Il procedimento di sorveglianza de plano

Fabio Fiorentin
30 Luglio 2015

L'art. 1, comma 1, lett. b) e c), del d.l. 146/2013, ha introdotto importanti novità in tema di procedimenti di sorveglianza. È stato, infatti, modificato l'art. 678, c.p.p., con un restyling della disposizione, che assume una più articolata connotazione.
Abstract

L'art. 1, comma 1, lett. b) e c), del d.l. 146/2013, ha introdotto importanti novità in tema di procedimenti di sorveglianza. È stato, infatti, modificato l'art. 678, c.p.p., con un restyling della disposizione, che assume una più articolata connotazione: nel comma 1 è ora contenuta l'elencazione delle materie per le quali si procede con la procedura camerale partecipata di cui all'art. 666 c.p.p. (poiché involgenti più direttamente profili afferenti a diritti fondamentali, quali la libertà personale); il comma 1-bis raccoglie, invece, il catalogo delle materie riservate alla cognizione del giudice di sorveglianza, per le quali si procede con la procedura camerale semplificata di cui all'art. 667, comma 4, c.p.p.

Il "doppio binario" delle procedure camerali

L'introduzione, accanto al procedimento camerale partecipato, di una procedura semplificata risponde alla necessità di migliorare i tempi di definizione di una massa consistente di procedimenti, ciò che non sarebbe stato possibile con l'attuale generalizzata applicazione delle forme procedurali che prevedono la celebrazione dell'udienza camerale.

La “mini-riforma” delle procedure di sorveglianza si è sviluppata dal recepimento di alcune “buone prassi” adottate – in materie connotate da elementi di semplicità di definizione e dalla natura degli interessi coinvolti – da alcuni uffici sulla base di appositi protocolli di intesa, che hanno dato buona prova consentendo un significativo risparmio di energie e tempi processuali e dei costi relativi alle traduzioni dei detenuti.

Il d.l. 146/2013, muovendosi in tale quadro già delineato dalle sopra accennate prassi operative, ha rimodellato il catalogo delle materie per le quali rimane confermata la trattazione con le ordinarie forme dell'udienza camerale partecipata (art. 666, c.p.p.), indicate nel comma 1 dell'art. 678, c.p.p. Permangono, pertanto, nell'area del procedimento di sorveglianza partecipato le materie seguenti:

  • materie di competenza del tribunale di sorveglianza (salve le eccezioni indicate nel comma 1-bis, art. 678, c.p.p.);
  • ricoveri previsti dall'articolo 148, c.p.;
  • misure di sicurezza;
  • dichiarazione di abitualità o professionalità nel reato o di tendenza a delinquere.

Le più incisive novità si concentrano nel neointrodotto comma 1-bis dell'art. 678, c.p.p., che prevede l'adozione del rito de plano (art. 667, c.p.p.), in relazione alle seguenti materie (art. 1, comma 1, lett. c), d.l. 146/2013):

  • rateizzazione delle pene pecuniarie;
  • conversione delle pene pecuniarie;
  • remissione del debito;
  • esecuzione della semidetenzione e della libertà controllata;
  • riabilitazione;
  • valutazione sull'esito finale dell'affidamento in prova al servizio sociale e dell'affidamento “terapeutico” di cui all'art. 94, d.P.R. 309/1990).

Il nuovo assetto privilegia l'adozione del rito maggiormente garantito della procedura camerale “partecipata” in relazione alle materie più direttamente afferenti ai profili di libertà personale del condannato; per lasciare al rito de plano il compito di definire quei procedimenti meno incisivi sotto l'aspetto della limitazione dei diritti fondamentali e della libertà personale in particolare.ù

Le nuove procedure nelle materie della sorveglianza

Materie definite con procedimento camerale partecipato (art. 666, c.p.p.)

Materie definite con rito de plano (art. 667, c.p.p.)

Materie di competenza del Tribunale di sorveglianza (ad esclusione di quelle definite con rito de plano)

Materie di competenza del tribunale di sorveglianza:

  • riabilitazione;
  • valutazione sull'esito dell'affidamento in prova al servizio sociale e affidamento “terapeutico”.

Materie di competenza del Magistrato di sorveglianza:

  • ricoveri previsti dall'articolo 148, c.p.;
  • misure di sicurezza;
  • dichiarazione di abitualità o professionalità nel reato o di tendenza a delinquere;
  • reclami in materia disciplinare nei casi più gravi (art. 69, ord. penit.);
  • reclami in materia di diritti fondamentali (art. 35-bis, l. n. 354/75);
  • reclamo risarcitorio per violazione dell'art. 3 CEDU (art. 35-ter, l. n. 354/75);

Materie di competenza del magistrato di sorveglianza:

  • rateizzazione delle pene pecuniarie;
  • conversione delle pene pecuniarie;
  • remissione del debito;
  • esecuzione della semidetenzione e della libertà controllata;
  • liberazione anticipata;
  • reclami “generici” (art.35, ord. penit.)
  • ammissione provvisoria alle misure alternative nel caso di condannati detenuti;
  • differimento provvisorio dell'esecuzione della pena (art. 684 c.p.p.);
  • concessione dell'esecuzione della pena presso il domicilio (art. 1 l. 199/2010).
Disciplina

Il procedimento de plano affianca quello camerale (art. 666, c.p.p.), quale strumento assai più rapido ed essenziale nelle sue forme ma avente carattere eccezionale in quanto derogatorio dalla disciplina consacrata dall'art. 666, c.p.p., caratterizzata da un maggiore tasso di giurisdizionalità. Esso si distingue, in altri termini, quale procedura ammissibile soltanto se vi sia espressa indicazione normativa, e dunque nei casi tassativamente previsti dal codice di rito, attesa l'incompletezza del contraddittorio e la parziale limitazione dei diritti difensivi che caratterizza tale procedimento. Essendo, di conseguenza, inammissibile l'estensione analogica del procedimento de plano a fattispecie non espressamente contemplate dalla legge, in caso di lacuna, pertanto, l'unico procedimento ammesso è quello disciplinato dall'art. 666 c.p.p. Il sacrificio parziale dei diritti costituzionali in tema di diritto di difesa viene giustificato dalla semplicità delle questioni trattate e delle esigenze di rapidità, anche nell'interesse dello stesso condannato.

Il modello procedurale si caratterizza, nella sua essenzialità per:

  1. la natura giurisdizionale: la procedura è governata dal giudice di sorveglianza, identificato mediante le regole generali sulla competenza, che agisce a mezzo di strumenti intrinsecamente giurisdizionali (l'ordinanza) comunicati o notificati alle parti nelle forme di rito;
  2. la previsione di una seconda fase di gravame garantita dal contraddittorio (che prende la forma dell'opposizione).

La disciplina del procedimento si rinviene nell'art. 667, comma 4, c.p.p., che funge da paradigma normativo ma occorre leggere tale scarna regolamentazione alla luce del sistema complessivo dell'esecuzione. A sua volta, la procedura de plano deve essere tenuta ben distinta dalle ipotesi di decisione sull'inammissibilità dell'istanza, che si trova regolata all'art. 666, comma 2, c.p.p.

L'atto di iniziativa è sostanzialmente privo di formalità, essendo sufficiente che al giudice pervenga la richiesta perché egli si trovi legittimato ad esaminare l'istanza ed a decidere sulla stessa. Il soggetto che attiva il procedimento può essere, dunque:

  • il P.M. (nei casi previsti dalla legge);
  • l'interessato;
  • un terzo non direttamente interessato (in questi casi, l'istanza costituirà un dato sul quale il magistrato potrà eventualmente disporre l'iscrizione di ufficio del procedimento).

L'istanza o la richiesta non deve essere necessariamente motivata, né corredata da documentazione, potendo anche consistere in una dichiarazione resa a verbale, nel corso dell'udienza, ovvero in un atto ad hoc depositato o fatto pervenire alla cancelleria del giudice dell'esecuzione. Il magistrato, che dispone di ampia facoltà di acquisire gli elementi istruttori ritenuti necessari alla definizione della procedura, decide senza acquisire il parere delle parti (tranne nei casi previsti dalla legge: es. in materia di liberazione anticipata). Non è generalmente stabilito alcun termine per il deposito dell'atto decisorio, salva l'applicabilità della disposizione generale di cui all'art. 128, c.p.p., che stabilisce un termine (peraltro ordinatorio) di cinque giorni per il deposito del provvedimento. Il provvedimento con il quale il giudice definisce il procedimento di fronte a sé è comunicato o notificato a chi ha proposto l'istanza. Non è previsto termine entro cui tali adempimenti comunicativi devono essere adempiuti: la dottrina richiama, al riguardo, l'art. 127, comma 7, e l'art. 666, comma 6, c.p.p., disposizioni disciplinanti situazioni omogenee. Non è prevista comunicazione o notificazione del provvedimento de plano all'eventuale difensore, anche se a quest'ultimo è riconosciuto il diritto di proporre opposizione avverso di esso; ne consegue che, qualora detto provvedimento sia stato notificato anche al difensore, il termine per l'opposizione di quest'ultimo non decorre dal momento di tale notificazione ma da quello in cui essa è stata eseguita nei confronti dell'interessato (Cass. pen., Sez. II, 17 novembre 2000).

L'opposizione al provvedimento assunto de plano

L'opposizione introduce il grado “garantito” del procedimento.

Questa particolare forma di impugnazione si propone innanzi allo stesso giudice che ha emesso il provvedimento. Al proposito si pone il dubbio, sul piano applicativo, se l'opposizione vada decisa dallo stesso giudice persona fisica o dal medesimo ufficio. La dizione letterale (art. 667 c.p.p., u.c.) sostiene entrambe le soluzioni: da una parte, infatti, trattandosi di istituto di natura impugnatoria, potrebbe preferirsi la seconda ipotesi, anche per evitare personalizzazione del giudizio; dall'altra, l'opposizione potrebbe essere decisa dallo stesso magistrato (atteso che, in prima battuta, quest'ultimo decide “allo stato degli atti”, con cognizione sommaria, laddove in sede di impugnazione può provvedere con cognitio plena). In ogni caso, poi, valgono gli istituti della astensione e della ricusazione, benché, con riferimento al procedimento de plano, un indirizzo ritenga non incompatibile a pronunciarsi sull'opposizione il giudice che abbia deciso, pur a seguito di udienza camerale, sull'istanza (Cass. pen., Sez. VI, 15 luglio 2009, n. 32419; Cass. pen., Sez. I, 21 febbraio 2008, n. 14928). L'opposizione si concreta in atto scritto depositato presso la cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento impugnato, ovvero formalizzata in un verbale redatto presso detta cancelleria o ancora, se l'interessato è detenuto, presso l'ufficio matricola del carcere. Si tratta di atto soggetto al termine – a pena di decadenza - di quindici giorni dall'avvenuta notifica del provvedimento.

Una volta trascorso detto termine, il provvedimento giudiziale può considerarsi definitivo: non è più possibile un'ulteriore opposizione e ben difficilmente può avviarsi incidente di esecuzione nelle forme dell'art. 666, c.p.p., attesa la probabile declaratoria di inammissibilità di cui al secondo comma della citata norma, essendo riproposizione della richiesta già decisa.

Il giudizio che segue all'opposizione si modella secondo lo schema di cui all'art. 666, c.p.p.: esso, cioè, deve svolgersi nel rispetto del contraddittorio, diversamente dando vita al vizio di nullità assoluta (Cass. pen., Sez. I, 25 novembre 1991).

In conclusione

L'adozione del rito de plano con la possibilità di opposizione dell'interessato costituisce una scelta legislativa che, accanto a indubbie ricadute positive in termini di razionalizzazione e semplificazione procedurale in materie laddove molto spesso i procedimenti appaiono di pronta ed univoca definizione, sconta un indubbio arretramento sul piano delle garanzie difensive e soffre alcune criticità sul piano della prassi operativa.

Il rito de plano, infatti, sconta la difficoltà che al giudice pervengano elementi istruttori tali da configurare un quadro sufficientemente definito del contesto giuridico-fattuale sul quale fondare la decisione. Sotto tale delicato profilo, particolare rilievo avrà la possibilità – che può essere sollecitata dalla parte interessata – di una integrazione istruttoria officiosa disposta ove sia necessario acquisire una più completa conoscenza, anche se tale prassi dovrebbe trovare applicazione laddove l'istanza ha già superato il vaglio di ammissibilità e non riguardare, pertanto, l'acquisizione di elementi integranti le condizioni di ammissibilità dell'istanza (a titolo esemplificativo, non appare corretta un'eventuale integrazione istruttoria avente ad oggetto la richiesta all'interessato di produrre l'attestazione di avvenuto pagamento delle spese processuali o di adempimento delle obbligazioni civili derivanti dal reato; mentre sarebbe corretta la richiesta concernente l'esito di un procedimento penale di cui si faccia menzione nell'informativa delle forze dell'ordine acquisita agli atti).

Una tale accresciuta rischiosità sull'esito di istanze mal formulate imporrà all'avvocatura uno sforzo di diligenza nella predisposizione delle medesime, inteso ad evitare all'assistito la sanzione processuale dell'inammissibilità.

Occorre, comunque, interrogarsi se, sul piano costituzionale, sia corretto sacrificare all'altare dei criteri quali l'economia processuale e la massima speditezza, il diritto a un contraddittorio pieno. La Corte costituzionale ha ritenuto compatibili con il sistema delle garanzie costituzionali sull'equo processo i modelli di procedimento “a contraddittorio differito”, affermando “la piena compatibilità con il diritto di difesa di modelli processuali a contraddittorio eventuale e differito: i quali, cioè, in ossequio a criteri di economia processuale e di massima speditezza, adottino lo schema della decisione de plano seguita da una fase a contraddittorio pieno, attivata dalla parte che intenda insorgere rispetto al decisum (cfr., ex plurimis, rispetto al procedimento per decreto, Corte cost. 15 gennaio 2003, n. 8 e 23 dicembre 1998, n. 432 ed i precedenti ivi richiamati)” (Corte cost., 5 dicembre 2003, n. 352), atteso che “l'esercizio del diritto di difesa è suscettibile di essere regolato in modo diverso, onde adattarlo alle esigenze ed alle specifiche caratteristiche dei singoli procedimenti: purché di tale diritto siano assicurati lo scopo e la funzione” (Corte cost., 19 luglio 2005, n. 291).

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