Il reato di tortura. Dalla giurisprudenza europea alla legge 110/2017Fonte: L. 14 luglio 2017 n. 110
29 Settembre 2017
Abstract
Dopo un iter legislativo durato più di tre anni, la Camera dei deputati ha approvato in via definitiva il disegno di legge recante introduzione del delitto di tortura nell'ordinamento italiano. La legge 14 luglio 2017, n. 110 pubblicata in Gazz. ufficiale 18 luglio 2017, n. 166 ha così introdotto nel codice penale l'art. 613-bis, Torturae l'art. 613-ter, Istigazione del pubblico ufficiale a commettere tortura. Il quadro sovranazionale
La prima questione da esaminare è la specificità della tortura dal punto di vista dei suoi requisiti tipici che valgono a differenziarla da altre e più comuni forme di aggressione ai beni della personalità umana. Naturalmente il punto di partenza non può che essere dato da principi del diritto positivo e da specifiche disposizioni giuridiche, che, in questo caso, si collocano nell'ambito del diritto internazionale. Anzitutto, il divieto di tortura è previsto dall'art. 3 Convenzione Edu e dall'art. 7 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, aperto alla firma il 19 dicembre 1966 e ratificato dall'Italia con l. 25 ottobre 1977, n. 881. Dal patto relativo ai diritti civili e politici è scaturita prima la Dichiarazione Onu sulla protezione di tutte le persone sottoposte a forme di tortura e altre pene o trattamenti inumani, crudeli o degradanti del 1975, adottata dall'Assemblea generale il 9 dicembre 1975,poi la Convenzione contro la tortura, approvata dall'Assemblea generale dell'Onu il 10 dicembre 1984 e ratificata dall'Italia con l. 3 novembre 1988, n. 498. La predetta Convenzione, oltre ad una definizione di tortura, su cui torneremo più avanti, specifica tre punti molto importanti. Uno, ogni Stato Parte prende provvedimenti legislativi, amministrativi, giudiziari ed altri provvedimenti efficaci per impedire che atti di tortura siano compiuti in un territorio sotto la sua giurisdizione. Due, nessuna circostanza eccezionale, qualunque essa sia, si tratti di stato di guerra o di minaccia di guerra, d'instabilità politica interna o di qualsiasi altro stato eccezionale, può essere invocata in giustificazione della tortura. Tre, l'ordine di un superiore o di un'autorità pubblica non può essere invocato in giustificazione della tortura. Per tali ragioni il divieto di tortura è considerato parte del ius cogens e, dunque, del diritto internazionale generale valevole per tutti gli Stati indipendentemente da una previsione pattizia, come è stato affermato anche dalla Corte Edu, per la quale costituisce il contenuto di una norma imperativa del diritto internazionale generale. Più specificamente, poi, la Convenzione contro la tortura dell'Onu prevede un vero e proprio obbligo di incriminazione: «Ogni Stato Parte provvede affinché qualsiasi atto di tortura costituisca un reato a tenore del suo diritto penale. Lo stesso vale per il tentativo di praticare la tortura o per qualunque complicità o partecipazione all'atto di tortura. In ogni Stato Parte tali reati vanno resi passibili di pene adeguate che ne prendano in considerazione la gravità». Inoltre vengono introdotte anche specifiche disposizioni diritto penale internazionale che pure vincolano gli Stati parte della Convenzione, le quali stabiliscono che la competenza a conoscere dei relativi reati spetti allo Stato sotto la cui giurisdizione sia stato commesso l'illecito, ma anche a quello di cui il presunto autore sia cittadino o di cui la vittima sia cittadina, in quest'ultimo caso quando «giudichi opportuno intervenire». Successivamente è stata adottata la Convenzione europea per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti del 26 novembre 1987, integrata agli artt. 5, 12, 18, 19, 20 e 23 dal Protocollo n. 1 adottato il 4 novembre 1993, entrato in vigore il 1° marzo 2002 (ratificato da tutti gli Stati membri del Consiglio d'Europa; autorizzazione alla ratifica e ordine di esecuzione in Italia dati con legge n. 467 del 15 dicembre 1998) e dal Protocollo n. 2 adottato il 4 novembre 1993, entrato in vigore il 1° marzo 2002 (ratificato da tutti gli Stati membri del Consiglio d'Europa) e ratificata dall'Italia con l. 2 gennaio 1989, n. 7. La Convenzione europea, nata nel quadro del Consiglio d'Europa, ha previsto un sistema di controllo del rispetto dei diritti dell'uomo che va ad affiancarsi a quello già introdotto dalla Convenzione Edu, basato sui ricorsi presentati da singoli individui o da Stati. Si tratta della istituzione di un Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti, che si fonda su di un sistema non giudiziario e di natura preventiva, il cui compito è quello di esaminare il trattamento riservato alle persone private di libertà, allo scopo di rafforzare, ove si riveli necessario, la protezione di tali persone contro la tortura e le pene o trattamenti inumani o degradanti (cfr. Rapporto esplicativo della Convenzione europea per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti, II.13.). Ebbene, pur in presenza di un obbligo di incriminazione di fonte sovranazionale vigente da molto tempo, l'Italia ha ritenuto di dovervisi uniformare solo con l. 14 luglio 2017, n. 110. Il reato di tortura era già presente in Italia solo nel codice penale militare di guerra (art. 185-bis). A ciò si aggiunga un altro importante tassello, rappresentato dallo Statuto della Corte penale internazionale, il quale prevede e definisce la tortura come crimine contro l'umanità (art. 7, let. f)), «se commesso nell'ambito di un esteso o sistematico attacco contro popolazioni civili, e con la consapevolezza dell'attacco» (ratificato con l. 12 luglio 1999, n. 232, cui ha fatto seguito la l. 20 dicembre 2012, n. 237, Norme per l'adeguamento alle disposizioni dello statuto istitutivo della Corte penale internazionale). Definizioni
Una definizione compiuta di tortura la troviamo in realtà, al livello internazionale, solo nella citata Convenzione Onu del 1984 (CAT) e nell'art. 7, cit., dello Statuto della Corte penale internazionale (CPI). L'art. 1 CAT così recita: «il termine ‘tortura' designa qualsiasi atto con il quale sono inflitti a una persona dolore o sofferenze acute, fisiche o psichiche, segnatamente al fine di ottenere da questa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla per un atto che ella o una terza persona ha commesso o è sospettata di aver commesso, di intimidirla od esercitare pressioni su di lei o di intimidire od esercitare pressioni su una terza persona, o per qualunque altro motivo basato su una qualsiasi forma di discriminazione, qualora tale dolore o tali sofferenze siano inflitti da un funzionario pubblico o da qualsiasi altra persona che agisca a titolo ufficiale, o sotto sua istigazione, oppure con il suo consenso espresso o tacito. Tale termine non si estende al dolore o alle sofferenze derivanti unicamente da sanzioni legittime, ad esse inerenti o da esse provocate. 2. Il presente articolo lascia impregiudicato ogni strumento internazionale e ogni legge nazionale che contiene o può contenere disposizioni di portata più ampia». Molto diversa, sul piano tecnico, è la definizione data dallo Statuto CPI: «per ‘tortura' s'intende l'infliggere intenzionalmente gravi dolori o sofferenze, fisiche o mentali, ad una persona di cui si abbia la custodia o il controllo; in tale termine non rientrano i dolori o le sofferenze derivanti esclusivamente da sanzioni legittime, che siano inscindibilmente connessi a tali sanzioni o dalle stesse incidentalmente occasionati». La definizione contenuta nella CAT appare priva di una solida grammatica giuridica: o si punisce l'atto, o si punisce l'effetto. Va detto, d'altronde, che si tratta pur sempre di una definizione che non è contenuta in una norma incriminatrice e che, quindi, dovrebbe avere un valore più di orientamento che di esatta configurazione dei requisiti tipici di un illecito. Appare pertanto assai migliore, sotto il profilo tecnico, la definizione recata dallo Statuto CPI (che ha sì, invece, il valore di norma incriminatrice), la quale fa correttamente leva sull'effetto della condotta (l'inflizione di gravi dolori o sofferenze). A prescindere, però, da aspetti di natura più strettamente tecnica, sul piano sostanziale la definizione CAT delimita il perimetro della nozione di tortura nell'alveo del c.d. esercizio arbitrario ed illegale di una forza legittima, cioè di quei trattamenti particolarmente gravi e produttivi di sofferenze, fisiche o psichiche, ai danni dell'essere umano messi in atto nell'esercizio della forza legittima, ossia ad opera di un funzionario pubblico o di altra persona che agisca a titolo ufficiale. Diversa è invece l'angolazione dell'art. 7, cit., Statuto CPI, il quale fa leva, invece, sulla condizione della vittima (persona di cui si abbia la custodia o il controllo): differenza di non poco momento, poiché la custodia o il controllo non necessariamente hanno un titolo legittimo: si pensi alle sparizioni, alla cattura, da parte di organizzazioni paramilitari o messe in atto da reparti irregolari e in luoghi non ufficiali di detenzione, magari con la regia occulta dello Stato e dei suoi poteri (vedi Argentina anni Settanta, ma anche Egitto attuale e, purtroppo, moltissimi altri Stati, il cui elenco è ormai talmente lungo che sarebbe vano perfino tentare di nominarli tutti). La giurisprudenza della Corte Edu
Come già detto l'art. 3 Convenzione Edu stabilisce che nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti. Leading case della giurisprudenza di Stasburgo è la sentenza Irlanda c. Regno Unito. Essa riguarda le tecniche di privazione sensoriale utilizzate dalla polizia britannica per contrastare il terrorismo irlandese, in particolare l'organizzazione militare dell'IRA. Tali tecniche, come è noto, consistono nel privare il detenuto delle sue capacità sensoriali allo scopo di ottenerne informazioni utili alle indagini, mediante l'incappucciamento, la sottoposizione a rumori costanti, la privazione del sonno e del cibo. La Corte distingue tre tipologie di comportamenti vietati, che sono tra loro in rapporto di progressiva gravità/intensità, ma che si possono riportare ad una matrice comune: la tortura è la più grave di esse, i trattamenti o pene inumani rappresentano quella intermedia, mentre la più tenue è costituita dai trattamenti o dalle pene degradanti. La Corte negherà la qualificazione di tortura a tali pratiche adottate dall'Autorità britannica, pur qualificandole come comportamenti disumani. Nello stesso anno la Corte di Strasburgo adotterà un'altra decisione in materia, con la quale qualificherà la punizione inflitta a un quindicenne per atti di teppismo consistita in tre colpi di verga, come comportamento degradante ma non come tortura (e neanche come comportamento inumano). In sostanza, a tenore di quella giurisprudenza la distinzione viene operata in base all'intensità e alla qualità della sofferenza inflitta: molto grave e crudele nella tortura, di particolare intensità nel trattamento inumano, atta a provocare umiliazione e sofferenza morale nel trattamento degradante. È interessante notare che secondo i giudici di Strasburgo le tecniche di privazione sensoriale applicate ai terroristi (o presunti tali) dell'IRA, producono offese che se anche non sono fisiche, alla fine hanno l'effetto di determinare sofferenze fisiche e mentali alla persona sottoposta, con acuti disturbi psichiatrici durante l'interrogatorio («they caused, if not actual bodily injury, at least intense physical and mental suffering to the persons subjected thereto and also led to acute psychiatric disturbances during interrogation»). Per tale ragione la Corte ritiene che tali tecniche debbano essere inquadrate fra i trattamenti inumani e non nell'ambito della tortura, ma che esse si differenzino anche dai trattamenti degradanti, i quali determinano nella vittima angoscia e umiliazione, con la possibilità di farne venir meno la resistenza fisica o morale («The techniques were also degrading since they were such as to arouse in their victims feelings of fear, anguish and inferiority capable of humiliating and debasing them and possibly breaking their physical or moral resi stance»). Dal punto di vista della Corte, infine, la distinzione che deve essere tracciata tra tortura e trattamenti inumani e degradanti deriva principalmente da una differente intensità delle sofferenze inflitte («In the Court's view, this distinction derives principally from a difference in the intensity of the suffering inflicted»). Si noti anche che nella prima fase della giurisprudenza di Stasburgo, sembra emergere un concetto di tortura ancora legato alla presenza di atti brutali sul corpo del detenuto: «Nel 1978, è prevalsa una visione della tortura come atto brutale e puramente fisico riconducibile alle tecniche settecentesche di inflizione dei supplizi, richiamate da Foucault nel suo testo Sorvegliare e punire […]. Si fa riferimento ad un concetto di "corpo a corpo", in cui gli elementi differenzianti erano le azioni che venivano inflitte dal carceriere sul corpo della vittima, con tecniche tanto brutali, quanto arcaiche. I giudici dissenzienti invece, seppur con argomentazioni diverse, giungono tutti a delineare un passaggio evolutivo nella definizione del concetto di tortura, ovvero che essa può essere anche intesa sotto il profilo psicologico, il quale pur non lasciando tracce visibili sul corpo, può risultare comunque un sistema molto sofisticato di inflizione del dolore» (Alessia GORI, Articolo 3 CEDU. Trattamenti inumani e degradanti, la giurisprudenza della Corte e il suo impatto sul diritto dei detenuti, 2015, in L'altro diritto). Nell'ambito di questo orientamento vengono pertanto riconosciuti come tortura quei comportamenti inumani contrassegnati da particolare gravità ed efferatezza, e con elevatissima afflittività, per lo più produttivi di lesioni alla incolumità individuale e la personalità morale della vittima. In questo senso è stato riconosciuto il carattere di tortura anche allo stupro perpetrato ai danni della detenuta, reputato trattamento disumano qualificato dalla particolare violenza e gravità (cfr. Aydin c. Turchia, 25 settembre 1997). Ciò nel quadro di una necessaria contestualizzazione del comportamento, che deve essere valutato non solo alla stregua del grado di sofferenza inflitta, ma anche della natura e dello scopo dell'atto, soprattutto in considerazione della condizione di vulnerabilità e di minorata difesa del detenuto. Su questa linea v'è da osservare che viene ad emergere come nozione fondamentale quella di trattamento inumano, il quale, richiamando ancora la sentenza Irlanda c. Regno Unito, cit., deve consistere in una forte sofferenza fisica o psicologica, se non una vera e propria violenza sul corpo della persona, capace di suscitare sentimenti di paura e di angoscia. La contestualizzazione del comportamento, fa sì che si debba tener conto di tutte le circostanze del caso, ossia della durata del trattamento, dei suoi effetti fisici e mentali, del sesso, dello stato di salute della vittima, della sua età. Al riguardo appare molto interessante anche un'altra sentenza (Price c. Regno Unito, 10 luglio 2001), in cui viene in considerazione una detenzione non appropriata ai danni di persona disabile, alla quale non era stato concesso di caricare la batteria della propria sedia a rotelle, di usufruire di personale sanitario femminile per espletare le sue funzioni fisiologiche lasciandola sul water per ore e spogliandola di fronte a persone di sesso maschile. La Corte ha qui affermato che tenere in stato di detenzione una persona affetta da gravi disabilità senza disporr di una struttura adeguata e senza darle la assistenza appropriata integra un trattamento disumano e degradante ai sensi dell'art. 3 Convenzione Edu. Sulla stessa linea si colloca anche la sentenza Scoppola c. Italia (10 giugno 2008) in relazione al mantenimento prolungato in stato di detenzione di persona disabile e di età avanzata, in cui si stabilisce che al detenuto devono essere assicurate le condizioni di compatibilità con il rispetto della dignità umana, sì che l'esecuzione della pena non si traduca per il detenuto in una afflizione tale da superare la soglia massima di sofferenza che inevitabilmente afferisce allo stato di detenzione, facendogli mancare il benessere e la salute che gli sarebbero garantiti attraverso la somministrazione delle terapie mediche richieste. Pertanto, «anche la mancanza di cure mediche appropriate, e più generalmente la detenzione di una persona malata in condizioni inadeguate, può in linea di principio costituire un trattamento contrario all'articolo 3 (si veda, in via esemplificativa, İlhan c. Turchia [GC], n. 22277/93, § 87, CEDH 2000-VII, e Gennadi Naumenko citata supra, § 112). Il che equivale a dire che, oltre la salute del detenuto, ciò che deve essere protetto in maniera adeguata è il suo benessere (Mouisel citata supra, § 40)». Tali affermazioni sembrano della massima importanza poiché introducono nuovi principi in materia di art. 3. La Corte si preoccupa anche di precisare che «Sebbene non sia possibile dedurre un obbligo generale di rimettere in libertà un detenuto, o anche di trasferirlo presso un ospedale civile, anche in presenza di una persona affetta da una malattia particolarmente difficile da curare (Mouisel citata supra, § 40), l'articolo 3 della Convenzione impone in ogni caso allo Stato di proteggere l'integrità fisica delle persone private della libertà. Conseguentemente, la Corte non può escludere che dinanzi a condizioni particolarmente gravi, ci si possa trovare in presenza di situazioni in cui la buona amministrazione della giustizia penale esige l'adozione di misure di natura umanitaria (Matencio c. Francia, n. 58749/00, § 76, 15 gennaio 2004, nonché Sakkopoulos c. Grecia, n. 61828/00, § 38, 15 gennaio 2004)» (il corsivo è nostro). L'applicazione dell'art. 3, cit. ha avuto significativi sviluppi anche in materia di espulsioni quando vi sono circostanze serie e comprovate che depongono per un rischio reale che lo straniero subisca in quel Paese trattamenti contrari alla citata disposizione. In Italia, al riguardo, viene in rilievo la sentenza Saadi c. Italia (28 febbraio 2008). La questione trattata è della massima importanza per vari profili. In particolare, con tale pronuncia (che ribadisce, peraltro, principi già espressi in precedenza), la Corte ha affermato che, secondo un indirizzo costante, «gli Stati contraenti, in forza del principio di diritto internazionale ben consolidato e senza pregiudizio per gli impegni da loro assunti con i trattati, ivi compresa la Convenzione, hanno il diritto di controllare l'entrata, il soggiorno e l'allontanamento dei non-nazionali»; «né la Convenzione né i suoi Protocolli sanciscono il diritto all'asilo politico». E prosegue: «Tuttavia, l'espulsione eseguita da uno Stato contraente può sollevare un problema riguardo all'articolo 3 e quindi rendere responsabile lo Stato in causa ai sensi della Convenzione, quando ci sono seri motivi ed è verosimile credere che l'interessato, se lo si espelle verso il Paese di destinazione, correrà un reale rischio di essere sottoposto a trattamenti contrari all'articolo 3. In questo caso dall'articolo 3 scaturisce l'obbligo di non espellere la persona in questione verso tale Paese (Soering c. Regno Unito, sentenza del 7 luglio 1989, serie A no 161, §§ 90-91, Vilvarajah e altri precitata, § 103, Ahmed precitata, § 39, H.L.R. c. Francia, sentenza del 29 aprile 1997, Recueil 1997-III, § 34, Jabari c. Tuchia, no 40035/98, § 38, CEDH 2000-VIII, e Salah Sheekh c. Paesi Bassi, no 1948/04, § 135, 11 gennaio 2007)». La Corte, inoltre, con ciò afferma in sostanza che l'assolutezza del divieto sancito dall'art. 3, cit., fa sì che la sua giurisdizione si estenda ad istituti non regolati dalla Convenzione Edu, quali sono l'estradizione, il diritto di asilo e l'espulsione (cfr., in tal senso, Camera dei deputati, XVII legislatura, a.c. 189 e abb., Schede di lettura, n. 149, 5 maggio 2014, p. 12), poiché in casi come quello esaminato essa è chiamata a valutare la situazione del Paese di destinazione secondo le esigenze dell'art. 3. Non si tratta, si precisa, di valutare la responsabilità dello Stato di destinazione ai sensi del diritto internazionale generale, in virtù della Convenzione o in altro modo. Bensì, proseguono i giudici di Strasburgo, esiste una responsabilità dello Stato contraente ai sensi della Convenzione, in qualità di responsabile dell'atto «che ha, come risultato diretto, quello di esporre qualcuno al rischio di maltrattamenti vietati (Mamatkoulov e Askarov c. Turchia [GC], nos 46827/99 e 46951/99, § 67, CEDH 2005-I)». La vicenda Diaz-Bolzaneto
Come è stato puntualmente affermato, la risposta offerta dall'ordinamento penale italiano ai gravissimi e noti fatti verificatisi in occasione del G8 di Genova nel 2001, dove le forze di polizia si macchiarono di veri e propri fatti di tortura sistematica ai danni di persone inermi, sia stata del tutto ineffettiva e comunque inadeguata, essendosi conclusa la relativa vicenda giudiziaria con generalizzate pronunce di non luogo a procedere per intervenuta prescrizione nei confronti dei responsabili delle forze dell'ordine. Ciò in ragione, si sottolinea, proprio dell'assenza di una norma che incriminasse il reato di tortura sanzionandolo adeguatamente (cfr., tra gli altri, A. COLELLA, La sentenza della cassazione su Bolzaneto chiude il sipario sulle vicende del G8 (in attesa del giudizio della corte di Strasburgo, in Diritto penale contemporaneo, 29 ottobre 2013, nonché bibliografia ivi citata). Incidentalmente, si osservi, però, che appare del tutto fuori luogo, soprattutto in questo caso, ripetere il ritornello che la causa di tale ineffettività sarebbe da ravvisare (anche) nella prescrizione, quando, in realtà, l'unica vera causa è quella del ritardo dello Stato italiano nell'ottemperare agli obblighi assunti in sede internazionale, nella mancanza di una normativa adeguata e negli ostacoli frapposti dalle stesse forze di polizia all'accertamento della verità giudiziale – anche volendo “assolvere” con formula piena, come la Corte ha fatto con particolare zelo, l'operato della magistratura e i tempi eccessivamente lunghi del processo. La Corte ha ritenuto già con una prima pronuncia (Corte Edu, Sez.IV, sent. 7 aprile 2015, Cestaro c. Italia, ric. n. 6884/11), che la violenza subita dal ricorrente ad opera della polizia costituisca una vera e propria tortura ai sensi dell'art. 3 Convenzione Edu. Ciò sotto vari profili. In primo luogo perché sono stati violati i divieti posti dall'art. 3 cit., in quanto agenti pubblici hanno praticato trattamenti rientranti nella tortura. Inoltre lo Stato italiano non ha individuato, perseguito e condannato (sanzionandoli penalmente) i responsabili di tali trattamenti (ma ritenendo, come si è ricordato sopra, che, invece, nessun addebito si deve muovere alla magistratura, né sul versante degli organi inquirenti, né su quello giudicante: conclusione, questa, che, a dire il vero, appare un po' curiosa, viste le premesse). Vi è stata, invece, violazione degli obblighi procedurali, per la mancata cooperazione della polizia con gli organi inquirenti, per il fatto che il Governo italiano non ha fornito alcuna prova circa la tempestiva sospensione dal servizio dei responsabili delle violenze e per la mancata punizione dei responsabili dovuta all'inadeguatezza del quadro giuridico, la quale avrebbe fatto sì che i colpevoli potessero beneficiare della prescrizione dei reati. Di guisa che la stessa sentenza afferma che l'Italia dovrebbe adottare misure generali volte a porre riparo a tali violazione e deficienze, rappresentate dall'introduzione di strumenti giuridici idonei a sanzionare comportamenti qualificabili come tortura, da un lato e, dall'altro lato, ad impedire che i relativi responsabili possano beneficiare di cause estintive del reato, in particolare della prescrizione con il decorso del tempo. Più di recente un'altra sentenza è intervenuta sul medesimo caso (Corte Edu, sent. 22 giugno 2017, Bartesaghi e altri c. Italia), la quale, basandosi sugli accertamenti compiuti dagli organi giudiziari nazionali che hanno accertato i fatti in maniera “dettagliata e approfondita” (par. 114), perviene alla stessa conclusione cui era già pervenuta la sentenza della Corte già citata (Cestaro), non essendovi motivi per discostarsene e ritenendo, pertanto, che le condotte poste in essere in quell'occasione siano da qualificare come tortura ai sensi dell'art. 3 cit., a motivo del fatto che essi hanno provocato sofferenze fisiche e psichiche acute (“aiguës”), ravvisando il carattere particolarmente grave e crudele degli stessi (par. 119). Anche in tale ultima decisione viene stabilito che la violazione dell'Italia ha carattere sia sostanziale che procedurale, sottolineando, relativamente a quest'ultimo profilo, che vanno richiamate le conclusioni già raggiunte con la sentenza Cestaro, compresa quella di ritenere insufficiente l'ordinamento giuridico italiano concernente la repressione della tortura (par. 121). Si aggiunga che la Commissione per i Diritti Umani costituita in seno al Consiglio d'Europa, con lettera del 16 giugno 2017 indirizzata ai Presidenti delle Camere, ai Presidenti delle Commissioni Giustizia delle stesse e al Presidente della Commissione Straordinaria per la Protezione e Promozione dei Diritti Umani del Senato, era stata espressa preoccupazione per il disegno di legge licenziato al Senato, che poi sarebbe divenuto legge (in commento), segnalandone numerosi aspetti critici (cfr. F. CANCELLARO, Tortura: nuova condanna dell'Italia a Strasburgo, mentre prosegue l'iter parlamentare per l'introduzione del reato, in Diritto penale contemporaneo, 29 giugno 2017). Estremamente importante è a questo punto osservare che l'introduzione delle nuove norme ha recato una novità estremamente significativa nel quadro dell'ordinamento italiano. Non si tratta, infatti, soltanto della previsione di nuove fattispecie di reato ma del recepimento dell'intero corpus giuridico elaborato in ambito sovranazionale. Se prima dell'introduzione delle norme in commento la rilevanza delle disposizioni di rango sovranazionale (art. 3 Convenzione Edu, CAT, e altre fonti sopra richiamate) pur potendosene in generale invocare la loro applicazione in qualità di norme interposte direttamente nell'ordinamento interno, non ne sarebbe stata comunque possibile la loro applicazione in sede penale proprio in quanto mancava una fattispecie incriminatrice della tortura (di diritto nazionale). Almeno in chiave incriminatrice quelle norme non potevano trovare alcuna applicazione, in forza del vincolo costituzionale stabilito dall'art. 25, cpv., in tema di riserva di legge (dello Stato). L'introduzione del reato di tortura, invece, e la sua formulazione in chiave (almeno in parte) corrispondente alla definizione di tortura fornita dalla CAT, nonché richiamando la nozione di trattamento inumano e degradante utilizzata dall'art. 3 Convenzione Edu, fa sì che, da un lato, la giurisprudenza della Corte Edu in materia sopra esaminata divenga ius cogens applicabile direttamente in sede penale dal giudice nazionale e, dall'altro lato, che la nozione di tortura, secondo l'ordinamento interno, risulti più ampia di quella fornita dall'art. 3, cit., ricomprendendovi anche i trattamenti inumani e degradanti, che, invece, erano stati dalla Corte di Strasburgo differenziati dal concetto di tortura in senso stretto, se non altro perché indicativi di una minore intensita/gravità. Le norme in commento, pertanto, lungi dall'essere superflue introducono un intero corpo giuridico fino ad ora estraneo all'ordinamento penale in senso stretto e rendono applicabili le relative fattispecie criminose anche ai casi esaminati dalla Corte Edu in cui è stata dichiarata la responsabilità dell'Italia per violazione dell'art. 3, cit. In altri termini, se prima dell'introduzione di queste disposizioni la violazione dell'art. 3, cit., poteva rilevare in quanto tale esclusivamente ai fini della responsabilità dello Stato dinanzi alla Corte di Stasburgo, oggi la predetta violazione, ancorché non integrasse la violazione di altra norma incriminatrice già vigente, rileva come fatto costituente reato ai sensi dell'ordinamento interno e delle norme sovranazionali (art. 3, cit., CAT), dovendosi qui ricomprendere nella nozione di norme sovranazionali, oltre alle disposizioni convenzionali anche la giurisprudenza della Corte EDU e dovendosi recepire la nozione di tortura in termini che abbracciano non solo il suo significato stretto, ma anche quello più ampio di trattamento inumano e degradante. Ciò significa che i trattamenti inumani e degradanti vagliati dai giudici di Strasburgo sotto il profilo della responsabilità dello Stato – come, ad esempio, il mantenimento in stato di detenzione carceraria di un soggetto che per ragioni di salute risulti incompatibile con il regime carcerario: cfr. sentenza Scoppola, cit. – vengono oggi in rilievo sotto un'altra angolazione, ossia in chiave di responsabilità individuale in capo a quei soggetti che abbiano reso possibile, pur potendo e dovendo evitarlo, o che abbiano con i loro atti determinato, un trattamento inumano e degradante ai danni di una persona privata della libertà personale. La struttura della fattispecie e il significato di trattamento inumano e degradante
L'art. 613-bis c.p., introduce un reato a forma vincolata (violenze o minacce gravi, crudeltà) con evento naturalistico (acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico), a condotta plurima o abituale (se il fatto è commesso mediante più condotte ovvero se comporta un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona), apparentemente comune, potendo essere commesso da chiunque. Non qualsiasi minaccia o violenza, dunque, può integrarlo, ma soltanto quelle connotate da gravità: il che appare ragionevole, visti anche i livelli sanzionatori. Sul significato di tali concetti, ovviamente, non possiamo soffermarci in questa sede; la letteratura, del resto, è ricca di elaborazioni al riguardo. Meno arato dalla giurisprudenza interna appare il terreno con riferimento al concetto di acuta sofferenza fisica o di verificabile trauma psichico. Anche in questo caso il richiamo è evidentemente fatto alla giurisprudenza della Corte Edu, che ha elaborato questi concetti. Ma il punto di maggior rilievo è dato dall'ambito di estensione della fattispecie in parola, che sembra alquanto incerto proprio con riferimento alla nozione di trattamento inumano e degradante per la dignità della persona. Bene ha fatto il Legislatore ad introdurre un requisito modale della condotta, richiedendo che debba trattarsi di violenze o minacce gravi o di crudeltà, ma le incertezze maggiori si riferiscono alla seconda parte dell'enunciato linguistico della disposizione incriminatrice, laddove si specifica che il fatto è commesso mediante più condotte ovvero comporta un trattamento inumano e degradante. Innanzitutto, non deve trarre in inganno la congiunzione ovvero, che, ad un lettore poco accorto potrebbe far pensare che il reato possa atteggiarsi come non abituale se comporta un trattamento inumano e degradante: in realtà si tratta pur sempre e necessariamente di reato abituale anche in questa seconda possibile configurazione, essendo insito nel concetto di trattamento l'esplicarsi in più condotte e non in un unico comportamento. Superata questa apparente difficoltà, però, v'è da osservare che rimangono molti dubbi interpretativi. Senza pretesa di enuclearli tutti in questa sede, cerchiamo di mettere a fuoco la problematica generale.
Accertato il carattere abituale di questo reato, ci si deve chiedere se esso sia un reato abituale proprio o improprio. Il riferimento alla violenza o alla minaccia farebbe propendere per la prima soluzione, costituendo di per sé fatti di reato tanto la minaccia (art. 612 c.p.), quanto la violenza sulla persona, sia nel caso in cui questa proietti la sua portata lesiva sulla libertà morale della vittima, sia laddove la lesione riguardi l'incolumità individuale (art. 581 c.p.). Tuttavia la formulazione legislativa non si esaurisce in tali modalità della condotta ma annovera al suo interno anche l'agire con crudeltà, che ben potrebbe non integrare di per sé alcuna fattispecie di reato. Appare pertanto necessario affermare che si tratta di reato abituale improprio, potendosi esplicare anche per mezzo di una pluralità di condotte che di per sé non costituiscono reato. Questa, del resto, è una conclusione obbligata che discende dal corpus normativo sovranazionale e giurisprudenziale elaborato dalla Corte Edu, sul quale ci siamo soffermati precedentemente. Ed invero, poiché la norma si richiama ai trattamenti inumani e degradanti (come peraltro è doveroso che sia), sarebbe indebitamente limitativo circoscriverne l'ambito applicativo ai soli fatti già previsti da una fattispecie di reato, che andrebbero sostanzialmente ad identificarsi nella violenza privata o nelle percosse/lesioni, quando, invece, la giurisprudenza di Strasburgo ha enormemente ampliato lo spettro delle possibili forme di tortura e di trattamenti inumani e degradanti, soprattutto nel quadro dei comportamenti posti in essere da agenti pubblici (forze di polizia, magistratura, etc.). Del resto, anche dal punto di vista del significato fatto proprio dalle parole del Legislatore, non v'è dubbio che un trattamento crudele nei confronti di persona privata della libertà personale possa realizzarsi anche senza ricorrere alla violenza fisica o privata in senso stretto. Anzi, l'aver circoscritto alla violenza o minaccia (grave) e alla crudeltà le modalità tipiche della condotta, tende ad immunizzare non poco quei comportamenti che pur integrando trattamenti inumani o degradanti non si traducono in violenze o minacce e nemmeno in azioni crudeli, secondo l'interpretazione fornitane dalla Corte di Starsburgo, in quanto attuati mediante atti officiosi o nell'espletamento di procedure giudiziarie o amministrative. Rimane allora da chiedersi – ma la domanda apre uno spaccato così ampio che può essere qui soltanto accennato – innanzitutto quali, tra le condotte qualificate in violazione dell'art. 3, Convenzione Edu, nell'alveo dell'ampia casistica elaborata dalla giurisprudenza della Corte, possano rientrare nella definizione ora contenuta nell'art. 613-bis c.p. (Tortura). Poi – e conseguentemente – se la nuova norma incriminatrice contempli anche i trattamenti degradanti ovvero soltanto quelli che assurgono al rango di trattamenti inumani. Si è visto già, infatti, a questo proposito, che la Corte Edu nel corso del tempo ha elaborato una distinzione di grado fra tortura, trattamento inumano, trattamento degradante, che va dal più grave, riservato alla prima, fino al meno grave, dell'ultimo, in un campo estremameente ampio che si estende dalla condizione dei detenuti, fino all'espulsione e all'estradizione dello straniero. Affermando, infatti, l'assolutezza del divieto di tortura e di trattamenti inumani e degradanti, ha creato una tecnica di protezione di diritti della personalità in relazione al divieto di tortura, c.d. par ricochet, in base alla quale può essere valutata la conformità alla Convenzione anche di istituti o di pratiche che non rientrano nel campo di applicazione della Convenzione Edu (cfr., per un'ampia panoramica, A. ESPOSITO, Le pene vietate nella giurisprudenza della Corte europea, in Rassegna penitenziaria e criminologica, 3, 2012). E così, anche se le condizioni della detenzione, l'espulsione e il diritto di asilo, etc., non rientrano nel campo di applicazione e non violano alcun diritto previsto dalla Convenzione, esse possono causare la violazione di diritti convenzionali e segnatamente del diritto a non essere sottoposto a tortura o a trattamenti inumani o degradanti, di cui all'art. 3, cit. Al riguardo si possono richiamare di nuovo le sentenze Irlanda c. Regno Unito, del 18 gennaio 1978 e Tyrer c. Regno Unito del 25 aprile 1978, a tenore delle quali la tortura è un trattamento disumano o degradante che causa sofferenze più intense; perciò ogni atto di tortura è al contempo anche un trattamento disumano e degradante: «Una volta stabilito che un determinato trattamento supera la soglia minima di sofferenza, il grado di intensità costituirà il criterio per distinguere un trattamento inumano o degradante da un atto di tortura"; "nella giurisprudenza della Corte, la tortura non risulta essere una fattispecie autonoma, viene definita in relazione alle altre due categorie di reato. In particolare, la tortura è un trattamento disumano o degradante che causa sofferenze più intense», (M. FORNARI, L'art. 3 della Convenzione europea sui diritti umani, in AA.VV., La tutela internazionale dei diritti umani, a cura di L. Pineschi, Giuffrè, Milano, 2006, p. 353). E, con riferimento ai trattamenti degradanti si può conseguentemente affermare, nella linea elaborata dalla Corte, che essi consistono nell'infondere nella vittima un sentimento di inferiorità che possa distruggere in qualsiasi modo la resistenza fisica e morale dell'individuo, violando così l'art. 3 della Convenzione (cfr. F. VITAGLIANO, Il reato di tortura e l'ordinamento italiano, in L'altro diritto, 2012, il quale richiama, sul punto, anche la sentenza Labita c. Italia, ric. 26772/95, 6 aprile 2000, laddove per la qualificazione del trattamento come disumano si tengono in maggiore considerazione le sofferenze fisiche, mentre per il trattamento degradante vengono in rilievo le sofferenze morali, quali soprattutto umiliazione e angoscia). In sintesi (e molto a grandi linee) il compito principale e maggiormente problematico è ritagliare l'ambito applicativo della fattispecie in commento nel quadro estremamente variegato della giurisprudenza della Corte Edu in materia di art. 3, tenendo conto, da un lato, della definizione modale della condotta individuata dall'art. 613-bis, cit., nella violenza, minaccia o crudeltà; dall'altro, del richiamo ineludibile alla nozione di tortura e di trattamento inumano o degradante fornita dalla Corte. Quanto alla gravità della condotta, pure richiesta dal Legislatore quale requisito modale, v'è da osservare che essa appare consentanea al panorama giurisprudenziale, che, come si è visto, stabilisce quale soglia minima di rilevanza perché si abbia violazione dell'art. 3, proprio quello della gravità delle condotte. Meno in linea con il predetto panorama, sembra invece l'aggancio della tipicità alle sole condotte di violenza, minaccia, crudeltà. Come si è accennato la forma vincolata di questo nuovo reato appare concepita proprio per evitare che possano incorrervi le pubbliche autorità: è difficile, infatti, immaginare che la condotta di un magistrato o di un dirigente dell'amministrazione penitenziaria o sanitaria, possa consistere in violenze o minacce o crudeltà. Ove si fosse voluto estendere realmente l'incriminazione oltre i meri comportamenti anche agli atti e alle procedure da cui possono scaturire (ed effettivamente scaturiscono) trattamenti in violazione dell'art. 3, sarebbe stato preferibile aggiungere, fra le modalità della condotta, anche, o abusando dei suoi poteri o violando i suoi doveri. Infine, altro aspetto interpretativo di non poco momento, sta nel fatto che, come è stato correttamente rilevato, «la vitalità della Carta convenzionale garantisce l'attualità del giudizio della Corte e sperabilmente una maggiore aderenza delle tutele alle necessità del caso concreto, in particolare, e a quelle delle comunità del Consiglio d'Europa, in generale”, “partendo dal presupposto che la convenzione sia uno strumento vivo» (A. GORI, Articolo 3 CEDU Trattamenti inumani e degradanti, la giurisprudenza della Corte e il suo impatto sul diritto dei detenuti, in L'altro diritto, 2015, par. 2.3.3.). Ciò significa, in altri termini, che la giurisprudenza e l'ambito definitorio della tortura e dei trattamenti vietati sono in continua evoluzione e trasformazione. Così che la relativa fattispecie criminosa presenta corrispondentemente un contenuto mutevole, inevitabilmente forgiato da un corpus giuridico estraneo ad essa ma al contempo ad essa immanente, in virtù dell'obbligo di interpretazione conforme che grava sul giudice nazionale. L'art. 613-bis, cit., prevede che se dai fatti di cui al primo comma deriva la morte quale conseguenza non voluta, la pena è della reclusione di anni trenta. Occorre evidenziare che laddove la morte sia conseguenza di atti di percosse o di lesioni, la fattispecie di cui all'art. 584 c.p. (Omicidio preterintenzionale) rimane assorbita nel delitto di tortura. Ove, invece, vengano realizzati solo atti diretti a ledere o a percuotere non può ritenersi integrato il delitto di tortura e dovrebbe ipotizzarsi la meno grave fattispecie di omicidio preterintenzionale. Tuttavia questa conclusione potrebbe non essere accolta, ove si ritenesse configurabile la fattispecie di cui all'art. 613-bis, cit., in chiave di tentativo, per cui in caso di atti diretti a ledere o a percuotere reiterati nel tempo dai quali derivi la morte della vittima, troverebbe applicazione l'art. 56 c.p. e, quindi, il tentativo di tortura (si pensi alla simulazione di tortura ai danni di un prigioniero, reiterata più volte, il quale muoia per lo spavento o perché, nel tentativo di schivare dei colpi, cada battendo violentemente la testa). In conclusione
Dal quadro sin qui delineato è ictu oculi evidente la significatività della novella normativa; tuttavia stante il complesso panorama in cui esso si inserisce, numerosi sono gli aspetti che necessitano di approfondimenti, soprattutto in relazione alla mutevolezza della giurisprudenza di Strasburgo sull'art. 3, cit., all'ampiezza dei concetti richiamati e al panorama della tutela dei diritti umani. Certo è che non si tratta di intervento meramente riempitivo. |