo atto di tale cristallizzata situazione, ha ritenuto che erano stati violati principi costituzionali fondamentali, quali il diritto all'informazione, all'istruzione, alla libertà di pensiero e soprattutto ha evidenziato che i limiti a tali diritti debbano essere posti solo dall'autorità giudiziaria, con provvedimento motivato. Per quanto già riferito in premessa, si condivide il pensiero del magistrato ed anche il suo tentativo di adire la Corte costituzionale ma dobbiamo, purtroppo, giudicare corretta la decisione di dichiarare non fondate le questioni di legittimità costituzionale. Lo facciamo, avendo preso atto che ormai il diritto è “morente”, con una patologia che giorno dopo giorno, di nuova norma in nuova norma, peggiora sempre di più. Il problema, infatti, investe tutto il sistema e non può interessare solo una parte dell'art. 41-bis ord. pen. Quando, in nome di un'eterna emergenza, si consente ad un politico – perché tale è il ministro della giustizia, perché se non lo è per professione, dalla politica è nominato e dipende - la facoltà di sospendere, in tutto o in parte, nei confronti di alcuni detenuti l'applicazione delle regole del trattamento e degli istituti dell'ordinamento penitenziario che fanno riferimento a principi costituzionali, tutto il resto diventa tristemente compatibile. L'aver reso il regime disposto dall'art. 41-bis ord. pen., un pianeta diverso ed estraneo dell'universo carcere, dove le stesse procedure giudiziarie rappresentano sostanziali eccezioni alle regole, con una competenza funzionale esclusiva per tutto il territorio nazionale del tribunale di sorveglianza di Roma, ha creato e blindato un percorso detentivo che, formalmente si propone di evitare contatti tra il detenuto e l'organizzazione di appartenenza, ma, di fatto, è pura repressione finalizzata ad attività investigativa per indurre il recluso a collaborare. Da alcuni anni, sono oltre 700 i detenuti sottoposti al c.d. carcere duro. Numero che certamente non può indicare i vertici delle organizzazioni criminali, ma identifica coloro per i quali la Direzione nazionale antimafia e il Ministro della Giustizia, ritengono possano “offrire” elementi utili per le indagini. In conclusione
La detenzione al 41-bis ord. pen. è un regime sottoposto non alla giurisdizione ma al potere politico. Avverso tale anomala situazione, solo gli avvocati – tra gli addetti ai lavori – da tempo, protestano, nel silenzio della Magistratura associata, preoccupata – senza alcun motivo – solo che, con la separazione delle carriere, la procura della Repubblica possa essere assoggettata all'esecutivo. Intanto, in materia di 41-bis ord. pen, è stata sostanzialmente privata di gran parte di competenze e dello stesso conflitto di giurisprudenza, eliminato con l'istituzione di un unico tribunale di sorveglianza nazionale. Unicità che, come esplicitamente sostenuto da autorevoli ma interessate fonti, garantisce uniformità nelle decisioni. Affermazione che elimina la stessa linfa vitale della giurisdizione che è il confronto tra interpretazioni diverse. Eppure, i risultati raggiunti sono minimi, come si evince dalla stessa relazione annuale della procura nazionale antimafia, presentata alcuni giorni fa. Dopo 25 anni di vigenza dell'art. 41-bis dell'ordinamento penitenziario, le organizzazioni criminali sono ancora forti e radicano sempre di più la loro presenza nel tessuto economico della nazione. Sopprimere il nemico è la strada più semplice da intraprendere ma è quella certamente perdente e senza sbocchi. Impedire che egli legga e s'informi (la sentenza della Corte costituzionale è formalmente corretta ma non tiene conto della realtà degli istituti di pena), che coltivi affetti familiari (l'inutile ed esclusivamente punitiva regola di un solo colloquio al mese), che possa avere una detenzione dignitosa, non solo è contrario al rispetto dei diritti civili, ma renderà il soggetto, i suoi parenti e gli affiliati all'associazione criminale ancora più motivati a violare le leggi dello Stato. In questo desolante panorama, dove anche i libri sono ritenuti pericolosi e, se numerosi (ma quale sarà il limite?) non possono stare nella stanza del detenuto, i pochi magistrati coraggiosi, come quello di Spoleto, lavorano con difficoltà quotidiane ed adottano provvedimenti compatibili con la loro cultura e la loro coscienza. Ma il “diritto vivente” e lo stesso Legislatore navigano a vista, appagati da un “diritto morente”, e la meta che s'intravede non potrà mai essere condivisa. |